sabato 1 marzo 2014

Fascista. Ricordati chi sei

Antifascisti e antifasciste di Roma

Sabato 1° marzo il Pineta Palace Hotel ospiterà una kermesse organizzata dal partito neofascista Forza nuova. Gli ospiti previsti sono rappresentanti di Alba dorata (Grecia), del British National Party (Gran Bretagna) e Democracia Nacional (Spagna): il fior fiore del neonazismo e del razzismo europei. In vista di questo appuntamento, nella serata di giovedì 27 una trentina di antifasciste e antifascisti romani  ha sanzionato simbolicamente l’hotel Pineta Palace: vista la loro disponibilità a ospitare sabato prossimo merda e ratti, abbiamo pensato che portargli in dono un po’ di sterco di cavallo e qualche decina di topolini vivi non avrebbe potuto fargli piacere. La vernice ha poi portato un po’ di colore in un ambiente triste e tetro.Forza nuova, Alba dorata, British National Party, Democracia National. Si tratta di quattro formazioni accesamente razziste e fieramente neonaziste, autrici di violenze contro immigrati, contro antifascisti,contro militanti politici e lavoratori. Come dimenticare, infatti, gli attacchi di Forza nuova contro concerti e luoghi di ritrovo antifascisti o gli assalti alle moschee e alle comunità musulmane incitati e promossi dall’islamofobo British National Party? Come dimenticare l’omicidio l’11 novembre 2007 dell’antifascista sedicenne Carlos Palomino, accoltellato in metropolitana a Madrid da un neofascista che si stava recando a una manifestazione di Democratia Nacional? Come scordarci che Democracia Nacional ha sempre difeso questo assassino, infangando la memoria di Carlos e facendo illazioni sulla sua famiglia? Come dimenticare l’omicidio, il 17 settembre scorso, del rapper antifascista Pavlos Fyssas, noto col nome di Killah P,accoltellato al cuore e all’addome nel quartiere operaio di Keratsini (Atene) da alcuni militanti di Alba dorata?

Queste quattro formazioni si incontreranno sabato prossimo a Roma, probabilmente decise a cercare una strada comune in vista delle prossime consultazioni per il parlamento Ue. Del resto, la vicinanza tra il leader di Forza nuova Roberto Fiore e quello del British National Party Nick Griffin risale agli anni ’80, quando il primo era latitante a Londra perché ricercato in Italia nell’ambito delle indagini per la strage della stazione di Bologna: insieme diedero vita, allora, a una nuova formazione neofascista, l’Internazionale Terza Posizione (ITP). Qualcosa che si vuole riproporre come cartello per le prossime elezioni europee?
Merda, topi, vernice e un po’ di disordine: è solo il minimo che può accadere – e continuerà ad accadere – a quanti decideranno di ospitare tali kermesse. Con Carlos, Pavlos, Renato, Dax nel cuore... noi non dimentichiamo, noi non perdoniamo!


venerdì 28 febbraio 2014

Sia lode a Ignazio Marino!

(nuovo)Partito comunista italiano





Che ne fosse consapevole o meno, Ignazio Marino, sfidando il governo Renzi-Berlusconi, dichiarando pubblicamente che “in marzo non ci saranno più i soldi per pagare i dipendenti, per il gasolio dei bus, per gli asili nido, per i rifiuti e neppure per le santificazioni dei due Papi. Se si dovessero licenziare 4 mila dipendenti, vendere Acea, liberalizzare [privatizzare, ma Marino non osa chiamare pane il pane, ndr] trasporti e rifiuti se ne occuperebbe un commissario liquidatore, non io”, ha mostrato la strada agli altri sindaci. Ha incitato tutte le organizzazioni operaie  e popolari a non accontentarsi di chiacchiere e dichiarazioni. In particolare ha anche incoraggiato i lavoratori addetti alla pulizia delle scuole, già in agitazione in tutto il paese, a non accontentarsi delle parole dei ministri e dei loro leccapiedi.
La crisi del capitalismo mette anche le amministrazioni locali davanti a un bivio: o diventare promotrici della mobilitazione e dell’organizzazione delle masse popolari ed esecutrici delle decisioni delle masse popolari organizzate ribellandosi al governo della Repubblica Pontificia e ai suoi mandanti della CI oppure diventare agenti dell’estorsione che questi mettono in atto contro le masse popolari.
Ben ha scritto (il manifesto, 28 febbraio) Marco Bersani, uno dei promotori del Referendum per l’acqua bene comune del giugno 2011 (chi si ricorda più della vittoria del Referendum, di nemmeno tre anni fa?):
“Sapientemente spogliati nell’arco degli ultimi quindici anni da un combinato disposto di misure, formato dal patto di stabilità interno, dalla drastica riduzione dei trasferimenti erariali, da vecchi tagli e più moderne spending review, fino all’iscrizione in Costituzione del pareggio di bilancio, gli enti locali sono ora cotti a puntino per divenire i più efficienti esecutori delle politiche liberiste, rese “inevitabili” dalla trappola del debito pubblico e dall’aver assunto come priorità indiscutibili i vincoli monetaristi imposti dall’Unione Europea.
Gli enti locali sono al centro del conflitto, in quanto ancora detentori di una quantità di beni – territorio, patrimonio immobiliare e servizi pubblici valutabili attorno ai 570 miliardi (stime Deutsche Bank del 2011) ed entrati da tempo nel mirino dei grandi capitali finanziari, alla disperata ricerca di asset (proprietà e attività redditizie, diciamo noi in italiano, ndr) sui quali investire l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie dell’ultimo decennio.
Non è certo un caso la trasformazione, in atto negli ultimi anni, di Cassa Depositi e Prestiti da ente per il sostegno a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali a SpA mista pubblico-privata che si pone come partner finanziario per il sostegno alle grandi opere, per la “valorizzazione” del patrimonio degli enti locali, per l’aggregazione in grandi multiutility della gestione dei servizi pubblici locali.
Se questa è la partita, appare a dir poco insufficiente l’indignazione del sindaco Marino con relative minacce di dimissioni. Ciò che sta per essere progressivamente dismessa è la funzione pubblica e sociale dell’ente locale in quanto tale, per trasformarne il ruolo: da erogatore e garante dei servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione degli interessi finanziari e speculativi su ogni settore delle comunità territoriali.”
Ben detto, non sapremmo dire meglio! Bisogna solo passare dalla denuncia alla proposta, dal dire al fare.

Ignazio Marino ha pubblicamente minacciato di bloccare la macchina amministrativa del Comune di Roma, di interrompere l’attività che svolge al servizio del Vaticano e della Corte Pontificia e di dimettersi e il governo Renzi-Berlusconi ha dichiarato prontamente che farà macchina indietro, che gli darà i soldi che vuole! Non sono ancora soldi, per ora sono solo ancora parole: ma mostrano una via di cui ogni amministrazione comunale può approfittare, di cui le masse popolari organizzate devono approfittare.
Non occorre aspettare le elezioni europee e le amministrative di maggio per mettersi all’opera. Anzi, proprio l’opera di oggi mostra le vere intenzioni e la capacità anche di quelli che si candidano per le europee e le amministrative!
Grazie a Ignazio Marino abbiamo avuto anche la dimostrazione plateale che la minaccia del commissariamento, agitata da vari sindaci, non ultimo De Magistris a Napoli, Pisapia a Milano e Pizzarotti a Parma, per giustificare la loro sottomissione al governo, è solo un pretesto.
Certo, non tutte le città e i paesi hanno il peso di Roma! Vero, ma la quantità fa qualità.
Non bisogna aver paura del commissariamento! È più un problema per il governo che per i sindaci. Che il governo dei vertici della Repubblica Pontificia (RP) assuma apertamente in proprio, con suoi commissari, l’amministrazione di centinaia di città e paesi, perché le amministrazioni locali rifiutano di fare gli esattori per conto del Fisco, delle banche e delle finanziarie, perché rifiutano di privatizzare servizi e beni demaniali, perché usano strutture, mezzi e risorse per attuare il diritto di ogni adulto a un lavoro utile e dignitoso, di ogni famiglia a una casa decente, di ogni persona a servizi pubblici di buona qualità, perché si fanno promotrici della mobilitazione e dell’organizzazione delle masse popolari per affrontare con misure concrete, sia pure provvisorie, gli effetti della crisi generale del capitalismo che devasta il nostro paese e sconvolge la società! 

Non ci sono scorciatoie per una vera riforma del rapporto fra lo Stato e le autonomie locali

Giuseppina Bonaviri

     
       Il presidente del consiglio, qualche giorno fa ha affermato che sarà urgente procedere all’approvazione della legge Delrio, impedendo, così, alle 45 province che a maggio sarebbero dovute andare alle elezioni di rinnovare i consigli provinciali per poi procedere ad un ridisegno degli enti di area vasta sovracomunali. Si è voluto definitivamente eliminare l’incertezza che permaneva sul futuro delle province salvaguardando, chissà, patrimonio di esperienze e competenze delle province italiane.
Due sono le tendenze che inquietano.
Una prima appare fare leva sulla profonda insoddisfazione per la scarsa funzionalità del nostro sistema regionale e locale, per giustificare oltremisura la riduzione delle loro entrate e per cancellare l’elezione diretta da parte dei cittadini delle province trasferendo le competenze di queste alle Regioni a cui, comunque, si riduce l’autonomia. Un disegno che riguarda la riscrittura dell’art.117 della Costituzione senza che risulti, tra l’altro, una ponderata e trasparente valutazione di quanto imputabile allo Stato e quanto alle Regioni e agli enti locali.
Una seconda è che se non si può negare che l’attuale assetto di competenze e funzioni, fra stato regioni ed enti locali presenti incongruenze su cui si debba intervenire, non rassicura l’idea che possa essere migliorato con qualche limitata soluzione poiché gli innumerevoli conflitti legislativi sollevati dinanzi alla Corte costituzionale, fra lo Stato e le Regioni, sono la conseguenza in parte dei gravi difetti del nuovo Titolo V approvato nel 2001 per la mancata attuazione delle nuove disposizioni causa resistenze degli apparati statali.
Ciò ha significato impedire il trasferimento organizzativo e del personale al sistema delle autonomie locali per tutte le aree che lo Stato avrebbe dovuto cedere non adottando nuove leggi a cominciare dalla riforma degli enti locali e di attribuzione ad essi delle loro funzioni ( “Carta delle autonomie”),  non  risolvibile con il tentativo di garantire loro forme di finanziamento attraverso la legge sul federalismo fiscale del 2009. Non a caso questa legge, in assenza di una chiara politica istituzionale in tema di Regioni ed enti locali, incontra nella fase attuativa reali difficoltà.
Le conseguenze sono rilevabili nel ritardo con cui procede il processo di modernizzazione dello Stato mentre in altri campi d’attività si assiste ad un “poderoso” cambiamento.
Per intervenire in modo fattivo occorre, adesso a cose fatte, avere un quadro preciso e realistico della situazione evitando l’ uso strumentale delle tante difficoltà esistenti o parteggiando per l’una  o l’altra delle soluzione elaborate in sede tecnica/politica. Il tempo a disposizione per un confronto serio è oramai assai breve, considerati anche gli interventi di natura costituzionale sul rapporto Stato-Regioni che si vorrebbero attuare nella presente legislatura.
L’idea è che la riforma del Titolo V debba limitarsi a porre in Costituzione l’indicazione delle relazioni tra i diversi livelli di governo, da regolare in base al principio di sussidiarietà, salvo restando la prevalenza dell’interesse nazionale in caso di conflitti.
Le Regioni, così, vedrebbero valorizzata la loro funzione legislativa, svolgendo un ruolo d’indirizzo del sistema delle autonomie locali e smentendo quella idea di deriva -a cui sembrano destinate- di terminale dello Stato con conseguente inaridimento della funzione programmatica e di rappresentanza delle realtà territoriali.
Nell’immediato, nel Lazio ciò significa definire le funzioni delle Città metropolitane, di Roma- Latina-Frosinone oltre a quelle nuove forme di governo territoriale, a cominciare dagli assetti per i servizi di area vasta. Di non secondaria importanza sarà anche la definizione delle funzioni trasferite a Roma Capitale e la condivisione, da parte di questa, delle scelte di assetto del territorio di rilevanza regionale.  
Un tema ancora tutto da definire perché si diventi realmente una Italia delle autonomie territoriali.   

giovedì 27 febbraio 2014

Rappresentanza, Fiom e minoranze non partecipano al voto del direttivo Cgil: "Testo inaccettabile"

Fabio Sebastiani


Duro scontro con la Fiom oggi al Comitato direttivo nazionale della Cgil, dove era in discussione la modalità della consultazione sull’accordo del 10 gennaio. La Fiom, fatto praticamente inedito, ha abbandonato l’aula al momento del voto. Motivo del dissenso l’impossibilità di poter presentare le due posizioni sul testo nell’ambito delle assemblee nei luoghi di lavoro. 
Dopo un dibattito lungo e acceso, il 'parlamentino' ha approvato il documento ed il dispositivo su cui si svolgera' il 'referendum', con il netto dissenso anche dalle aree di minoranza del sindacato, La Cgil che vogliamo e la Rete 28 aprile non hanno partecipato al voto. Su 139 presenti, comunque, si legge nella nota della confederazione di Corso Italia, l'ordine del giorno e' stato approvato con un solo voto contrario, nessun astenuto e 16 componenti che non hanno partecipato al voto.

