sabato 28 gennaio 2017

Eleggiamo i delegati sindacali all'interno della Consulta

Luciano Granieri




L’inizio del nuovo anno ha visto protagonista, come primo movimento politico, la Corte Costituzionale.  La Consulta si è espressa sull’ammissibilità dei referendum inerenti il lavoro, proposti dalla CGIL, e sulla legittimità costituzionale della legge elettorale Italicum. A dire il vero già nel 2016 i giudici costituzionali avevano cassato il decreto  Madia nella parte riguardante la gestione di servizi pubblici a rilevanza economica. Tutti interventi volti a smontare norme licenziate dal governo Renzi, il che la dice lunga sull’effettiva capacità di questo esecutivo e dei suoi riformatori. 

In realtà fra le macerie di  tali  immondizie  rimane in piedi forse la legge più odiosa, quella che all’interno del jobs act elimina le tutele dell’art.18 . Infatti il quesito proposto dalla CGIL,  che chiedeva l’abrogazione della norma   funzionale alla sostituzione della reintegra di un lavoratore licenziato ingiustamente  con un semplice indennizzo economico da parte dell’azienda, non è stato ammesso alla prova referendaria.  Tale pronunciamento della Corte, emesso l’11 gennaio,  è stato oggetto di contestazioni.  I  giudici costituzionali sono stati accusati di aver fatto  politica, insomma  si è sollevato un vespaio di polemiche. 

Ebbene l’altro ieri la Consulta ha emesso e depositato le sentenze sulle motivazioni secondo le quali non ha promosso il referendum  sull’art.18, a differenza delle altre due materie  (voucher e responsabilità negli appalti)  a cui è stata concessa l’ammissibilità. In relazione alla bocciatura del quesito sull’art.18 la Corte  ha di fatto bacchettato la CGIL  perché, nel proporre l’abrogazione dell’interdizione alla reintegra, è stata troppo morbida. 

Nelle motivazioni si sostiene che “l’allargamento a tutti i settori  del limite dei cinque lavoratori per applicare le tutele reali in caso di licenziamento illegittimo (la reintegra in luogo del risarcimento monetario ndr) avrebbe indotto un assetto normativo sostanzialmente nuovo. La  CGIL ,cioè,  avrebbe dovuto chiedere  “l’abrogazione integrale del limite occupazionale”  dunque il conseguente ripristino dell’art.18 a tutte le unità produttive  senza alcun limite sul numero di addetti impiegati . Infatti, sostiene la Corte, “laddove non intenda abrogare l’opzione di base ma articolarla in modo differente, il quesito assume un tratto propositivo che ne determina l’inammissibilitàAd esempio,  il   referendum proposto da Rifondazione nel 2003, che estendeva la protezione dell’art.18 a tutti i lavoratori, fu ammesso perché intendeva abrogare nel suo complesso l’intera legge vigente.  

Rimanendo nell’ambito dei  tre quesiti posti dalla CGIL, quello sui voucher è stato ammesso proprio perché se ne chiede la completa abrogazione.  Il che rende anche difficile, se non impossibile, un intervento legislativo teso a scongiurare il referendum.  Infatti  qualsiasi modifica  finalizzata a rimodulare  la normativa  sui voucher sarebbe inutile, in quanto se ne chiede l’abrogazione totale.  

Dunque la Corte Costituzionale è più estremista della CGIL?  E’un giudizio suggestivo.  Di certo salta agli occhi il pressapochismo con cui è stato redatto il quesito sull’art. 18. E legittimo sale il dubbio se tale operazione non entri nel novero del modus operandi che caratterizza la CGIL, ma anche gli altri sindacati confederali. Cioè  la consuetudine riformista per cui  si fa finta di fare gli interessi dei lavoratori, mettendo in campo atti  dirompenti solo sulla carta. In realtà  la finalità vera di  certe azioni è quella di mantenere la pace sociale, tenere buoni i lavoratori scornati dall’ennesimo sopruso escogitato dal finanz-capitalismo.  Nello specifico, per scongiurare la protesta di piazza contro il jobs act,   si è proposta la più quieta via referendaria ad eliminazione  del  danno. Risultato: il jobs act è passato nella totale narcolessia sociale e il referendum abrogativo non è stato ammesso. Missione compiuta. 

PORTARE AVANTI IL PROGETTO SAXAGRES CON UN’INCHIESTA APERTA SUL TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI E’ DA IRRESPONSABILI”