Maurizio Landini ha parlato di proposta "inaccettabile”, ed ha annunciato la convocazione del Comitato centrale della Fiom "per assumere le decisioni conseguenti”. Landini aveva formulato al Direttivo le richieste del Comitato centrale della Fiom: distribuzione del testo dell'accordo ai lavoratori e lavoratrici, assemblee con relatori che illustrino i diversi punti di vista, voto riservato ai lavoratori delle aziende aderenti a Confindustria da tenere contemporaneamente in tutte le regioni, al termine delle assemblee. Landini aveva infine chiesto l'adozione di "regole straordinarie che garantiscano la trasparenza della consultazione".
Nel mese di marzo, dunque, si svolgeranno le assemblee informative dei lavoratori, che saranno organizzate dalle categorie sindacali possibilmente unitarie con Cisl e Uil, al termine delle quali i lavoratori iscritti alla Cgil potranno votare sul quesito. Ci sara' una doppia urna perche' saranno chiamati ad esprimersi sia i lavoratori con contratti Confindustria e Confservizi, direttamente coinvolti dall'accordo; sia gli altri lavoratori che la Cgil prevede di coinvolgere in futuro. Nel corso delle assemblee sara' un unico rappresentante dei sindacati che hanno sottoscritto l'accordo a spiegare l'intesa ed i risultati dovranno arrivare entro il 4 aprile prossimo. I dissidenti in un documento consegnato al direttivo hanno duramente criticato le modalita' di voto scelte dal sindacato puntando il dito sia contro la vastita' della platea chiamata ad esprimersi sia contro la decisione di non rappresentare le ragioni del no nelle assemblee informative. Anche Giorgio Cremaschi non ha partecipato al voto contestando la legittimita' dell'accordo sulla rappresentanza sottoscritto dalla Cgil. A difendere a spada tratta l'intesa il leader Cgil, Susanna Camusso. L'accordo e' il punto di arrivo di un lungo percorso, avrebbe in sostanza ribadito in chiusura del dibattito, Camusso.
Il quesito varato dal direttivo di questa sera chiama al voto non solo sull'intesa operativa del 10 gennaio ma anche sull'accordo quadro sottoscritto il 31 maggio del 2013: "Il Testo Unico del 10 gennaio 2014 sottoscritto tra Cgil Cisl Uil e Confindustria e con Confservizi del 10 febbraio 2014 e' nel giudizio del CD della Cgil positivo.Condividi questo giudizio e l'intesa del 31 maggio 2013 e il regolamento definito nel Testo Unico del 10 gennaio 2014?", si legge nella scheda che sara' distribuita ai lavoratori.
Il dibattito fiume sul dispositivo referendario ha fatto infine saltare l'analisi che il direttivo doveva compiere sulla situazione politica ed il governo Renzi appena insediatosi. Un nuovo direttivo, dunque, non escluso anche di domenica, potrebbe, a quanto si apprende, essere riconvocato a breve.

IL DIRETTORE GENERALE ASL IN VISITA AL PRESIDIO di ANAGNI

COMITATO SALVIAMO                    AZIENDA USL FROSINONE

OSPEDALE di ANAGNI           

Questa mattina il Direttore generale della ASL di FR,  Prof. Isabella Mastrobuono ha visitato l’Ospedale Civile di Anagni. Il comitato ha apprezzato stile di lavoro e disponibilità all’ascolto con l’auspicio che tutto possa  essere consolidato nel tempo. Al termine del sopralluogo nei locali del Presidio ospedaliero ha incontrato una delegazione di lavoratori  della ASL, rappresentanti sindacali e  rappresentanti del Comitato Salviamo l’Ospedale di Anagni. Alla Prof. Mastrobuono sono state evidenziate tutte le problematiche che affliggono i cittadini della zona nord della provincia di Frosinone soprattutto da quando sono stati chiusi i reparti di degenza dell’Ospedale di Anagni: la mancanza di una struttura per le emergenze a servizio di un’area  vasta che comprende, oltre che la zona industriale della  Valle del Sacco,  anche la zona montana degli Ernici e la stessa  Città di Anagni, centro studi  meta giornalmente di migliaia di studenti. L’insufficiente funzionamento degli ambulatori specialistici, sempre in conseguenza della chiusura dei reparti, la carenza della medicina territoriale per una efficace  assistenza domiciliare. Il tutto aggravato dalla nota inadeguatezza del Pronto soccorso del nuovo Ospedale di Frosinone e dalla difficoltà di accesso dei cittadini ciociari all’assistenza  nei reparti di emergenza della provincia di Roma, soprattutto presso l’Ospedale di Colleferro. Tutto questo mentre annualmente la ASL di Fr deve spendere milioni di euro per la mobilità passiva e l’acquisto di prestazioni straordinarie da parte del personale medico.
Il Direttore Generale Isabella Mastrobuono - nell’ottica di assicurare servizi utili al territorio e considerato che per riorganizzare il Presidio di Anagni non si può solo ragionare in termini di posti letto per acuti - ha proposto e si è impegnata a portare avanti un metodo di lavoro fondato esclusivamente su basi tecniche. Ha proposto un tavolo costituito da un gruppo di lavoro con operatori della Asl e rappresentanti dei cittadini (Associazioni, comitati, etc.) cui spetterà il compito di valutare cosa si fa ora nel Presidio di Anagni, con quanto  personale e  risorse e, quindi, vedere cosa potrà essere fatto con un progetto di riorganizzazione e riunificazione delle attività.
Ovviamente occorrerà tenere presente di  cosa ruota attorno al Presidio di Anagni sia come realtà territoriale che come altre strutture che si occupano di sanità: poliambulatori, pubblici o privati etc, etc.
Tutto questo potrà aprire nuovi spazi a nuove prestazioni, anche integrate con quelle più tipicamente sociali.

mercoledì 26 febbraio 2014

Il reddito rende liberi II appuntamento

Osservatorio Peppino Impastato


Sabato 1 marzo presso la saletta dei soci Coop, in via Monti  Lepini a Frosinone, a partire dalle 16,30 si terrà la seconda parte del seminario “Il reddito rende liberi”. Nel primo incontro del 22 febbraio scorso, abbiamo visto come la crisi quantitativa e qualitativa del lavoro, combinata con una forma di welfare inadeguato, abbia contribuito ad incrementare i livelli di povertà delle famiglie italiane rendendo quindi  indispensabile una forma di sostegno al reddito. In particolare, nel corso del primo appuntamento,    abbiamo ripercorso  la storia del lavoro e la sua incidenza sul progresso, o regresso,  civile e sociale    nelle società occidentali dalla rivoluzione  francese ad oggi. Congiuntamente a quest’analisi  sono state illustrate le inefficienze  e le inadeguatezze del nostro welfare state. In questo secondo incontro, ci concentreremo sulle diverse forme di protezione al  reddito. Ripercorreremo l’evoluzione storica  di questa misura , dalle prime espressioni arcaiche del ‘600, fino ad oggi. Analizzeremo  le differenze fra   reddito minimo garantito, reddito di cittadinanza universale, reddito base d’inserimento e dividendo europeo, specificando l’efficienza, in termini di protezione sociale,  i costi e le coperture  finanziarie necessarie  per   ognuna di queste forme.  Illustreremo inoltre le varie posizioni , favorevoli o contrarie a questa misura,   espresse da economisti e personalità del mondo accademico. 

Di seguito pubblichiamo i video proiettati nel corso del primo appuntamento.  La base di partenza, nel discutere sulla crisi del lavoro, riguardava la funzione sociale che questo ha rivestito dalla sua forma liberata, cioè dalla rivoluzione francese, fino ad oggi.  Il lavoro era ed è elemento distintivo del diritto di cittadinanza e di inclusione sociale, o è strumento di controllo sociale al servizio del capitalismo?  La frase emblematica “Il lavoro rende liberi” evoca la libertà civile, o l’immagine dei campi di concentramento?  E’ questo il senso della prima video clip, con le musiche degli Area, in particolare il brano Arbeit macht frei. La seconda clip con le musiche di Daniele Sepe  su un frammento del film di Charlie Chaplin “Tempi moderni”  è una rapida ma  efficace illustrazione del modello di fabbrica fordista.  Il paradigma taylorista-fordista-keynesiano è stato oggetto di un’attenta analisi nel seminario, inserito in un percorso partito dall’operaio di mestiere ottocentesco,  all’operaio di massa, fino al lavoratore precario figura tipica dell’era dell’accumulazione flessibile.  Altri video saranno proiettati anche nel secondo appuntamento di sabato prossimo.

martedì 25 febbraio 2014

Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili

di Giuseppina Bonaviri

Il 6 febbraio 2014 è stata la Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili, istituita dall’OMS nel 2003. Queste pratiche, che ovviamente non comportano benefici per la salute, sono internazionalmente riconosciute come una violazione dei diritti umani delle ragazze e delle donne bloccando le loro facoltà alla salute, alla sicurezza e alla integrità fisica. Riflettono disuguaglianze profonde di genere e rappresentano una forma estrema di discriminazione contro le donne. Essendo poi praticate sulle bambine costituiscono una grave violazione dei diritti dell’infanzia ed una forma di abuso sui minori. Si tratta di un fenomeno globale che lede lo stato più profondo dell’uomo.
Basti ricordare la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, la Convenzione europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali approvata dal Consiglio d’Europa nel 1950 entrata in vigore nel 1953 e la Carta sociale europea approvata dal Consiglio d’Europa nel 1961 entrata in vigore nel 1965 affinché ognuno di noi si possa sentire coinvolto, in prima persona, in una battaglia che oggi vede più di 140 milioni di bambine e di donne mutilate nelle parti più intime del loro corpo, di cui 500 000 nella sola UE. Anche in Italia, secondo l’ISTAT, ogni anno circa 35.000 donne e bambine immigrate sono vittime di mutilazioni genitali femminili.
 Il 20 dicembre del 2012 l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato una risoluzione per un bando universale delle mutilazioni genitali femminili, riconoscendo la pratica come violazioni dei diritti umani. Queste pratiche sono riconosciute come il modo più crudele, violento, umiliante, per avere il controllo totale sul corpo femminile e, proprio, su quell’organo da cui “scaturisce la vita”. La Commissione europea ha ribadito anche quest’anno, in un documento programmatico, la ferma intenzione dell’UE di lottare contro le mutilazioni genitali femminili (MGF) nell’Unione europea e oltre i suoi confini. In Italia per tutto l’anno 2014 si continueranno a promuovere iniziative di azione estrema per eliminare le MGF.
Per capire meglio il problema in collaborazione con l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) e con le istituzioni nazionali, si sono messe a punto indicatori che permetteranno stime più precise del numero di vittime reali e potenziali delle mutilazioni sulla popolazione di donne e ragazze. Anche l’Italia sta favorendo l'applicazione delle normative nazionali che vietano le mutilazioni per proteggere le donne a rischio sul territorio monitorandone il processo. Ne emerge un chiaro quadro sociale allarmante che sarà valutato da studiose e studiosi internazionali.
I migliori risultati finora riscontrati emergono tra quelli che hanno utilizzato forme di collaborazione-cooperazione  tra istituzioni nazionali e locali, società civile, apparati giuridici, mezzi di informazione che favoriscono la creazione di una rete ed una cultura favorevole all’eliminazione di queste terribile pratiche.
Al fine di realizzare uno strumento coordinato per il raggiungimento degli obiettivi di pari  opportunità previsti in Europa, Il Tavolo provinciale del Patto di solidarietà sociale sarà presente alla Tavola rotonda” Non chiamateci rose per infliggerci spine” che in settimana prossima si terrà presso L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma assieme a partner quali Amnesty International, Cuamm Medici con l’Africa, Sism-Ifmsa (Segretariato Italiano degli Studenti di Medicina membro della Federazione internazionale delle associazioni degli studenti di medicina) con la certezza che il nostro entroterra debba ripartire qualitativamente tramite progetti scientifici e protocolli innovativi che al centro vedano equità e stato di diritto, unici strumenti che ci consentiranno di andare oltre i limiti imposti dagli standard che politici locali e nazionali hanno voluto imporci in questo ultimo ventennio. Con la ferma certezza che anche la Ciociaria, tra le prime provincie della regione Lazio, possa finalmente diventare un posto ospitale per tutte quelle donne privilegiate perché eccellenti e, dunque, libere di pensare e di agire senza sottomissioni alcune

Renzi, giro di boa per il Pd

Rossana Rossanda . fonte http://www.sbilanciamoci.info/

Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro.

Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su REPUBBLICA da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.

lunedì 24 febbraio 2014

Aridatece li sordi

Luciano Granieri


Evviva le primarie!  Che bell’istituto ed esempio di alta partecipazione democratica! Se non ricordo male  l’anno scorso la coalizione “Italia Bene Comune” occupò i media nazionali con la campagna elettorale dei candidati premier del centro sinistra.  Bersani, Renzi, Puppato, Vendola e Tabacci, ma soprattutto Renzi e Bersani,  riempivano schermi  e pagine di giornali, sfrantumandoci i gabbasisi  sulle loro preferenze calcistiche e culinarie ,  spargendo a piene mani siparietti di vicinanza con il popolo,  e gite turistiche in camper vergati sobriamente con il proprio nome .  Fra rottamazione e usato sicuro si è consumato il rito democratico dei gazebo. Il popolo sovrano così si espresse: Candidato premier Bersani , Renzi sconfitto, grido di battaglia “mai al governo con Berlusconi”.  In quel dannato week-end di fine febbraio  il Pd vinse, anche se moderatamente le elezioni .  E oggi come è giusto che sia esprime il presidente del consiglio. Peccato che costui non sia Bersani, come decretato dal popolo riformista  ai gazebo, ma lo sconfitto, cioè Renzi.  Non solo ma il reietto Berlusconi, schifato da tutti i piddini,   oggi governa con il premier sconfitto alle primarie. Geniale è la forma di partecipazione al governo escogitata dal cavaliere. Una parte della sua schiatta, appoggia l’esecutivo   con l’apporto di ben tre ministri (Alfano –Lorenzin-Lupi) l’altra quella diretta emanazione del capo, da un lato esercita un’opposizione  finta, utile alla  campagna elettorale buona per le elezioni che verranno, dall’altro assicura appoggio esterno al governo  per continuare a curare gli affari suoi  e dei suoi lacchè.  Esprime un ministro: quella Federica Guidi così sensibile al conflitto d’interessi tanto da averne più lei di quanti capelli in testa c’ha Razzi. La appassionata berlusconiana   era stata culo  e camicia con l’amico imprenditore evasore fino al giorno prima di ricevere l’incarico a ministro.  Chissà cosa avranno concordato?  “Un’amica a capo di un ministero pesante come quello allo sviluppo  economico con delega alle telecomunicazioni, è un avamposto invalicabile per la difesa dei cazzi miei”, avrà pensato Berlusconi.  Dunque riepiloghiamo: il popolo dei gazebo Pd  aveva preferito Bersani a Renzi come  premier e si ritrova Renzi  a capo del  governo.  Gli elettori del Pd avevano votato un programma in base al quale i riformisti mai avrebbero dovuto governare con Berlusconi  e per tutta risposta l’esecutivo  guidato dal proprio rappresentante  marcia a braccetto con le colombe berlusconiani e stringe accordi extra governativi con i falchi diretta emanazione del padrone.   In mezzo a sto’ casino accade che il Pd, vincitore delle elezioni,  oggi si trova in minoranza.  Infatti al di la della ipocrita votazione al Senato,  in cui chi è favorevole vota contro e chi non è favorevole vota a favore,  il governo Renzi si regge con il sostegno di una minoranza del proprio partito, insieme al nuovo centro destra e la pattuglia delle frattaglie centriste, più l’appoggio esterno di Berlusconi.  Il resto del Pd, espressione dei militanti che avevano  eletto Bersani e si erano espressi contro il governo con il centrodestra, si trova all’opposizione,  malvisto dai grillini e un po’ compatito dagli ex compagni di Sel.  Un  ottimo risultato per una compagine che ha vinto le elezioni ai gazebo e nelle urne . A proposito, nel frattempo si sono tenute altre primarie, quelle per l’elezione del segretario del Pd.  In questo caso il disguido è stato meno grave.   Ci s'illudeva  di eleggere un segretario  di partito ed invece inconsapevolmente  si è eletto il presidente del consiglio. Certo le primarie….. bell’esercizio democratico! Ma…. “ridatece li sordi”

Nasce il governo Renzi Il nuovo comitato d'affari di banche e industriali

Claudio Mastrogiulio
 
 
Da quell'aprile del 2013 in cui Napolitano, appena rieletto Presidente della Repubblica, conferì l'incarico a Letta, molta acqua è passata sotto i ponti. Il governo Letta, nato sotto le insegne gaudenti della grande coalizione, fu santificato da tutti coloro i quali, servilmente, si genuflettevano agli interessi padronali del grande capitalismo nazionale ed internazionale.
Dopo dieci mesi di impasse istituzionale, conditi da scempi legislativi indirizzati a garantire e tutelare il privilegio, a scapito degli interessi della maggioranza dei lavoratori, pensionati, disoccupati e giovani, l'esperienza del governo Letta è terminata.
 
Il colpo di mano di Renzi
Quando a dicembre Renzi stravinse le primarie del Pd, in molti videro un'analogia con quanto accaduto durante il secondo governo Prodi (2006-2008), allorché Veltroni, nell'ottobre 2007, fondò, sotto la sua leadership, quello che sarebbe diventato il grimaldello politico ideale degli interessi dei grandi speculatori del capitalismo italiano, il Partito Democratico. L'analogia, dicevamo, consiste nel fatto che Renzi, nel momento in cui ha assunto le redini del proprio partito, s'è immediatamente posto l'obiettivo di scalzare ogni ostacolo che si frapponesse sulla via della realizzazione di uno strumento ancora più maneggevole per le esigenze del grande capitale italiano.
Così, e tanto basti per dare anche una rappresentazione sommaria della pochezza umana che connota gli atteggiamenti di questi grigi difensori dell'ingiustizia sociale, Renzi è passato, in soli due mesi, dal tranquillizzare il suo collega di partito Letta sul fatto che avrebbe garantito appoggio e stabilità, al sostanziare, di fatto, una sfiducia politica nei suoi confronti.
In un quadro di crisi economica che il capitalismo internazionale, e segnatamente quello italiano, non appare in grado di superare, è necessario per le classi dominanti, ad ogni latitudine, millantare delle presunte novità e rotture rispetto al passato, prospettando facce nuove nei posti chiave della gestione del potere.
E' in questo senso che va letta l'affermazione di Renzi, ma soprattutto del suo modo di presentarsi al grande pubblico come un soggetto che provi a superare le vecchie logiche cristallizzate nel tempo della politica italiana. Il suo “nuovismo”, che gli è valso tanto successo in tempi così rapidi, altro non è che la più antica tattica che il potere costituito utilizza per gettare fumo negli occhi dei dominati, vale a dire modificare la veste, la forma, con cui esso si presenta, senza cambiarne la sostanza.
“Cambiare tutto per non cambiare niente”, si potrebbe dire, “gattopardescamente” argomentando; ecco qual è il vero progetto politico che sottende all'affermazione del nuovo esecutivo borghese guidato da Renzi.
 
La squadra di governo
Infatti, nonostante l'aria fritta che caratterizza le uscite pubbliche renziane, alla prima prova dei fatti, qualora ce ne fosse bisogno, l'ormai ex sindaco di Firenze ha svelato la vera ed effettiva natura di classe del proprio operato. I nomi che compongono l'esecutivo, senza passarli in rassegna singolarmente, ma ragguagliando solamente sui ministeri chiave, evidenzia la necessità di garantire gli interessi confindustriali e dei potentati economici.
Per fare alcuni esempi, la nomina di Federica Guidi a capo del ministero dello Sviluppo Economico è un segnale evidente dell'affermazione di questo tipi di progetto; inutile ricordare che la Guidi è stata per molto tempo presidente dei Giovani di Confindustria, senza necessità di aggiungere altro. Al ministero dell'Economia è andato Pier Carlo Padoan, già capo economista all'Ocse, uno degli organismi su cui si incardina l'establishment del capitalismo europeo. Un personaggio che soddisfa l'assoluta necessità, da parte di Renzi e Napolitano, di rassicurare gli organismi internazionali e, soprattutto, i mercati borsistici e finanziari.
Appare ridondante sottolineare come in un momento di crisi economica di tale portata, i due ministeri appena ricordati siano di centrale importanza per tutto l'assetto del futuro governo. Si badi bene: non che se fosse stato nominato qualche altro politico ciò avrebbe determinato una differenza nella natura di classe del governo. Partendo dal dato di fatto che il potere politico non è altro che un sostegno, un orpello di cui il potere economico si serve per perpetrare il proprio dominio, possiamo arrivare alla conclusione che un esecutivo come quello di Renzi, che incontra il favore di importanti settori della finanza internazionale, oltre che del capitalismo nostrano, abbia una natura prettamente ed irrimediabilmente padronale e confindustriale.
 