Ufficio Stampa del Deputato Luca Frusone Movimento 5 Stelle


“C’è una questione abbastanza preoccupante che sta andando avanti in provincia di Frosinone in spregio a quanto accaduto in questi giorni e forse in spregio ad alcuni aspetti normativi e mi riferisco al progetto dell’azienda Saxa Gres di Anagni, sul riutilizzo delle ceneri dell’inceneritore di San Vittore come materiale per farci le piastrelle. Sono preoccupato perché innanzitutto bisogna dire che la maggior parte delle ceneri prodotte da quell’impianto, da quanto dichiarato dall’ISPRA, contengono scorie pericolose, ma anche se ora l’azienda dichiarasse che verrebbero utilizzate solo la minima parte di quelle non pericolose, vorrei capire chi garantirebbe questo oggi, con un’indagine aperta sul traffico illecito di rifiuti in provincia, che consiste proprio nell’aver scoperto che venivano conferiti rifiuti pericolosi come non pericolosi, grazie a un criminoso cambio di codici CER. Sono molto preoccupato in particolare della superficialità del sindaco di Anagni Bassetta, che ieri ha siglato un protocollo d’intesa con l’azienda, senza tenere conto dell’inchiesta in corso che rende tutto molto poco trasparente e dunque pericoloso per la salute pubblica.” – a dichiararlo è il deputato 5 Stelle Frusone che continua – “Ho deciso d’informare il ministro Galletti su quanto sta accadendo, anche perché c’è stato un parere negativo della Regione Lazio per questo progetto che non può essere non considerato, solo perché si vuole usare l’escamotage della “sperimentazione”. Il Decreto ministeriale 5/02/1998, come modificato dal DM 186/2006, è molto chiaro su questa materia, le ceneri non pericolose possono essere utilizzate solo in cementifici e quelle pericolose, che nell’inceneritore di San Vittore stranamente sono per la maggior parte ed è per questo che ho depositato un’interrogazione nel merito, non esiste addirittura alcuna normativa di riferimento per cui possa essere ammesso tale rifiuto. Chiederei dunque di procedere con molta cautela su questo argomento, perché di disastri ambientali questo territorio ne porta sul groppone già tanti e molti di questi, se non quasi tutti, sono dovuti all’incapacità, al pressapochismo e alla negligenza degli amministratori locali.”

venerdì 27 gennaio 2017

Da una parte, gli otto uomini più ricchi del mondo. Dall'altra, 3,6 miliardi di poveri

Diego Cruz


Il 16 gennaio scorso uno studio della Oxfam, un'organizzazione no profit che opera in diversi Paesi, ha mostrato la distribuzione della ricchezza nel mondo. Gli otto uomini più ricchi del pianeta, detengono un patrimonio equivalente alla ricchezza totale posseduta dalla metà più povera del pianeta, circa 3,6 miliardi di persone.
Questi otto signori detengono tutti assieme un patrimonio di 426 miliardi di dollari americani. La metà più povera dell'intera popolazione mondiale arriva a possedere appena lo 0,25% di tutta la ricchezza disponibile, stimata in 255 mila miliardi. I dati presentati nell'inchiesta "Un'economia per il 99%" sono stati raccolti da un rapporto del 2016 della banca svizzera Credit Suisse, unitamente alla lista dei super ricchi stilata dalla rivista americana Forbes.
Dal 2015, la parte che rappresenta solo l'1% dell'umanità detiene più ricchezza che tutto il resto della polazione mondiale messa assieme. Sempre nel 2015, le dieci maggiori imprese del mondo hanno fatturato più di 180 nazioni messe assieme.
Questa disuguaglianza è in costante aumento. Dal 1988 al 2011, mentre il reddito del 10% della popolazione mondiale più povera è aumentato in media di 65$, quello dell'1% più ricco è cresciuto di 11.800$, vale a dire 182 volte di più. Negli Stati Uniti, il reddito della metà della polazione più povera non ha subito variazioni, mentre quello dell'1% più ricco è triplicato.
Ma chi sono questo 1%? I 1.810 multimilionari della lista di Forbes sono quasi tutti uomini: l'89%. possiede una fortuna di 6.500 miliardi di dollari, l'equivalente di ciò che appartiene al 70% della popolazione più povera della terra.
Lo studio descrive infine le tante difficoltà incontrate dalle donne, come ad esempio avere e mantenere un posto di lavoro. Le possibilità di una donna di essere inserita nel mercato del lavoro sono del 27% più basse rispetto ad un maschio, e anche quando trovano un impiego, molte volte si tratta di lavoro nero, precario e sottopagato.
 