Le politiche dei prossimi mesi
Al di là dei titoli dei giornali borghesi, quello di Renzi sarà un governo di assoluta continuità con quello del suo predecessore, il quale, lungi dall'essere stato immobile come vorrebbero far passare buona parte degli osservatori politici, ha seminato disastri sul piano sociale ed economico, garantendo sempre e comunque profitti smisurati per pochi padroni speculatori.
E proprio su questa linea di continuità si porrà il governo Renzi che, oltre a riforme ulteriormente restrittive sulla rappresentanza nelle loro istituzioni (vedasi la legge elettorale, c.d. Italicum), proporrà ancora politiche di lacrime e sangue per i lavoratori, pensionati, studenti e disoccupati. E lo farà (questa è l'idea della grande borghesia che per questo lo sostiene) potendo contare sull'immagine del "ricambio", del "nuovo", della "rottamazione" della vecchia politica. A questo serve l'alto tasso di ministri giovani.
Dunque, ciò che si modifica con questo nuovo esecutivo, è solamente il nome di coloro che servilmente andranno a garantire gli interessi dei poteri forti, in un'ottica di continuità di guerra sociale alle classi subalterne del nostro Paese per scaricare la crisi del capitalismo sulle masse.
Di qui la necessità sempre più forte e urgente di costruire una grande opposizione di classe, nelle piazze, alla borghesia e alle sue politiche, al suo governo. Da questa crisi economica internazionale si esce con un solo vincitore: o la borghesia o i lavoratori

Renzi - il potere e il tradimento

Barbara Spinelli. fonte http://www.listatsipras.eu/ 


È fatale: una volta che hai scelto Tony Blair come modello, per forza approdi al tradimento. Tradimento della sinistra e dell’Europa che pretendi risuscitare, tradimento di promesse fatte nelle primarie o nei congressi. Non dimentichiamo il nomignolo che fu dato al leader laburista, negli anni della guerra in Iraq: lo chiamarono il «poodle di Bush jr», il barboncino-lacchè sempre scodinzolante davanti alla finte vittorie annunciate dal boss d’oltre Atlantico. Non dimentichiamo, noi che ci siamo imbarcati nel bastimento della Lista Tsipras, come Blair lavorò, di lena, per distruggere il poco di unione europea che esisteva e il poco che si voleva cambiare. Fu lui a non volere che i Trattato di Lisbona divenisse una vera Costituzione, di quelle che cominciano, come la Carta degli Stati Uniti, con le parole: «Noi, il popolo....». Fu lui che si oppose a ogni piano di maggiore solidarietà dell’Unione, e rifiutò ogni progetto di un’Europa politica, che controbilanciasse il potere solo economico esercitato dai mercati e in modo speciale dalla city.
Renzi è consapevole di queste cose, o parla di Blair tanto per parlare? E il ministro degli Esteri Mogherini in che cosa è meglio di Emma Bonino, che al federalismo europeo ha dedicato una vita e possiede una vera competenza? Federica Mogherini ha concentrato i suoi interessi sulla Nato innanzitutto, e poi sull’Europa. Chissà se è consapevole della degradazione dell’Alleanza atlantica, nei catastrofici dodici anni di guerra antiterrorista. Ma ancor più inquietante è la rinuncia, in extremis, a Nicola Gratteri ministro della Giustizia. Questo sì sarebbe stato un segnale di svolta. La sua battaglia contro il malcostume politico e le mafie è la risposta più seria che l’Italia possa dare ai rapporti dell’Unione che ci definiscono il paese più corrotto d’Europa.

Non è ancora chiaro chi abbia lavorato contro la nomina di Gratteri. Forse il Quirinale, per fedeltà alle Larghe intese; di certo le destre di Alfano e Berlusconi, con il quale Renzi vuol negoziare le riforme della Costituzione. È stato detto che non è bene che un pm diventi guardasigilli. Anche qui, la rimozione e l’oblio regnano indisturbati: nel 2011, il Quirinale firmò la nomina del magistrato di Forza Italia Nitto Palma, vicino al Premier Berlusconi e Cosentino. Evidentemente quel che valeva per Nitto Palma è tabù per Gratteri. Il veto al suo nome è ad personam, e accoglie la richiesta della destra di avere un ministro «garantista» (garantista degli imputati di corruzione, di voto di scambio, di frode fiscale, ecc). Al suo posto è stato scelto un uomo di apparato, Andrea Orlando, che solo da poco tempo si occupa di giustizia, che ha fatto la sua scalata prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds, poi nel Pd. Nel governo Letta era ministro dell’Ambiente. Auspica – in profonda sintonia con Berlusconi – la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere dei magistrati.

Infine il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Recentemente ha preconizzato l’allentamento delle politiche di austerità, che aveva difeso per anni. Non ha neppure escluso l’utilità di una patrimoniale. Ma di questi tempi tutti, a parole, sono contro l’austerità. Vedremo cosa Padoan proporrà in Europa: come passerà - se passerà - dalle parole agli atti. Al momento non vedo discontinuità tra lui e Fabrizio Saccomanni. Naturalmente può darsi che Renzi farà qualcosa di utile per l’Italia: prima di tutto su lavoro e fisco. Non mi aspetto niente di speciale sull’Europa, per i motivi che ho citato prima.

Non credo nemmeno che creda in quel che è andato dicendo per mesi: «Niente più Larghe Intese!», o «Mai a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale». Altrimenti non avrebbe guastato tante parole nel giro di poche ore, giusto per andare a Palazzo Chigi e presentarsi - terzo Premier nominato - in un Parlamento di nominati. 

domenica 23 febbraio 2014

LUCIA FABI e ANGELINO LOFFREDI RICORDANO IL PASSAGGIO E LA FINE DELLA GUERRA A CECCANO

   Angelino Loffredi e Lucia Fabi 


A settanta anni di distanza come ricordare il passaggio e la fine della guerra, le violenze e le devastazioni subite dalla nostra popolazione e la nascita della nuova democrazia?
Chi deve farlo?
In queste prime settimane la Parrocchia di S. Maria a Fiume, in tre giorni, è riuscita a ricordare la distruzione e la secolare storia del Santuario. Ha raccolto testimonianze di cittadini e di ricercatori di storia locale facendo conoscere notizie inedite e espressivi momenti di storia cittadina.
Tale iniziativa dai risultati positivi dovrebbe spingere tutti a mantenere alta l’attenzione attorno a questioni e momenti che settanta anni fa riguardarono la vita della nostra comunità, pertanto, non volendoci sottrarre a tale impegno civile ci apprestiamo a sottoporre alla vostra attenzione alcune vicende poco conosciute e che meritano un approfondimento e altre, invece, che in questo periodo vanno emergendo.

Iniziamo con una notizia riportata, in data 26 febbraio 1944, nel “ Diario di guerra “ di Don Quirino Angeloni, sacerdote di Castro dei Volsci:
“Giovedi 25 febbraio, ore 9. Mentre si recava a potare le viti del suo terreno sito in territorio di Pofi, portando con se gli attrezzi di lavoro, viene catturato lungo la linea ferroviaria Polisena Giulio fu Carlo, sorpreso a tagliare per atto di sabotaggio contro l’oppressore tedesco i fili telefonici. Condotto a Ceccano, dopo breve e sommario processo, lo obbligano a scavarsi una fossa nelle adiacenze del Castello e dopo essere stato seviziato e fucilato, viene sepolto “
Polisena è di Castro dei Volsci e il luogo di sevizie e morte non è il Castello dei Conti, come si potrebbe immaginare, ma Castel Sindici, in Ceccano dove si era istallato un comando tedesco. Anche se tanti cittadini ceccanesi conoscevano da subito il luogo di sepoltura del Polisena questa brutta storia non è stata mai approfondita ma è solo riportata nel libro di Giacinto Minnocci “ Ciociari nella Resistenza “ uscito nel 1964.

Tommaso Bartoli, invece, è riuscito a trovare una lettera in cui si segnalano due uccisioni da parte dei tedeschi in territorio di Ceccano. 
Si tratta di una lettera che il sindaco di Ceccano Vincenzo Bovieri, il 1 settembre 1944, invia alla Commissione alleata di controllo per la provincia di Frosinone, dove viene riportato che il 17 gennaio 1944 soldati e graduati appartenenti al comando tedesco presenti nella zona La Spina in Ceccano, sono entrati nella proprietà di Francesco Zeppieri, nel territorio di Pofi, per razziare animali e derrate alimentari. Avviene un violento scontro e un soldato germanico colpisce Francesco alla spalla destra con un colpo di pistola. Nello scontro interviene il figlio Vincenzo che disarma il tedesco ma rapidamente viene immobilizzato dall’intervento di altri soldati e portato a Ceccano. Senza alcun processo viene impiccato ad un albero sulla provinciale via Gaeta ove rimane per tre ore. 
Non soddisfatti, i tedeschi il giorno successivo ritornano nella proprietà di Francesco Zeppieri e seppur ferito e nelle condizioni di non nuocere lo portano al comando de La Spina ove viene ucciso e seppellito insieme al figlio.
Il sindaco Bovieri nella lettera chiede un regolare processo per i responsabili di cui indica con precisione i nominativi, i gradi e i luoghi di provenienza. Elenca inoltre i testimoni e la presenza di un interprete.
Da testimonianze ricevute da Felice Masi, Colombo e Annunziata Mastrogiacomo possiamo aggiungere che l’albero dove venne impiccato il Vincenzo Zeppieri era un olmo collocato a fianco alla stradina che porta alla Cona che ricorda il Beato Grimoaldo. In quell’area si trovava il comando tedesco mentre una rimessa per automezzi si trovava nella proprietà Masi, dove oggi c’è un’attività commerciale. A poca distanza dal comando tedesco, nella proprietà Pizzuti, erano radunati cavalli a disposizione dei tedeschi. Da queste testimonianze, infine, viene fuori che l’interprete era un rivenditore di tessuti di Ceccano.

In un incontro tenuto il 1 febbraio con i professori Pietro Alviti, Gianluca Coluzzi e con tre classi del Liceo Scientifico e Linguistico di Ceccano abbiamo discusso sulla ricerca storica e ci è stato chiesto di collaborare con la scuola attorno ad una vicenda molto significativa. Gli studenti sono venuti a conoscenza attraverso un sito elettronico americano della presenza di due depositi di libri, 4.000 che in data 27 agosto 1944 giacevano in territorio di Ceccano: uno nella proprietà di Antonio Segneri, via Acqua Santa e l’altro in quella di Domenico Roma, via Sterparo. Si tratta di libri di letteratura scritti in inglese e francese e libri teologici, questi ultimi razziati dai tedeschi nella cattedrale di Pontecorvo. Tutti in pessimo stato di conservazione. Sempre lo stesso sito riporta che i libri il 25 novembre verranno portati, con un camion pesante nell’Abazia di Casamari per essere successivamente trasferiti a Roma presso la Sovraintendenza delle Biblioteche in via del Collegio.
Una sollecitazione che immediatamente abbiamo accettato e che in un tempo abbastanza rapido ci ha permesso di raccogliere anche altre importanti notizie che sinteticamente proviamo a riportare. Attraverso testimonianze di Pietro Aversa, Felicetta Segneri, Stanislao Lucchetti e Sebastiano Roma è stato possibile individuare con esattezza le località dei depositi ma ancor più abbiamo potuto accertare che lungo via Marano, istallati dai tedeschi esistevano un mattatoio, una officina, un centro trasmissione, due comandi militari, una cucina e una mensa.
Pietro Aversa, inoltre, ci ha fatto conoscere il luogo esatto, sempre su via Marano ove attorno al 1952 vennero disseppeliti i resti mortali di tre soldati tedeschi, sbandati e uccisi, forse nel sonno, da uno o più anonimi cittadini prima dell’arrivo dei soldati alleati.

Questi avvenimenti riportati sollecitano tutti a dare contributi diversi attingendo a fonti scritte, ora attraverso strumenti informatici che aprono nuovi e dirompenti scenari ma anche con testimonianze orali che molto spesso aiutano a confermare e capire meglio gli avvenimenti che bisogna sempre saper ricomporre. Esistono aspetti e momenti che in tutti questi anni non sono mai stati ben evidenziati: l’insieme delle proprietà civili requisite dai tedeschi, l’esatta dislocazione nel territorio dei comandi germanici, le abitazione danneggiate, il rapporto tra cittadini e tedeschi attraverso i lavori forniti dai cittadini nelle mense e negli altri servizi. Infine, la ricostruzione del passaggio dei marocchini, i combattimenti con le forze germaniche, le località toccate dal loro carico di bestialità e di violenza. E altre, tante questioni.
Sappiamo che professori e studenti del Liceo Scientifico e Linguistico di Ceccano si stanno impegnando attorno agli avvenimenti accaduti settanta anni fa. Non ne conosciamo i particolari ma siamo sicuri che il loro lavoro sarà molto utile e arricchirà notevolmente anche il patrimonio di conoscenza della nostra cittadina.

Lucia FABI Angelino LOFFREDI 20/02/2014

Antisemitismo, fascismo e sionismo: triangolazioni inattese - intervento di Fabio De Leonardis al convegno di Arezzo "I falsi amici" (7 dicembre 2013)

Forum Palestina


L’antisemitismo è cresciuto e
continua a crescere, ed io con esso.
Theodor Herzl1

L’Europa serve da terra natale a una parte
significativa del popolo ebraico da duemila anni [...].
Dopo di che, veniamo chiamati stranieri, allogeni,
e anche tra noi ci sono alcuni che sono disposti
ad accettare il sofismo dei nostri nemici e
giustificano con esso l’obbligo, per gli ebrei,
di lasciare l’Europa.
Shimen Dubnov2

Nel lontano 1994, ancora all’alba dell’era berlusconiana che oggi parrebbe volgere al tramonto lasciando dietro di sé un fardello di macerie materiali, morali e ideologiche, l’ascesa al potere del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, partito di esplicita ispirazione fascista, destò viva preoccupazione sia in Italia che all’estero. Negli anni seguenti quindi il MSI-DN, ribattezzatosi Alleanza Nazionale, compì una serie di passi volti a rassicurare i benpensanti in Italia e all’estero sulla propria genuina accettazione delle regole delle liberaldemocrazie, sostanzialmente riuscendo nel proprio intento. Fra queste ‘svolte’, particolare rilevanza ebbe la
visita in Israele compiuta nel 2003 dal suo allora segretario Gianfranco Fini, visita che di questo percorso di ‘democratizzazione’ fu considerato il punto d’approdo. Al di là della questione della genuinità o meno della scelta di Fini, questo episodio è significativo perché in esso emergono alcuni nessi impliciti sui rapporti tra sionismo e mondo ebraico, e tra sionismo e antisemitismo che sono diventati senso comune, e che proprio per questo vanno esplicitati e demistificati, mostrandone la natura ideologica.
Il fine politico del segretario di AN era quello di rendere visibile l’aver portato a pieno compimento la presunta abiura dell’eredità fascista, condannando tout court il nazifascismo per il suo crimine più mostruoso, la Shoah. Ora, poiché le vittime della Shoah sono state gli ebrei europei, e poiché la maggior parte dei sopravvissuti hanno trovato poi rifugio negli Stati Uniti o nell’URSS, logica avrebbe voluto che Fini visitasse i sopravvissuti stessi o i luoghi-simbolo del massacro come Auschwitz.
Fini si era effettivamente recato ad Auschwitz nel 1999, ma in occasione di quella visita aveva minimizzato la portata politica dell’evento, affermando che “Non si può mescolare un sentimento con la politica” e che il suo era stato “un atto doveroso. Null’altro” : l’aspetto politico, l’abiura ufficiale dell’eredità fascista, venne riservata alla visita al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, quattro anni dopo. Perché? Che Fini ne fosse cosciente o meno, il suo gesto più che un’abiura del fascismo fu un riconoscimento politico offerto al nazionalismo sionista, di cui egli confermava l’assioma fondamentale, ossia che lo Stato di Israele è lo stato di tutti gli ebrei del mondo, di cui sarebbe allo stesso tempo portavoce ufficiale e difensore d’ufficio (de facto riconosciuto come tale da diversi stati). Il presupposto che lo Stato di Israele sia l’erede morale e politico (nonché ‘esecutore testamentario’) dei sei milioni di ebrei sterminati dal nazifascismo e quindi unico autorizzato a parlare a nome delle vittime della Shoah è da tempo talmente parte del senso comune che nessuno mise in discussione il senso politico della visita, al massimo si discusse della sua maggiore o minore sincerità. Ma l’aver scelto di fare il suo atto di contrizione lì anziché ad Auschwitz fu significativo in quanto al tempo stesso confermava ed era la logica conseguenza di tale senso comune: Fini in sostanza riconobbe lo Stato di Israele come il “settimo milione”, per citare il titolo del libro di Tom Segev.
In realtà, tra sionismo ed ebraismo non vi è una relazione di identità, bensì di reciproca irriducibilità: il sionismo è una specifica ideologia politica emersa in tempi relativamente recenti, legata al variegato e spesso contraddittorio movimento nazionalista e colonialista che ha dato vita allo Stato d’Israele, laddove l’ebraismo è una religione dalla storia ben più lunga e a cui molti si sentono legati anche quando non sono veri e propri credenti e la considerano piuttosto un’eredità culturale. E la
storia dei rapporti tra ebraismo e sionismo, sebbene non lunga, è certamente frastagliata e lungi dall’essere univoca. Nel senso comune, però, i due coincidono: il sionismo è visto come l’incarnazione politica ‘naturale’ dell’ebraismo, e quindi, ça va sans dire, contrapposto all’antisemitismo; da questa deduzione implicita segue l’equazione secondo la quale l’antisionismo sarebbe automaticamente antisemitismo.
Allo stesso modo è un mito – ideologico quindi per definizione – l’idea che il sionismo sia, come movimento e come ideologia politica, intrinsecamente antitetico all’antisemitismo. È su questo mito che si basa la pretesa dello Stato d’Israele (che si vuole stato degli ebrei di tutto il mondo anche se la maggior parte degli ebrei non vive sul suo territorio) di essere il rappresentante e l’erede storico dei sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti, rivendicazione da cui esso trae la propria legittimazione morale e politica. Si tratta però di una costruzione ideologica priva di qualsiasi fondamento storico e/o giuridico, frutto di un’appropriazione in chiave nazionalistica della memoria dello sterminio. Gli argomenti concreti a sostegno di questa rivendicazione si riducono in sostanza a due, ossia al fatto che Israele abbia accolto i sopravvissuti e
che lo sterminio lo abbia privato di sei milioni di futuri cittadini.