Un capitalismo più “umano”?Lo studio di Oxfam rappresenta un importante documento di denuncia e mostra bene una delle tendenze centrali del capitalismo: una sempre più crescente concentrazione della ricchezza col conseguente aumento della forbice tra ricchi e poveri. È una risposta precisa a coloro che ancora predicano “il capitalismo come il migliore dei sistemi possibili”. Per quale motivo oltre 700 milioni di persone devono vivere sotto la soglia di povertà in un mondo che produce 255.000 miliardi di dollari di ricchezza? Il problema sta proprio in ciò che viene proposto in questo studio: un capitalismo dal volto “umano”.
Partendo dal principio, più che corretto, che la attuale iper-concentrazione sia insostenibile, la Oxfam propone una serie di misure volte a ridurre tale disuguaglianza, una serie di riforme che conducano ad una “economia più umana”. Tali misure includono una maggiore democratizzazione dei governi e la cooperazione tra gli stessi a favore delle polazioni più povere, che la produzione industriale sia a beneficio di tutti e non solo per il guadagno di pochi, e infine che i grandi patrimoni vengano tassati per combattere l'evasione fiscale.
Come sottolinea lo studio stesso, la Banca mondiale, il Fmi e Barack Obama affermano le stesse cose: bisogna ridurre le disuguaglianze. Allora perché non si riducono? Perchè le differenze aumentano? Perché, al di là delle parole, i governi e queste agenzie multilaterali sono strumenti della borghesia e dell'imperialismo atti a mantenere e perpetrare questa situazione. Chiedere loro di agire contro i loro stessi interessi è come dire ad uno scorpione di pungere sé stesso. Non succederà mai.
I governi non coopereranno mai contro gli interessi di chi rappresentano. Le aziende non andranno mai contro la logica della loro esistenza: la massimizzazione del profitto. Le stesse nazioni non possono cooperare perché gli interessi delle diverse borghesie sono inconciliabili e, di conseguenza, l'imperialismo cercherà sempre di sfruttare i Paesi coloniali e semi-coloniali. Quindi, dobbiamo lottare contro i vari governi per imporgli di adottare misure come la tassazione dei grandi patrimoni e delle transazioni finanziare, come proposto dall'economista francese Thomas Piketty? Sicuramente noi dobbiamo opporci al sistema di tassazione iniquo che penalizza i più poveri e chiedere imposte sulle grandi fortune. Ma questo risolverebbe realmente il problema?
La questione è che Oxfam, Piketty, e altri che propongono un capitalismo dal volto umano (ad esempio la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, molto dibattuta ad inizio millennio), non toccano il centro del problema: il capitalismo è un sistema economico che funziona sulla base dello sfruttamento di una classe sopra un'altra classe che rappresenta la maggioranza della polazione. La classe lavoratrice, l'unica che realmente genera la ricchezza, contradditoriamente gode solo di un infima parte di ciò che produce. La restante parte è appannaggio esclusivo dell'1% della polazione mondiale.
La crescente disuguaglianza è il riflesso di questa contraddizione. La posizione di Oxfam parte dal presupposto che l'esistenza di padroni e lavoratori sia legittima, o meglio, che sia giusto che alcuni lavorino e altri vivano di questo lavoro. Per loro sarebbe sufficente che i padroni avessero un briciolo di “umana coscienza” e rendessero un poco più sopportabile la vita per tutti i lavoratori.   Un'utopia reazionaria.
Il problema non è una mera redistribuzione del reddito. La tassazione dei grandi patrimoni non risolve il problema e la questione di fondo non è nemmeno il fatto che i ricchi pagano poche tasse. Tutto ciò che i ricchi possiedono, al di là della consistenza del loro patrimonio e delle tasse che pagano, è il frutto del lavoro della classe che sfruttano.
Lo sfruttamento e non la redistribuzione della ricchezza è il vero problema.
Questo sfruttamento non avrà mai fine senza la caduta del sistema su di esso basato: il capitalismo.

giovedì 26 gennaio 2017

27 gennaio giorno della memoria. Per non dimenticare.

Andata e ritorno



di Emanuele Galli “LoSciur”
Mi chiamo Giovanni, sono nato in provincia di Como nel 1923, e racconto ogni 25 aprile questa storia da più di sessant’anni, perché non si perda la memoria di ciò che per alcuni di noi ha significato essere un emigrato italiano nel Reich dopo l’8 settembre 1943.
La Germania era diversa da come me l’ero immaginata quando avevo accettato di andarci. La paga per la manodopera operaia era tre volte quella italiana, dicevano, e le condizioni di vita erano ancora buone. E in Italia, comunque, un lavoro non ce l’avevo più. Era il 1942 quando mi hanno chiesto di scegliere tra l’esercito italiano e il lavoro tedesco: mi è mancato il coraggio di fuggire e ho scelto il lavoro.
Non avevo mai preso il treno prima di quella mattina a Milano, usavo la bicicletta per girare tra i campi. Durante il viaggio continuavo a ripetermi che con i soldi che avrei guadagnato in Germania avrei potuto aiutare la mia famiglia a stare meglio: pensare a loro e a quando sarei ritornato a casa era l’unico modo in cui riuscivo a tenere l’ansia sotto controllo. Saliva gente in tutte le stazioni dove il treno si fermava e si fermò molto più di quanto io mi aspettassi. Dell’Italia vista dal treno ricordo la gente abbracciarsi prima di salire, e le mogli salutare i mariti lasciandogli pane, biscotti e caramelle. Dell’Austria ricordo la neve e altre persone che ancora salivano. Era curioso come tutti salissero e quasi nessuno scendesse.
Il treno arrivò a Monaco che era ormai notte e la prima cosa che attirò la mia attenzione quando scesi fu una grande cartina del Reich, posta proprio al centro della stazione. Scoprii poi che in tutti i luoghi pubblici erano affisse delle cartine della Germania, su cui c’era scritto “Ein Volk sind wir und in einem Reich wollen wir leben” (“Siamo un popolo e vogliamo vivere in un impero”) firmato Adolf Hitler, 30 gennaio 1934.
Mi ero sistemato in una stanza al secondo piano di un palazzo in periferia con altri tre italiani, uno dei quali mi faceva da interprete in caso di necessità: dopo quasi un anno avevo imparato poco di tedesco, il minimo necessario alla sopravvivenza. Non mi piaceva la Germania, non era come me l’aspettavo. Ci pagavano meglio che in Italia, è vero, ma del trattamento speciale da “camerati del lavoro” che ci avevano promesso non avevo trovato niente: discriminati e oppressi dai datori di lavoro tedeschi, sfruttati dai funzionari italiani che avrebbero dovuto difendere i nostri interessi.
Non c’erano certezze sulle voci che sentivamo a proposito dell’Asse che arretrava sul fronte russo. La corrispondenza con le nostre famiglie in Italia era sempre in ritardo e su quello che ci scrivevano eravamo incerti perché sapevamo della censura alle poste. Così scoprimmo dell’armistizio italiano solo qualche giorno dopo l’8 settembre.
Sono venuti a prenderci la notte stessa in cui avevamo saputo che l’Italia si era arresa. Quando si è aperta la porta ho capito subito cosa stava succedendo, perché l’avevo già visto capitare ad altri diverse volte. Dissero che dovevamo andare con loro perché era necessario verificare la regolarità dei nostri documenti di lavoro. “C’è un errore, noi non siamo ebrei” era una delle poche frasi in tedesco che la paura mi aveva insegnato, ma quella notte mi è uscita lo stesso in italiano e in italiano mi fu risposto: Niente errore. Rimasi impietrito, non riuscivo a credere che stesse capitando a me. Ci portarono in carcere, ci misero in fila e ci fu ordinato di stare zitti mentre ci controllavano i documenti: chi provò a fare delle domande fu preso a schiaffi. Non saprei dire quanto aspettammo. A un tratto ci gridarono di uscire e cominciammo a marciare verso Dachau.
La mattina arrivammo in un grandissimo capannone vuoto, avevo freddo e fame. Ci fecero levare i nostri vestiti e ci diedero delle vecchie divise della prima guerra mondiale. Poi ci portarono al comando e lì ci fecero spogliare di nuovo. Ci misero prima sotto una doccia gelida e poi fummo lasciati in piedi, nudi, per ore. Uno alla volta venivamo presi e portati alla visita medica dove facevano una prima selezione. Agli idonei venivano consegnati una divisa a righe grigia e blu, una giacca di cotone, un paio di mutande, un paio di calze e degli zoccoli; poi ci ritiravano i documenti e ci marchiavano con un numero tatuato sul braccio: per due anni il mio nome è stato 13.241.
Restai lì per circa una settimana, in una cella chiusa, che aveva solo uno spioncino in alto, poi fui trasferito ad Auschwitz, insieme a qualche altro centinaio di persone, a bordo di un treno con grandi vagoni in cui c’erano solo sacconi di paglia. Ci diedero delle coperte e ci caricarono. Viaggiammo per un paio di giorni senza sosta, dormendo dove c’era posto, perdendo ogni intimità e ogni pudore.
Ci era stato proibito di parlare tra noi e non sapendo bene il tedesco ho imparato presto a copiare come una scimmia i gesti degli altri prigionieri. Una volta arrivati ci diedero una scodella tonda di metallo e un cucchiaio, e ci raccomandarono di non perderli o farceli rubare perché non ce li avrebbero dati una seconda volta. Non ho più avuto nient’altro e da quel giorno ho portato la ciotola sempre legata in vita e il cucchiaio infilato nelle asole della giacca.
Al mattino sveglia, brodaglia, gabinetto e subito ai lavatoi. Erano lunghe vasche con sopra dei rubinetti, ma l’acqua era così poca che se non si era più che svelti non ci si poteva neppure lavare gli occhi. Il freddo era terribile e dovevamo essere pronti per l’appello, così cominciai a lavarmi un po’ la faccia con quanto mi davano da bere al mattino: metà l’ingoiavo e con quello che rimaneva mi bagnavo gli occhi. Almeno era qualcosa di caldo. Non ci cambiavamo mai. Da mangiare avevamo un po’ di sbobba e una patata per uno, niente di più. Era tutto così lontano da ogni abitudine civile che non riuscivo più a riflettere e a pensare, mi sentivo come se mi avessero ipnotizzato.
Sono rimasto abbastanza da perdere la cognizione del tempo. L’appello, d’estate come d’inverno, era alle cinque del mattino. Appell! Appell! Dovevamo stare con il braccio sinistro, quello con il numero, alzato in avanti finché l’operazione di controllo non fosse terminata: eravamo centinaia, migliaia di persone, e con la gente che moriva ogni giorno controllarci richiedeva tempo. Restavamo fermi per delle ore e quando avevano finito sentivamo Arbeit! Arbeit! I più deboli non reggevano e cadevano per terra: venivano picchiati, trascinati fuori e accatastati.
Il nostro lavoro era sempre diverso: a volte caricare grossi massi pesanti su carriole che dovevamo spingere per parecchi chilometri, altre lavorare i campi che venivano ingrassati con la cenere presa dai forni crematori. Altre volte ci portavano sulla ferrovia a svitare i bulloni e a spostare le rotaie. Eravamo sempre sotto il controllo dei soldati e dei loro cani. Chi non ce la faceva, come sempre, veniva colpito, fatto cadere a terra e trascinato via. Lavoravamo fino alle quattro del pomeriggio e da mangiare, dalle cinque della mattina fino a quell’ora, ci davano sempre e solo la solita indecifrabile brodaglia. Al rientro avevamo una sottile fetta di pane e un mestolo di una strana zuppa di erbe.
Chi si ammalava finiva nelle camere a gas: le persone venivano fatte entrare in fila indiana ed erano gli stessi prigionieri a dover aprire i rubinetti e vedere morire le proprie famiglie. Molti dalla disperazione si gettavano contro i reticolati dell’alta tensione.
Ho pensato più di una volta di essere già morto e all’inferno. Mi chiedevo: Perché? Cosa ho fatto?
Assistevamo impotenti a punizioni di una crudeltà a cui non avrei mai creduto, se non l’avessi vista con i miei occhi. Persone chiuse e incatenate in grosse gabbie fatte di pali di legno, giorno e notte, e bastonate a non finire per delle sciocchezze. A chi sporcava l’orlo del buco dei gabinetti veniva appoggiato il viso negli escrementi, facendoglieli pulire con la lingua.
Un giorno cominciarono a passare nel cielo un’infinità di aerei e i bombardamenti divennero presto quotidiani. I russi dovevano essere vicinissimi e di lì a poco fu impossibile continuare a lavorare. Restammo chiusi nelle baracche per giorni finché una mattina ci diedero viveri e coperte, aprirono i cancelli e in fila, con i soldati a fianco, ci incamminammo chissà per dove. Lungo la strada c’erano carri armati, cannoni e camion abbandonati, e soldati sbandati che si trascinavano con la testa china. Marciavamo tutto il giorno e di notte dormivamo nel bosco. Chi abbandonava la fila e si sedeva veniva ucciso con un colpo di pistola dall’ultimo soldato della colonna. Io camminavo senza rendermi conto di dove stessimo andando, pensavo solo a non fermarmi.
Una sera arrivammo alla periferia di una piccola città e ci accampammo in un fienile. I soldati ci abbandonarono durante la notte, ma trovammo il coraggio di uscire solo al mattino.
Eravamo finalmente liberi, ma nessuno di noi sapeva dove fossimo. Ero stato spesso privo di qualsiasi pensiero, ma il mio desiderio di tornare a casa e la mia voglia di camminare di nuovo da uomo libero mi avevano sempre sostenuto. Quando abbiamo incrociato i binari del treno ho cominciato a piangere e a seguirli, senza esitazione.
Negli anni a seguire ho pensato più volte ai partigiani che sono morti per liberare l’Italia: la nostra resistenza fu riuscire a mantenere la nostra identità, restare in vita quando il nostro destino era la morte.
La mia prima vita da emigrato italiano in Germania, cominciata più di due anni prima alla stazione di Monaco di Baviera, è finita quel giorno, alla stazione di Mauthausen, davanti alla stessa scritta che mi aveva accolto all’arrivo: “Ein Volk sind wir und in einem Reich wollen wir leben” (“Siamo un popolo e vogliamo vivere in un impero”).