Entrambe tuttavia non reggono alla prova dei fatti: se è vero che Israele ha accolto alcune centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti (circa 1/5 della popolazione dello Stato nei primi anni dopo la sua nascita) le cifre mostrano che solo l’8,5% dei 2.562.000 ebrei che tra il 1935 e il 1943 scamparono alle grinfie di Hitler e dei suoi carnefici si rifugiò in Palestina, mentre la stragrande maggioranza trovò riparo in Unione Sovietica (il 75,3%), e in misura assai minore negli Stati Uniti (il 6,6%) e in Gran
Bretagna (l’1,9%) (4). In secondo luogo, i sei milioni di ebrei trucidati non possono più parlare, e nessuno ha evidentemente il diritto di arrogarsi il ruolo di loro portavoce: se si considera inoltre che gli ebrei massacrati nei campi di concentramento erano rimasti a vivere in Europa finanche in un periodo di terribili persecuzioni, è ragionevole pensare che la maggior parte di loro non fosse sionista e non sarebbe andata a vivere in Palestina.
A dispetto di ciò, l’Agenzia Ebraica prima e lo Stato d’Israele poi hanno cercato sin dalla fine della guerra di accreditarsi come gli eredi politici e legali dei sei milioni di vittime della Shoah e di dare a questa connessione un fondamento giuridico: se già nel 1945 il presidente dell’Organizzazione Sionista Chaim Weizmann aveva chiesto (invano) agli Alleati di riconoscere all’Agenzia Ebraica palestinese il diritto di disporre delle proprietà degli ebrei assassinati rimasti privi di eredi (5) , nel 1950 fu proposto che lo Stato conferisse a titolo commemorativo la cittadinanza israeliana ai morti della Shoah (6). Nei primi anni ’60 David Ben Gurion sostenne la tesi che la Germania Federale avesse accettato di pagare ad Israele le riparazioni perché aveva “riconosciuto che questo Stato parla per conto di tutti gli ebrei assassinati”(7), ma, come chiarisce Tom Segev, le cose non stavano affatto così: Bonn aveva accordato ad Israele le riparazioni semplicemente “perché aveva accolto i superstiti”(8); considerato
però che non era stato l’unico paese a farlo né era stato quello che ne aveva accolti di più, la tesi di Ben Gurion era del tutto infondata. La ragione di questa insistenza nel reclamare l’eredità giuridica e politica delle vittime è solo in parte economica, essa mirava e mira soprattutto a conseguire il risultato politico di conferire una legittimazione morale inattaccabile all’esistenza dello Stato sionista.
Contrariamente a quanto il senso comune suggerirebbe, l’imbarazzante storia dei rapporti di collusione del sionismo con l’antisemitismo in generale e con il nazismo e il fascismo in particolare presenta diversi capitoli. Quando nel 1933 Adolf Hitler salì al potere in Germania, l’avvenimento suscitò grande apprensione nella comunità ebraica palestinese,timorosa di ciò che sarebbe potuto accadere agli ebrei tedeschi. Ben diverse furono invece le reazioni dei vertici sionisti, cui la vittoria dei nazisti appariva come un’opportunità per incrementare l’immigrazione: “le strade sono lastricate di soldi […] si presenta un’occasione irripetibile per costruire e prosperare”, scrisse Moshe Beilinson del Mapai (i sionisti laburisti) (9) o, per dirla con Ben Gurion, “una forza fertile” (10) per l’avanzamento dell’impresa sionista. La ragione di questa valutazione
apparentemente schizofrenica era che poiché i nazisti intendevano espellere gli ebrei tedeschi, l’Agenzia Ebraica avrebbe potuto accoglierli in Palestina e incrementare il peso demografico della locale comunità ebraica a fronte degli arabi palestinesi. Questa logica aberrante non deve stupire: le priorità dell’Agenzia erano sviluppare la colonizzazione ed edificare lo Stato ebraico, quindi gli ebrei tedeschi potevano interessarla solo nella misura in cui erano funzionali a questi progetti. L’Agenzia Ebraica concluse quindi con il governo nazista un accordo che fu detto della haavarah («trasferimento»): un certo numero di ebrei tedeschi avrebbero potuto trasferirsi in Palestina, portando con sé merci e capitali fino ad un valore di 9000 dollari. Ad occuparsi delle operazioni finanziarie relative al trasferimento sarebbero state delle società miste tedesco-sioniste alla cui gestione presero parte il Mapai, il sindacato Histadrut, il Fondo Nazionale Ebraico, l’Agenzia Ebraica e un finanziere polacco legato ai revisionisti (11).
Quanti si trasferivano perdevano intorno al 35% del capitale iniziale, che finiva nelle casse dei succitati enti, per cui se è vero che per mezzo di questo complicato meccanismo l’Agenzia Ebraica salvò circa 20.000 ebrei tedeschi (selezionandoli in base al censo), è altrettanto vero che essa allo stesso tempo lucrò sulle loro disgrazie, ottenendone congrui profitti che furono investiti nell’acquisto di terreni da colonizzare. Il paradosso era che grazie a questo sistema i tedeschi trovavano fra gli ebrei di Palestina un mercato per le proprie merci nello stesso periodo in cui diversi paesi, insieme alle associazioni ebraiche americane, promuovevano un boicottaggio dei prodotti made in Germany. Né peraltro i buoni rapporti fra i sionisti laburisti che guidavano l’Agenzia Ebraica, i centristi dell’Organizzazione Sionista Mondiale e il governo hitleriano si esaurirono con la haavarah: sempre nel 1933, al fine di migliorare le relazioni reciproche fu invitato a visitare la Palestina il barone von Mildenstein, nazista della prima ora, membro delle SS e predecessore di Adolf Eichmann alla direzione dell’Ufficio per gli Affari Ebraici di Berlino. Von Mildenstein fu accompagnato nel suo tour da Kurt Tuchler, delegato dell’Organizzazione Sionista per i rapporti col Partito Nazista, e raccontò le sue favorevoli impressioni sul giornale di Joseph Goebbels Angriff. Nel 1938 un altro delegato sionista, Teddy Kollek (futuro sindaco di Gerusalemme), incontrò a Vienna per questioni burocratiche Adolf Eichmann, di lì a qualche anno principale esecutore della “soluzione finale”. Incontri simili ebbero luogo fino al 1939, e coinvolsero persino i vertici della Gestapo.
La destra sionista, i cosiddetti revisionisti guidati da Vladimir (Zeev) Žabotinskij, contestò il patto e annunciò il boicottaggio della Germania, accusando i laburisti di essersi alleati ai nazisti. Ma in realtà anche la destra sionista non era del tutto estranea all’operazione haavarah, e la sua vicinanza ideologica all’estrema destra europea fece sì che l’accusa le si ritorcesse contro: la corrente revisionista più estremista era infatti guidata da Abba Ahimeir, fervido ammiratore di Mussolini, il quale affermava pubblicamente che la politica di Hitler era in tutto e per tutto condivisibile, a parte ovviamente l’antisemitismo12. Addirittura, nel 1940-41 la fazione Stern dell’Irgun, l’organizzazione armata della destra sionista, arrivò a proporre alla Germania un’alleanza militare contro la Gran Bretagna (13).
Non meno spregiudicati furono i rapporti che i sionisti ebbero con il fascismo italiano. A differenza del nazismo, quest’ultimo non fu antisemita fin dall’inizio, tanto che alcuni ebrei italiani ne furono addirittura sostenitori: fu il caso ad esempio dello squadrista torinese Ettore Ovazza, che nel 1935 fondò un gruppo ebraico fascista chiamato “La nostra bandiera”.
La vera svolta antisemita ebbe luogo soltanto nel 1938, con la pubblicazione del “manifesto della razza” e la promulgazione delle leggi razziali. Nei confronti del sionismo le attitudini di Mussolini erano ambivalenti: se i sionisti italiani gli erano sospetti per via della loro “doppia fedeltà” nazionale, verso il movimento sionista internazionale egli ebbe fino alla fine del 1936 un atteggiamento benevolo. Nel 1934, nel corso di due incontri con Chaim Weizmann e Nahum Goldmann, il dittatore italiano arrivò finanche a proporsi come loro protettore, sostenendo che i sionisti in Palestina dovevano costituire uno Stato vero e proprio e non accontentarsi del “focolare nazionale” promesso loro dalla Gran Bretagna (14). In una delle sue pagliaccesche boutades, Mussolini arrivò finanche a proclamare “Io sono (12) Si noti che la sezione tedesca del Beitar, l’organizzazione giovanile revisionista, continuò la sua attività in Germania sotto la protezione della Gestapo, con cui aveva regolari rapporti e dalla quale anni dopo ottenne persino l’apertura di un ufficio per l’emigrazione nell’Austria occupata, con gran disappunto di Žabotinskij. Il fondatore del sionismo revisionista stigmatizzò questo filohitlerismo dei suoi seguaci, ma il suo essere bandito dalla Palestina dai britannici nel 1930 e la sua precoce morte rafforzarono sempre più queste tendenze all’interno del movimento sionista, io”(15). La simpatia era ricambiata: in quel periodo, infatti, alcune singole personalità fra i sionisti generali (centristi) fecero intravedere
alle alte sfere del Ministero degli Esteri addirittura la possibilità di un mandato italiano sulla Palestina. Fu però con i revisionisti che Mussolini trovò un vero terreno d’intesa: in quello stesso 1934 infatti questi ultimi avviarono con l’Italia una concreta collaborazione, inviando alcuni esponenti del loro movimento giovanile Beitar alla Scuola Marittima di Civitavecchia. Alla base di questa disponibilità di Roma c’era l’intento di sfruttare i revisionisti come testa di ponte per un’espansione
dell’influenza italiana in Medio Oriente. A tale scopo nel febbraio 1936 fu inviata in Palestina una missione diplomatica incaricata di sondare il terreno. L’emissario di Mussolini, Corrado Tedeschi, riscontrò una notevole intesa ideologica con i militanti del movimento di Žabotinskij (16), e nel suo rapporto riferì entusiasticamente che secondo il suo accompagnatore Ben-Avi “molti fra i nativi ed i revisionisti [...] sono assolutamente tendenzialmente fascisti, e potrebbero in pieno far proprie la teoria e la
pratica del fascismo”(17). La collaborazione con i revisionisti continuò fino al 1937-38, quando i rapporti con Žabotinskij si guastarono. Alla base di questa rottura vi furono diversi eventi: dapprima il fallimento di una trattativa con Londra (condotta da una delegazione di ebrei italiani) per un ritiro delle sanzioni contro l’Italia per l’aggressione all’Etiopia (1935)(18), poi il riavvicinamento alla Germania e infine la decisione di Mussolini di autoproclamarsi nel marzo 1937 “protettore dell’Islam” per accattivarsi le simpatie degli arabi in funzione antibritannica, il tutto coronato nel 1938 dalla promulgazione delle famigerate leggi razziali. Si badi tuttavia che alcune personalità sioniste cercarono invano fino al 1938 di ricucire lo strappo, e la stessa Agenzia Ebraica nel suo comunicato di protesta prese atto “con soddisfazione dell’opinione del governo fascista che il problema ebraico universale può essere risolto in un solo modo: creando uno Stato ebraico”(19).
Beninteso, come è noto i sionisti non furono certo gli unici a fare patti con nazisti e fascisti: si pensi agli Accordi di Monaco del 1938 o al Patto Molotov-Ribbentrop; ciò che stupisce però è il carattere continuativo, non episodico, di questa collaborazione. Si tratta di un argomento su cui è estremamente importante evitare di prestare il fianco a qualsiasi strumentalizzazione, a causa della consueta accusa di antisemitismo con cui viene interdetto dal discorso pubblico chiunque critichi o metta in
discussione il sionismo (20), ma che non può assolutamente essere taciuto e merita un approfondimento. Come si spiega ad esempio la collaborazione prolungata del movimento sionista con la Germania nazista, dall’Accordo della haavarah del 1933 agli accordi sull’emigrazione del 1938, fino alla tragica vicenda dell’offerta “camion contro sangue” del 1944 (21)? Come si è già accennato, tali accordi erano “il frutto della complementarità tra gli interessi del governo nazista e quelli del movimento sionista: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina” (22): in tal modo, molti ebrei tedeschi, “la maggior parte dei quali
avrebbe preferito restare nel proprio paese” (23) , furono costretti a ‘sionistizzarsi’. La convergenza di interessi tra l’antisemitismo nazista e l’aspirazione sionista a “trasferire” gli ebrei europei in Palestina era chiara anche alla loro controparte: come ricorda Hannah Arendt, il criminale nazista Eichmann, uno degli artefici dello sterminio, dopo aver letto Lo Stato ebraico di Theodor Herzl “aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste” (24). Nel caso della destra alla convergenza di interessi si aggiungeva anche la prossimità ideologica (25)e certuni suoi dirigenti non facevano alcun mistero neppure delle loro simpatie per Hitler: se Abba Ahimeir teneva sul giornale revisionista Doar Hayom una rubrica intitolata “Taccuino di un fascista”, il suo avvocato e compagno di partito Zvi Cohen ebbe addirittura modo di affermare durante un processo al suo assistito che “se non fosse per l’antisemitismo, noi non avremmo nulla contro l’ideologia di Hitler. Il Führer ha salvato la Germania” (26).
Era quindi una convergenza di interessi oggettivi a costituire la ragion d’essere dello sviluppo di queste “relazioni pericolose” con il regime fascista e quello nazista. Questa politica tuttavia non costituiva un’aberrazione dovuta ad una congiuntura storica particolare, ma s’inseriva nel solco di una tradizione consolidata che affondava le sue radici nelle premesse ideologiche del sionismo. Per cogliere appieno il senso delle relazioni tra l’antisemitismo nazista e movimento sionista è necessario quindi riandare alle origini del sionismo come ideologia e come movimento 20 A questo proposito scrive la studiosa ebrea americana Judith Butler che l’accusa di antisemitismo contro chi critica la politica israeliana o mette in discussione il sionismo tout court costituisce uno strumento per “controllare il comportamento politico attraverso uno stigma insopportabile, [...] un dispositivo per il quale, a livello del soggetto, si sta realizzando ciò che è già esplicitamente in atto a livello della società in generale, ossia la delimitazione, la selezione di ciò che può essere ammesso e detto nella sfera pubblica.” (Judith Butler, “L’accusa di antisemitismo: gli ebrei, Israele e rischi di una critica pubblica”, trad. it. di F. De Leonardis, in Vite Precarie, a cura di O. Guaraldo, Roma, Meltemi, 2004, pp. 153- 4).