racconto tratto dal sito: https://scheggediliberazione.wordpress.com

SPERO CHE L’INCHIESTA SUI RIFIUTI PROCEDA SPEDITA E SI FACCIA CHIAREZZA PER LA SALUTE DI TUTTI I CITTADINI

Ufficio Stampa del Deputato Luca Frusone, Movimento 5 Stelle


“Per anni abbiamo ascoltato politici che si vantavano del ciclo dei rifiuti della provincia di Frosinone, definendolo quasi un’eccellenza italiana, quando oggi si scopre che non era affatto così e che, anzi, tutte le preoccupazioni sollevate da me, dai consiglieri regionali del MoVimento 5 Stelle e da molti attivisti della provincia, su alcuni dati poco chiari o atti votati in Regione all’ultimo momento, erano più che legittime. Sono stato accusato persino di sensazionalismo per aver denunciato il fatto che non si ha chiarezza di come vengano smaltite in provincia di Frosinone le ceneri che provengono dall’inceneritore di Acerra, né quelle dell’inceneritore di San Vittore. Ora che la provincia è investita da un’inchiesta che mette sotto sequestro la SAF e la MAD e coinvolge decine di imprenditori che si occupano di smaltimento di rifiuti, da Cassino a Ferentino, passando per Ceccano e così via, il momento di dire basta al disastro ecologico in cui versa il nostro territorio.” –“Già a fine 2015 i consiglieri regionali M5S presentarono una mozione a Zingaretti nella quale si chiedeva espressamente di sospendere l’attività di smaltimento rifiuti della discarica di Roccasecca e l’immediata messa in sicurezza del sito. Questo perché Il comando dei NOE a seguito di alcune indagini sulle falde acquifere sottostanti la zona dove insistono il sito della discarica gestito dalla MAD e l’impianto di trattamento rifiuti, gestito dalla SAF spa, aveva riscontrato valori di concentrazione di inquinanti superiori ai valori limite, che mettevano a rischio la salute umana e l’ambiente. Nonostante la drammatica situazione denunciata, la Regione Lazio di tutta risposta approva assurdamente  l’ampliamento della discarica.” – “Ci sono molte persone implicate nella vicenda e spero che l’inchiesta vada avanti in modo spedito e che faccia chiarezza il più possibile su una questione che riguarda la salute di tutti. Io intanto ho depositato un’interrogazione per chiedere chiarezza sull’elevata produzione di scorie pericolose dell’impianto di San Vittore, perché anche la questione dello smaltimento di queste ceneri pericolose deve essere assolutamente approfondita.”


Sentenza Italicum, dichiarazione di Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato contro l'Italicum

«Il parlamento faccia il suo dovere e consenta alle italiane e agli italiani di eleggere tutti i loro rappresentanti su base proporzionale»

Dalla sentenza della Corte esce la conferma che avevamo ragione, l'Italicum era incostituzionale e conferma la validità della lotta degli ultimi anni per la democrazia. L’Italicum era una legge che presentava dei pericoli, per l’attribuzione di un premio di maggioranza senza soglia minima mediante l'escamotage del ballottaggio a livello nazionale. Il Governo ha ignorato gli appelli dei più eminenti costituzionalisti e specialisti del diritto. Per fortuna siamo arrivati alla Corte costituzionale prima di eleggere un altro Parlamento con una legge elettorale illegittima. Perfino la Renzi-Boschi prevedeva il giudizio della Corte prima dell'entrata in vigore di questa legge.
Un ringraziamento a tutti i gruppi locali e a tutti gli avvocati, che in tutte le regioni italiane hanno proposto ricorsi, con grande dispendio di energie, per farli arrivare alla Corte Costituzionale. Ora c'è da sperare di non essere costretti a ripescare l'iniziativa referendaria sui punti che la sentenza della Corte non ha risolto, per questo occorre che la prossima legge elettorale sia coerente con i principi della democrazia costituzionale.
Questo parlamento, che aveva manomesso la Costituzione e approvato un simil porcellum, ora dovrebbe con uno scatto di orgoglio approvare una legge elettorale che faccia pulizia degli aspetti che la Corte non ha risolto: essenzialmente premio di maggioranza al 40 % che si aggiunge alla soglia di sbarramento e una quantità veramente eccessiva di nominati dall'alto e non selezionati dagli elettori come i capilista, a cui si deve aggiungere la possibilità di un altro centinaio di deputati eletti con il premio di maggioranza se dovesse scattare.
Il prossimo dibattito sulla legge elettorale deve partire dalla sentenza di oggi, ma proseguire verso un sistema elettorale democratico di natura proporzionale; oggi resta un eccessivo premio di maggioranza in nome della governabilità che sopravanza la rappresentanza.
Il Parlamento deve essere lo specchio del Paese, più aperto a tutti gli apporti, se vogliamo riattivare la partecipazione democratica. Occorre restituire agli elettori il diritto di scegliersi i propri rappresentanti, cosa che non è assicurato dalla disciplina che risulta dalla parziale demolizione dell'Italicum operata dalla Consulta. In ogni caso si pone ora con urgenza la necessità che il Parlamento intervenga per rendere omogeneo il sistema elettorale nelle due Camere.

Sentenza Corte Costituzionale su Italicum.

Decisione sulla legge elettorale cd. Italicum 

Oggi, 25 gennaio 2017 (ieri ndr) , la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale della legge elettorale n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), sollevate da cinque diversi Tribunali ordinari. 

La Corte ha respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato. Ha inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale, ed è quindi passata all’esame delle singole questioni sollevate dai giudici. 

Nel merito, ha rigettato la questione di costituzionalità relativa alla previsione del premio di maggioranza al primo turno, sollevata dal Tribunale di Genova, e ha invece accolto le questioni, sollevate dai Tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova, relative al turno di ballottaggio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che lo prevedono. 

Ha inoltre accolto la questione, sollevata dagli stessi Tribunali, relativa alla disposizione che consentiva al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione il proprio collegio d’elezione. A seguito di questa dichiarazione di incostituzionalità, sopravvive comunque, allo stato, il criterio residuale del sorteggio previsto dall’ultimo periodo, non censurato nelle ordinanze di rimessione, dell’art. 85 del d.p.r n. 361 del 1957. 

Ha dichiarato inammissibili o non fondate tutte le altre questioni. All’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione. 

dal Palazzo della Consulta, 25 gennaio 2017


martedì 24 gennaio 2017

PRESIDIO- FIACCOLATA VERITA’ E GIUSTIZIA PER GIULIO REGENI



Il Partito della Rifondazione Comunista, Federazione di Frosinone, domani sera si fa promotore, nell’ambito della campagna avviata da Amnesty International Italia, di una mobilitazione che si svolgerà ad Isola del Liri, presso la cascata, per dire che quello di Giulio Regeni non è più un caso bensì un omicidio di stato. Alla luce delle nuove acquisizioni video, non può esserci più dubbio che il nostro giovane è stata vittima dei servizi segreti Egiziani. Ogni cittadino deve essere consapevole di ciò e per tale motivo, è stato chiesto all’Amministrazione Comunale  della città di Isola del Liri di predisporre la colorazione di giallo della cascata, colore che ormai simboleggia questa vicenda. Il Prc invita ogni singolo cittadino ad esser presente all’iniziativa a partire dalle ore 18:00 in Piazza XX Settembre.