Caposaldo del sionismo è l’idea, emersa nella seconda metà del XIX secolo, che gli ebrei non siano semplicemente coloro che professano o si sentono in qualche modo legati alla religione ebraica, ma che costituiscano invece una vera e propria nazione. Sotto quest’aspetto il sionismo non si differenzia molto dal nazionalismo ebraico del Bund (abbreviazione di Allgemeiner yiddisher Arbeterbund, Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia), nato pressappoco nel medesimo periodo27; a marcare la peculiarità del sionismo è però il fatto che per esso l’autodeterminazione nazionale degli ebrei, intesa come oggettivazione della nazione in Stato, può aver luogo solo in una terra promessa d’oltremare, che per ragioni storiche, religiose ed emozionali è stata identificata con la Palestina. Con questo secondo passaggio, che non scaturisce necessariamente dal primo – è bene sottolinearlo (28) – il nazionalismo ebraico si trasformò alla fine del XIX secolo in un movimento di colonizzazione inserito appieno nell’espansione coloniale europea. Secondo i sionisti, quale che sia la corrente di appartenenza, il punto fondamentale è l’esistenza di un legame (di evidente derivazione romantica) tra suolo e popolo: l’esistenza degli ebrei della diaspora è vista in qualche modo come incompiuta, donde la necessità di ‘metter radici’ in un paese che sia esclusivamente degli ebrei. Il sionismo come ideologia si era sviluppato a partire dalla rinascita culturale ebraica della seconda metà del XIX secolo, che di fronte all’emancipazione e all’assimilazione esprimeva il desiderio di un ritorno alle radici culturali ebraiche (anche se in realtà si trattava piuttosto di
una reinvenzione, come sempre avviene con le “rinascite nazionali”), e costituiva una delle molteplici opzioni che si aprivano agli ebrei europei una volta usciti dal ghetto (29). L’emergere del sionismo come movimento politico organizzato, dapprima con gli Amanti di Sion negli anni ’80 dell’Ottocento e successivamente con la fondazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale (1897), è però legato ad una causa esterna : l’ondata di antisemitismo che si abbatté sull’Europa, e in particolare sulla Russia zarista (patria del 95% degli ebrei europei), dove a partire dal 1881 violentissimi e reiterati pogrom antiebraici fecero centinaia di vittime. L’odio antiebraico fu quindi il principale propulsore per lo sviluppo del sionismo come movimento politico, circostanza di cui quest’ultimo reca su di sé evidenti tracce, visto che il sionismo accetta e fa proprie le premesse dell’antisemitismo. Ciò è espresso in maniera esemplare nel testo fondativo del sionismo politico, Lo Stato ebraico di Theodor Herzl.
In questo celebre pamphlet Herzl scriveva di “comprendere l’antisemitismo” (30), e analizzando il cosiddetto “problema ebraico” argomentava che, poiché “i popoli presso cui vivono gli ebrei sono tutti quanti antisemiti” (31), una loro reale assimilazione non avrebbe potuto aver luogo se non in misura estremamente limitata: in questa maniera Herzl arrivava ad accettare la tesi antisemita della inassimilabilità degli ebrei, premessa da cui partiva la sua proposta di trattare quella ebraica come una
questione nazionale la cui unica soluzione sarebbe stata la fondazione – garantita dal sostegno politico di qualche potenza – di uno Stato ebraico dove gli israeliti potessero trovare un sicuro rifugio. Creato tale stato, profetizzava Herzl, la condizione degli ebrei si sarebbe “normalizzata” e l’antisemitismo avrebbe cessato di esistere “ovunque e subito” (32). Per spingere gli ebrei ad emigrare nella loro “terra promessa” Herzl intendeva servirsi proprio dell’antisemitismo: dalla partenza degli ebrei infatti i
paesi antisemiti avrebbero avuto tutto da guadagnarci, giacché i capitalisti gentili si sarebbero liberati in un solo colpo sia dei loro concorrenti israeliti che dei numerosi socialisti di origine ebraica. È significativo che per il fondatore del sionismo politico a definire l’ebraismo come una nazionalità e gli ebrei come un popolo fosse proprio l’antisemitismo: “siamo un popolo – è il nemico a renderci tale, anche senza che noi lo vogliamo” (33 ).
Nella sua visione gli ebrei si configuravano quindi non come una comunità religiosa, linguistica e/o culturale, ma come una comunità tenuta insieme da un comune nemico. Se l’identità ebraica era definita dagli antisemiti, era del tutto logico che Herzl facesse proprie le premesse dell’antisemitismo, e non era per mero artificio retorico che Herzl riproponeva nel suo pamphlet molti stereotipi antiebraici (“noi popolo avido” (34) , scriveva) o che egli non si ponesse affatto il problema della lotta all’antisemitismo e alle discriminazioni, giacché era in essi che il sionismo trovava la giustificazione per la propria esistenza. Qualora ci si attenesse alla definizione di “popolo” data da Herzl, con la scomparsa dell’antisemitismo verrebbe paradossalmente meno lo stesso popolo ebraico, un rischio che egli stesso scongiurava affermando che comunque gli ebrei, come altri popoli, avrebbero sempre avuto abbastanza nemici. Da quanto scriveva Herzl risulta chiaro in che senso sionismo e antisemitismo condividono la medesima premessa. Per dirla con le parole di Nathan Weinstock, Il sionismo subisce, in ultima analisi, il contagio del razzismo. Rivendicando non la specificità, ma l’alterità essenziale della propria condizione ebraica, cosa che postula l’ineguaglianza delle nazioni, fa sue le tesi antisemitiche. Facendo eco ai suoi persecutori, si raffigura “problematicamente” la propria esistenza in una società non ebraica, definendosi quindi come elemento perturbatore della armonia sociale. Spingendo l’alienazione fino al suo limite estremo, finisce con l’accettare il verdetto del razzista: l’ebreo deve scomparire. Atteggiamento sionista e mentalità antisemita sono simmetrici. […] Di qui una indiscutibile coincidenza d’interessi.(35) Il fatto che sionismo e antisemitismo partano dalle stesse premesse non vuol dire ovviamente che il sionismo sia antisemita, ma certamente lo pone non come l’antitesi dell’antisemitismo, bensì come il suo complemento logico e politico. Nella misura in cui il sionismo respingeva l’assimilazione e
poneva agli ebrei europei l’obiettivo politico del loro trasferimento en masse in Palestina, non poteva non trovare d’accordo gli antisemiti di ogni latitudine.
Di questo furono coscienti molti politici e intellettuali ebrei, sionisti e non, fin dalla nascita del movimento; valga per tutti l’esempio di Edwin Montagu, membro del governo britannico di origine ebraica, il quale nel 1915 osservò che “l’idea di restaurare il popolo ebraico nella terra che fu un tempo sua è spesso – temo – il desiderio a malapena mascherato di liberare il mondo protestante della sua popolazione ebraica” (37). Lo storico del sionismo Georges Bensoussan liquida quest’affermazione come “una forma di odio di sé” (37), che è la tipica strategia discorsuale utilizzata dai sionisti per delegittimare gli ebrei antisionisti: riducendo una presa di posizione politica a mero sintomo irrazionale di una presunta patologia psichica, si evita di affrontarne le argomentazioni logiche e politiche (38) ; Bensoussan infatti non trova nessun argomento reale da opporre a quanto scriveva Montagu, né può trovarlo, perché l’affermazione di quest’ultimo era una semplice constatazione: non a caso una delle prime proposte di istituzione di uno Stato ebraico in Palestina era stata avanzata da un antisemita, l’ungherese Viktor Istoczy, alla Conferenza di Berlino del 1878 (39) . Riassumendo la posizione degli ebrei antisionisti dei primi anni del Novecento, lo storico polacco Isaac Deutscher scrive che per essi “l’antisemitismo trovava il suo trionfo nel sionismo, il quale in pratica ammetteva come legittimo e valido il vecchio grido di «Ebrei, andatevene!». I sionisti, infatti, accettavano di andarsene”(40).
La conseguenza politica del rapporto di complementarità ideologica e politica tra sionismo e antisemitismo fu che Herzl e i suoi successori cercarono alleati soprattutto tra i politici europei antisemiti. Si capisce ora perché tutta la storia del sionismo sia costellata di patti e “relazioni pericolose” con eminenti antisemiti: dagli incontri di Herzl con il Kaiser Guglielmo II e con il ministro degli Interni russo von Plehve al sostegno di Arthur Balfour, feroce oppositore dell’immigrazione ebraica in Gran Bretagna
oltre che autore della celebre dichiarazione che garantiva ai sionisti l’appoggio di Londra nella costruzione del loro “focolare nazionale” in Palestina; dall’accordo antibolscevico siglato nel 1921 da Žabotinskij con il massacratore di ebrei ucraino Petljura ai flirt con i governi antisemiti polacchi e con l’Italia fascista (41), dagli accordi del 1933 e del 1938 con la Germania nazista fino alla campagna bombarola del 1950-51 contro la comunità ebraica irachena (una serie di attentati compiuti da una rete clandestina sionista ma attribuiti a fanatici locali, i quali ebbero la funzione di convincere gli ebrei iracheni che il paese mesopotamico non era più sicuro per loro e che dovevano emigrare in Israele) (42) : non si trattava né di malvagità né di opportunismo di singoli leader, bensì della necessità intrinseca del sionismo di servirsi degli antisemiti per spingere gli ebrei diasporici più recalcitranti ad emigrare in Palestina prima e in Israele poi. Un personaggio come l’esponente del Likud Moshe Feiglin, il quale non ha pudore nel tessere le lodi di Hitler, non è quindi un caso isolato di follia, bensì l’ultimo rappresentante di una lunga ed illustre lista.

Il debito ideologico del sionismo nei confronti dell’antisemitismo trova la sua massima incarnazione nella Legge del Ritorno del 1950 (cui sono stati aggiunti emendamenti nel 1954 e nel 1970) (43) , autentica pietra miliare dello Stato di Israele perché stabilisce il diritto di ogni ebreo a stanziarsi sul suo territorio e ad acquisirne la cittadinanza attraverso una semplice domanda, facendo di Israele non semplicemente lo Stato degli ebrei residenti in Palestina, bensì lo Stato di tutti gli ebrei del mondo. Detta legge, che definisce come ebrea “una persona che è nata da madre ebrea oppure si è convertita all’ebraismo e non è affiliata ad un’altra religione” (44) , estende il diritto a “ritornare” anche ai coniugi di un/a ebreo/a e a quanti hanno almeno un ebreo fra i quattro nonni, “fatta eccezione per una persona che è stata ebrea e si è volontariamente convertita ad un’altra religione” (45). È in questa definizione degli aventi diritto alla cittadinanza che la Legge del Ritorno manifesta le tracce della genealogia ideologica del sionismo, giacché i legislatori, non riuscendo a trovare una definizione di “ebreo” che potesse andare al di là di quella religiosa, hanno fatto ricorso a quella fornita dagli antisemiti: rientrano infatti tra i beneficiari della Legge tutti quelli che sarebbero stati considerati “ebrei” o “meticci” dalle famigerate Leggi naziste di Norimberga del 1935. In sostanza, la Legge del Ritorno è un calco a negativo delle Leggi di Norimberga. “Questa legge – ha appropriatamente detto in un’intervista l’ex-dirigente laburista israeliano Avraham Burg – è uno specchio che riflette l’immagine di Hitler, e io non voglio che sia Hitler a definire la mia identità” (46).
Alla luce di tutto questo, il sillogismo che equipara l’antisionismo all’antisemitismo risulta basato su premesse mendaci e su altrettanto mendaci conclusioni. Osserva a riguardo Judith Butler che Il mancato riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele può essere interpretato come un mancato riconoscimento del diritto all’esistenza del popolo ebraico solo se si pensa che Israele sia l’unica cosa che tiene in vita il popolo ebraico, o se si ritiene che tutto il popolo ebraico abbia affidato allo Stato di
Israele [...] l’esclusiva responsabilità della propria perpetuazione.(47)

Ma è evidente che Israele non è l’unica cosa che tiene in vita il popolo ebraico: questa possibilità è contraddetta dalla stessa narrazione sionista secondo la quale il popolo ebraico per 2000 anni non avrebbe mai cessato di voler ‘tornare’ in Palestina: se il popolo ebraico è sopravvissuto per 2000 anni senza Stato, uno Stato ebraico non è evidentemente una conditio sine qua non per la sua sopravvivenza (48). Inoltre se antisemitismo e antisionismo fossero la stessa cosa, osserva Isaac Deustcher, “allora gli ebrei esteuropei, nella loro stragrande maggioranza, non erano che degli antisemiti: una conclusione ovviamente assurda” (49) .
Beninteso, l’antisemitismo può anche essere antisionista, ma finché esso mira alla ‘pulizia etnica’ nei confronti degli ebrei e alla loro espulsione verso la Palestina, esso è stato e sarà sempre un alleato oggettivo dei sionisti. Questo non toglie che, di fronte alla prospettiva dello sterminio molti sionisti abbiano partecipato individualmente o come sezioni locali di organizzazioni internazionali alla resistenza antinazista (c’è l’esempio della Brigata Ebraica palestinese inquadrata nelle armate alleate): il caso di Mordechai Anielewicz, giovanissimo militante di Ha Shomer Ha Tza’ir ed eroico comandante della rivolta nel ghetto di Varsavia, è certamente il più noto, ma non l’unico. Non si tratta di negare o svalutare questo contributo, ma di rendersi conto che esso ebbe luogo a dispetto della posizione del movimento sionista in generale, e non grazie ad esso. È importante dirlo e ribadirlo, perché la tendenza oggi egemone è quella dell’appropriazione nazionalistica da parte israeliana della resistenza ebraica allo sterminio: il ruolo dei sionisti in quest’ultima viene enfatizzato oltre misura, e specularmente viene invece minimizzato il contributo del Bund, dei comunisti e più in generale dei non-sionisti; emblematico il caso di Marek Edelman, vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia e all’epoca militante del Bund, il cui libro sull’insurrezione ha dovuto attendere cinquantasei anni prima di essere pubblicato in ebraico, perché contraddiceva la versione dei fatti propagata dall’establishment israeliano (50). Parallelamente, invece, si tende a tacere il ruolo dei dirigenti sionisti che collaborarono attivamente allo sterminio in qualità di dirigenti degli Judenräte o dei corpi di polizia ebraica dei ghetti (fra i casi più importanti, vanno ricordati quelli di Chaim Rumkowski, Jacob Gens, Ephraim Barasz, Salek Desler, Moses Merin, Abraham Gancwajch) (51): un esempio emblematico di questa rimozione è il Dizionario dell’Olocausto di Walter Laqueur, che nelle voci dedicate a Gens, Rumkowski  e Merin tace sistematicamente la loro appartenenza a questa o quella corrente sionista.
È quindi paradossale, alla luce di tutto questo, che oggi lo Stato di Israele possa arrogarsi il ruolo di guardiano della memoria della Shoah e di garante della democraticità e dell’antifascismo di personaggi come Fini, tanto più che l’appropriazione in chiave nazionalistica della memoria dello sterminio degli ebrei va di pari passo con la minimizzazione o la negazione di altri stermini: lo Stato di Israele infatti non solo non ha riconosciuto il genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la Prima Guerra
Mondiale, ma addirittura il suo presidente Shimon Peres ha definito tale genocidio come mere “chiacchiere” e ha affermato che il numero dei morti armeni era “insignificante” (52). Inoltre, presentandosi come erede delle vittime dello sterminio e presunto garante dell’antifascismo, lo Stato di Israele si pone in una posizione discorsiva che gli permette di etichettare automaticamente i suoi nemici come nazisti e antisemiti: come spiega Idith Zertal, La nazificazione del nemico, quale che sia, e la trasformazione delle minacce alla sicurezza in pericolo di annientamento dello Stato, sembrano aver caratterizzato, salvo rare eccezioni, il discorso dell’élite politica, sociale e culturale israeliana. (53)
In questa visione ideologica e paranoica del mondo i vari Haj Amin al- Husayni, Gamal Abdel Nasser, Yasser Arafat, Saddam Hussein, Mahmud Ahmadinejad sono stati tutti in vari momenti dipinti come altrettante reincarnazioni di Hitler, come se la storia non consistesse in altro che in un’eterna ripetizione della Seconda Guerra Mondiale, senza alcun tipo di contestualizzazione storica concreta. Viceversa, i sionisti e i loro sostenitori si irritano terribilmente quando qualcuno paragona il modus
agendi delle forze armate dello Stato di Israele a quello dei nazisti, ma non trovano nulla da ridire invece se un alto ufficiale israeliano dichiara pubblicamente che Tsahal deve prendere esempio dalla tattica utilizzata dalla Wehrmacht nel ghetto di Varsavia (54 ): vale la pena ricordare a questo proposito che i primi ad equiparare il comportamento di Tsahal a quello dei nazisti furono proprio alcuni ministri del primo governo israeliano (55)
Analizzare criticamente questo passato di collusione tra sionismo e antisemitismo diventa quindi una necessità non solo di chiarezza storica, ma anche e soprattutto di demistificazione ideologica, onde rendere possibile una critica radicale del sionismo. Certamente questo spiacerà a molti, ma come ha ammonito a suo tempo Isaac Deutscher, “Gli israeliani [...] dovrebbero anche abituarsi all’idea che il loro stato non è esente da critiche: esso è un’opera terrena, non una sacra entità biblica, non uno
stato nazionale ‘eletto’ ” (56).