Frosinone 24.01.2017                                                                   

Il Segretario Provinciale  Prc Paolo Ceccano

La lotta dei lavoratori Tim contro i tagli per la difesa del posto di lavoro

Mauro Mongelli lavoratore Telecom


Da alcuni mesi i lavoratori e le lavoratrici della Tim si stanno mobilitando con presidi e scioperi in tutta Italia, per contrastare la politica di tagli imposta dai nuovi vertici aziendali: le agitazioni sono iniziate a partire dal 6 ottobre 2016 e non accennano a placarsi.
Il maggior azionista di Tim, azienda che conta circa 50 mila dipendenti, sono ora i francesi di Vivendi, ed è diretta dall’amministratore delegato Flavio Cattaneo.
Nel corso dell’incontro del 6 ottobre 2016 i vertici aziendali hanno consegnato al coordinamento nazionale delle Rsu e alle organizzazioni sindacali la lettera di disdetta dei contratti integrativi del 14 e 15 maggio 2008, con efficacia 31/01/2017, e una proposta aziendale di rinnovo della contrattazione di secondo livello. Disdetta e proposte, tutte peggiorative, della contrattazione aziendale hanno l’obiettivo di far ricadere pesantemente sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici di Tim la riduzione dei costi di 1,6 miliardi di euro per il piano 2016/2018: gli accordi saranno lo strumento per “limitare il costo del lavoro e quello di produzione” con il ricatto della “salvaguardia dei livelli occupazionali”. Circa 30 mila lavoratori sono da 6 anni in contratto di solidarietà.
Alcune delle proposte contenute nelle ipotesi di accordo proposto dall’azienda sono: l’ingresso del Jobs act nelle scelte aziendali in termini di demansionamento dei lavoratori fino a 2 livelli ed il controllo individuale a distanza; l’imposizione di programmare i permessi ex-festività (permessi a ore usufruibili per motivi personali, familiari ecc.), la cui non-fruizione comporterà una contestazione di insubordinazione e quindi il rischio di licenziamento; la riduzione del valore dei buoni pasto per i lavoratori part-time; lo straordinario obbligatorio, non pagato, con recupero ore extra scelte dall’azienda; il blocco degli scatti di anzianità; per l’orario di lavoro viene introdotto il concetto di prestazione effettiva dell'orario settimanale e la flessibilità dell'orario di lavoro giornaliero (da un minimo di 5 ad un massimo di 10 ore); la riduzione delle ferie di 2 giorni; l’esternalizzazione di alcune attività.
In pratica, la nuova piattaforma prevede pesanti arretramenti sia normativi che economici, il tutto finalizzato, per la nuova dirigenza, al raggiungimento di un bonus pari a 55 milioni di euro, che prevedibilmente lascerà l’azienda una volta intascato (come dire “prendi i soldi e scappa”).
A fronte di tutto ciò i lavoratori si sono e si stanno mobilitando per mettere un freno a questa proposta scellerata. Scioperi a sorpresa, assemblee, presidi a cui partecipa il movimento degli autoconvocati “giubbe rosse” (vestiario in dotazione ai tecnici Tim) si sono svolti in tutta Italia.
Il 13 dicembre si è svolto lo sciopero, per l’intero turno di lavoro, indetto da tutte le organizzazioni sindacali (Confederali e sindacati di base) presenti in azienda. I sindacati di base lo hanno poi esteso a tutto il settore delle telecomunicazioni. Partecipatissime manifestazioni si sono svolte in 12 città, dando visibilità al malcontento e rabbia dei lavoratori e delle lavoratrici di Tim, che hanno risposto con un’altissima adesione a questo sciopero (in percentuale quasi l’80% di partecipazione). I lavoratori e le lavoratici della Tim non subiranno passivamente l’ennesimo attacco padronale e lotteranno per rispedire al mittente le proposte della contrattazione aziendale.
A ciò si deve aggiungere la lotta per il rinnovo del Ccnl Tlc scaduto il 31/12/204. Un settore, quello delle telecomunicazioni, che primeggia per cessioni, esternalizzazioni, delocalizzazioni e costanti peggioramenti nelle condizioni quotidiane di vita dei lavoratori e delle lavoratrici: il 2016 infatti si è chiuso con il dramma dei 1660 licenziamenti della sede di Roma del call center Almaviva contact.
I lavoratori e le lavoratrici del settore Tlc sono in lotta per ottenere un Ccnl, con più diritti e più salario, per respingere rinnovi contrattuali a perdere, come quelli firmati per i metalmeccanici, statali e chimici.

lunedì 23 gennaio 2017

Un musico per Trump

Luciano Granieri



L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca  ha sollevato molteplici problemi sin dall’inizio dei festeggiamenti per l’incoronazione. Disordini e scontri di piazza,  a Washington hanno segnato la cerimonia del passaggio di consegna  da Obama a  Trump , con tanto di scontri fra manifestanti anti Donald e la polizia. Le agitazioni sono proseguite nello scorso week-end con la marcia delle donne scese in piazza, in tutta l’America e in tutto il mondo contro il miliardario neo presidente razzista e sessista. 

Ma i problemi  erano iniziati ben prima,  meno rilevanti socialmente, ma  complicati  per la riuscita del cerimoniale. Non si è trovato uno straccio di cantante o “musico fallito”, per dirla con il poeta, disposto ad offrire al Presidente la sua musa creativa. Eppure,lasciando stare  Obama, per cui si è esibito il gotha del pop-rock americano ( Steve Wonder, Beyoncè, Alica Keyes fra gli  altri), anche  quello sfigato di Bush junior era riuscito a scritturare gente come Ricky Martin e Jessica Simpson. In realtà Andrea Bocelli avrebbe accettato di esibirsi per il miliardario newyorkese   ma la rivolta dei suoi fan lo ha  costretto a rifiutare  . Purtroppo Donald Trump si è trovato ad essere eletto in un era musicale probabilmente sbagliata.  Se il suo insediamento alla Casa Bianca fosse avvenuto negli anni ’50 o ’60 il musicista adatto a lui si sarebbe trovato. 