NOTE
1 Theodor Herzl, The Diaries of Theodor Herzl, trad. inglese e cura di M. Lowenthal, New York, Dial Press, 1956, p. 7 (traduzione mia).

2 Riportato in Georges Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale: 1860-1940, 2 voll., trad. it. di M. Guerra, Torino, Einaudi, 2007 [2002], p. 409.

3 Riportato in Francesco Verderami, “Fini ad Auschwitz: ‘L’ orrore più grande’ ”, Corriere della sera, 20 febbraio 1999, <http://archiviostorico.corriere.it/1999/febbraio/20/Fini_Auschwitz_orrore_piu_grande_ co_0_9902203335.shtml>.
4 Nathan Weinstock, Storia del sionismo, 2 voll. trad. it. di N. De Vito e P. Sinatti, Roma, Samonà e Savelli, 1970 [1969], p. 136.

5 Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, trad. it. di C. Lazzari, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001 [1991], p. 182.

6 Idith Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, trad. it. di P. Arlorio, Torino, Einaudi, 2007 [2002], p. 89.

7 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 307.

8 Ibidem.
9 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 18.

10 Riportato in Tom Segev, ibidem.

11 Ibidem. Sull’accordo della haavarah si vedano anche Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 2005 [1963], p. 68, e Faris Yahia, Relazioni pericolose: il movimento sionista e la Germania nazista, trad. it. di F. De Leonardis, Napoli, La Città del Sole, 2008 [1978], pp. 45-52.
13 Faris Yahia, op. cit., pp. 111-15.

14 I verbali degli incontri si trovano in appendice a Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993 [1961], pp. 512-24.
15 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 159.

16 Il testo completo delle relazioni di Corrado Tedeschi sulla sua missione in Palestina si trova in Renzo De Felice, op. cit., pp. 526-31.

17 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 526.

18 La colpa dell’insuccesso venne infatti attribuita al solito “complotto giudaico” (tradizionale topos antisemita), generando le prime frizioni con i sionisti revisionisti.

19 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 187.
21 Cfr. Tom Segev, op. cit., pp. 237-67 e Faris Yahia, op. cit., pp. 53-64 e 91-9.

22 Tom Segev, op. cit., p. 19.

23 Ibidem.

24 Hannah Arendt, op. cit., p. 48.

25 Cfr. David J. Goldberg Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista, trad. it. di P. Giordano, Bologna, Il Mulino, 1999 [1996], pp. 219-56 per una puntuale
critica del revisionismo di destra come versione sionista del fascismo.

26 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 22 e sgg.
( 27 ) In realtà, fra il nazionalismo ebraico del Bund e quello sionista sussiste un’altra sostanziale differenza: se i bundisti identificavano empiricamente nella lingua yiddish il segno che determinava il carattere di minoranza nazionale, e non solo religiosa, della popolazione ebraica dell’impero zarista (e quindi identificavano nazione ebraica e yiddishkeit, cfr. Georges Bensoussan, op. cit., p. 402-3 e Ilan Greilsammer, Il sionismo, trad. it. di R. Riccardi, Bologna, Il Mulino, 2007 [2005], pp. 50-1), i sionisti miravano invece alla rinascita nazionale attraverso il revival della lingua ebraica, che comportava l’abbandono delle lingue diasporiche – definite dal fondatore del sionismo politico Theodor Herzl, che invece auspicava che il sionismo facesse propria una lingua “maggiore” come il tedesco, “lingue del ghetto […] idiomi atrofizzati e limitati […] lingue di prigionieri che le avevano rubate” (Theodor Herzl, Lo Stato ebraico, trad. it. di T. Valenti, prefazione di G. Lerner, Genova, Il Melangolo, 2003 [1896], p. 90) – e una cancellazione dei tratti culturali e psicologici identificati come “tipici” della diaspora, in favore della costruzione di un nuovo homo Hebraicus.

( 28) Si può citare ad esempio lo storico e pensatore ebreo russo Shimen Dubnov (1860-1941) che pur essendo antisionista era anch’egli un nazionalista ebraico (proponeva l’autonomia degli ebrei all’interno dei paesi in cui vivevano); a differenza dei militanti del Bund, però, Dubnov non identificava l’ebraicità con il solo mondo yiddish, ma vi includeva tutti gli ebrei del mondo (cfr. Georges Bensoussan, op. cit., pp. 401-11 e Ilan Greilsammer, op. cit., pp. 52-3). Per quanti aderivano al nazionalismo ebraico dubnoviano gli ebrei erano sì una minoranza nazionale nei paesi dove vivevano, ma una minoranza nazionale autoctona, cosa che implicava, a differenza del sionismo, la lotta contro l’antisemitismo e per il riconoscimento dei propri diritti nazionali in loco. 

( 29)
 Sulle radici culturali del sionismo, che nella sua fase iniziale, come tutti i nazionalismi, trovò espressione soprattutto in ambito letterario e giornalistico e fu da subito legato alla rinascita della lingua ebraica, si rimanda a George Bensoussan, op. cit., pp. 3-126.
30 Theodor Herzl, op. cit., p. 23.
31 Theodor Herzl, op. cit., p. 34.
32 Theodor Herzl, op. cit., p. 100.
33 Theodor Herzl, op. cit., p. 39.
34 Theodor Herzl, op. cit., p. 69.
35 Nathan Weinstock, op. cit., p. 50. E infatti gli articoli di Herzl trovarono accoglienza sulle colonne del quotidiano antisemita La libre parole (ibidem).

36 Riportato in Georges Bensoussan, op. cit., p. 416.

37 Ibidem. Da notare che nella retorica sul presunto “odio di sé” è implicita l’equazione tutta ideologica tra sionismo ed ebraismo: se si ritiene che un/a ebreo/a,
prendendo posizione contro il sionismo, stia manifestando odio per la propria ebraicità, è sottinteso che il sionismo metonimicamente stia per l’ebraismo nella sua
interezza; poiché tuttavia l’ebraismo non può in nessun modo essere ridotto al sionismo, risulta palese l’inconsistenza delle premesse su cui si basa la retorica sul presunto “odio di sé”.

38 Un altro esempio tipico è quello di Robert Wistrich, che nella voce “Negazionismo” del Dizionario dell’Olocausto curato da Walter Z. Laqueur (ed. it. a cura di A. Cavaglion, trad. it. di A. Bassan Levi, G. Cantoni De Rossi, L. Pellissari, E. Recchia, A. Serafini, Torino, Einaudi, 2004 [2001], p. 501) include arbitrariamente tra i negazionisti l’autore di Zionism in the Age of Dictators (London, Croom Helm, 1983) Lenni Brenner, sostenitore a suo parere di una “tesi delirante, che [...] comportava una revisione radicale dei tragici eventi della seconda guerra mondiale”:
la “tesi delirante” di Brenner in realtà non comportava nessuna revisione storica se non quella del mito nazionalista che presenta il sionismo come irriducibile avversario
del nazismo; quanto affermava Brenner era né più né meno che un dato di fatto, ossia che i sionisti avessero fatto dei patti con i nazisti prima della guerra e che in  seguito “avessero cinicamente approfittato dell’Olocausto anche dopo che i loro capi avevano colluso con i nazisti nel genocidio degli ebrei” (ibidem). Definendo la tesi di Brenner “delirante” Wistrich retoricamente evita di affrontare l’argomentazione dello studioso americano (che essendo ebreo è difficilmente tacciabile di antisemitismo), sancendone la pertinenza nell’ambito della psichiatria. Ma è lo stesso Wistrich a confermare involontariamente l’arbitrarietà dell’inclusione di Brenner tra
i negazionisti, quando afferma nella stessa frase che “Più che di una negazione dell’Olocausto si trattava di una tesi delirante” (ibidem). Brenner, in realtà, nel suo libro non nega affatto l’Olocausto.
39 Georges Bensoussan, op. cit., p. 397.

40 Isaac Deutscher, L’ebreo non ebreo e altri saggi, a cura di T. Deutscher, trad. it. di F. Franconeri, Milano, Arnoldo Mondadori, 1969 [1968], p. 82. A questo proposito è indicativo un parallelo con quanto avvenuto di recente in Italia: uno dei più esagitati istigatori della pulizia etnica contro i rom, il segretario nazionale della
Fiamma Tricolore Luca Romagnoli (un fascista dichiarato), ha proposto al parlamento europeo la creazione di uno Stato rom in Europa orientale.

41 Tom Segev, op. cit., p. 24; Georges Bensoussan, op. cit., p. 1246.
42 Ilan Pappé, A History of Modern Palestine. One Land, Two Peoples, Cambridge, Cambridge UP, 2004, p. 177; David Hirst, Senza pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente, trad. it. di G. Lupi, San Lazzaro di Savena (Bo), Nuovi Mondi Media, 2004 [1977], pp. 204-11.

43 Il testo completo della Legge del Ritorno è reperibile in inglese sul sito della Knesset all’URL <www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm>.

44 The Law of Return 5710 (1950), Section 4B < www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm > (nostra traduzione).

45 The Law of Return 5710 (1950), Section 4A < www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm > (nostra traduzione).

46 In Ari Shavit, “Leaving the Zionist Ghetto” [intervista con Avraham Burg], Ha’aretz, June 9, 2007.
47 Judith Butler, op. cit., pp. 137-8.

48 Questo a prescindere dal carattere ideologico di detta affermazione, la quale presuppone l’esistenza di un solo popolo ebraico, astraendo dalle particolarità storiche delle molteplici esperienze dell’ebraismo e costruendolo come un soggetto omogeneo ed etnicamenente “puro” (come se tutti gli ebrei contemporanei fossero i discendenti degli antichi Ebrei, ignorando le conversioni che ebbero luoghi in diversi luoghi e tempi), laddove si tratta invece, secondo un classico procedimento nazionalista, della costruzione discorsiva di una “comunità immaginata” (cfr. Benedict Anderson, Imagined Communities, London-New York,Verso, 2006 [1983]). Risulta invece assai più rispondente al vero l’affermazione del rabbino e storico del pensiero sionista David J. Goldberg, secondo la quale l’idea che gli ebrei fossero una nazione è un mito, giacché gli ebrei “erano, e sono, diversi popoli ebraici” (David J. Goldberg, op. cit., p. 305).

49 Isaac Deutscher, op. cit., p. 82. Secondo Georges Bensoussan (op. cit., p. 405), nel 1898 i membri del movimento sionista erano circa 100.000, ossia solo l’1% degli ebrei del mondo.
50 Idith Zertal, op. cit., p. 27 e sgg.

51 Cfr. Faris Yahia, op. cit., pp. 65-90

52 Riportato in Norman G. Finkelstein, L'industria dell'Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, trad. it. di D. Restani, Milano, Rizzoli, 2002 [2000], p. 114.

53 Idith Zertal, op. cit., p. 185.
54 Riportato in Norman G. Finkelstein, ibidem.
55 Si trattava del ministro dell’Agricoltura Aharon Cisling, il quale nella riunione del governo del 17 novembre 1948, a proposito di alcuni massacri commessi dalle truppe israeliane ai danni di civili palestinesi, dichiarò di non riuscire a dormire la notte al pensiero che degli ebrei avessero “commesso delle azioni naziste” (riportato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, Cambridge, Cambridge UP, 2004, p. 488, nostra traduzione).

56 Isaac Deutscher, op. cit., p. 141.