La storia del jazz consegna alle cronache musicali di quel periodo  le gesta di tale Stanley Newton Kenton, detto Stan,  pianista e direttore d’orchestra di Wichita  Kansas. Sarebbe stato  il  musicista perfetto per Trump. Stan Kenton può essere considerato, a buon diritto, l’esponente della reazione iper-conservatrice bianca alla rivoluzione nera del be bop. La sua orchestra era musicalmente l’opposto di quanto offerto dal panorama jazzistico afroamericano di allora. A differenza di altre orchestre  come quella di Duke Ellington o Count Basie,  nell’ensemble di Kenton non veniva minimamente offerto spazio alle  sortite solistiche dei musicisti. A contare erano le “sezioni” (ance, ottoni, ritmica) e la dispotica,  egocentrica  conduzione del capo.

 Riportiamo alcune frasi di Stan  Kenton che bene inquadrano il personaggio:” Vogliamo dare il nostro contributo alla vera  musica, e vogliamo che valga veramente qualcosa. Così stanno le cose , vi piaccia o non vi piaccia. Potete prendere o lasciare perché d’ora innanzi non ascolteremo nessuno” E ancora nel 1951 disse: “ I trentacinque o quarant’anni di jazz sono finiti. Possiamo tranquillamente chiudere su di essi la porta. In qualsiasi direzione andremo non torneremo certo più al jazz frenetico”.  Nella sua orchestra raramente trovarono posto musicisti di colore. Anzi Kenton  riteneva di appartenere ad una minoranza bianca discriminata dai critici, i quali, a suo dire,lo stroncavano perché non era di origine  afroamericana e utilizzava pochi strumentisti neri. Insomma era vittima di un  razzismo musicale alla rovescia. 

Politicamente il nostro aveva idee molto precise. Che fosse razzista è fuori di dubbio , nel 1964 appoggiò esplicitamente la corsa alla Casa Bianca  del candidato repubblicano  Barry Goldwater . Il presidente in pectore   Goldwater, sconfitto dal  democratico Lyndon B.Johnson, dichiarò che, qualora fosse stato eletto avrebbe immediatamente sganciato la bomba atomica sull’Unione Sovietica, un bel personaggio non c’è che dire. 

Il critico e scrittore Giancarlo Roncaglia racconta un episodio rivelatore della considerazione di Kenton presso i suoi colleghi. Roncaglia, si trovava a cena con Stan ed alcuni suoi orchestrali, quando girando lo sguardo nella sala scorse il sassofonista free  Robin Kenyatta, militante dei Black Muslims, che stava cenando da solo. Lo scrittore  invitò più volte il musicista nero  ad unirsi alla compagnia, ma questi rifiutò, e indicando con disprezzo Kenton disse: “…I’m sorry brother….he is fascist..” 

Tornando alle questioni musicali è innegabile che l’orchestra kentoniaia suonasse una musica,  non eclatante, ma discreta. Perciò  mi viene un dubbio. Non è che la decenza della musica di Kenton sarebbe stata eccessiva per la mediocrità di Trump?  Pensandoci bene, credo  che neanche il fascista Kenton avrebbe accettato  di suonare per il presidente miliardario. 

Dimenticavo, siccome nel jazz non si butta via  mai niente, bisogna dire che fra le fila del musicista di Wichita sono passati diversi eccellenti musicisti:  i trombettisti Shorty Rogers, Maynard Fergusson o i sassofonisti: Art Pepper, Lee Konitz,  Stan Getz il chitarrista Laurindo Almeida. Tutta gente che una volta  lasciato Kenton intraprese carriere eccellenti. Prendete Pepper, per esempio, un sassofonista dalle indubbie  sonorità bianche che però  suonava come Parker.

nel video  art pepper
good vibrations


Art Pepper -Sax Alto
Stanley Cowell- Pianoforte
Cecil Mc.Bee - Contrabbasso
Roy Haynes - Batteria.

IDEE PER IL NOSTRO FUTURO

TESTO CONCLUSIVO DELL’INCONTRO NAZIONALE DEI COMITATI PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE



Il voto del 4 dicembre 2016 non lascia dubbi: ha vinto il No. Il tentativo di Renzi di ottenere un plebiscito sulle modifiche della Costituzione è stato respinto - senza appello - dal 59 % dei votanti ed è stato smentito che un maggior numero di votanti ne avrebbe favorito l'approvazione. 

L'alta percentuale dei votanti è la conferma che tanti hanno deciso di partecipare al voto proprio per bocciare la proposta del governo. Renzi ha dovuto ammettere di avere straperso. 

La vittoria del No non può essere archiviata, come si sta tentando di fare, anzi è un parametro essenziale per qualunque prospettiva politica democratica. 

La vittoria del No è di straordinario valore e può fermare il tentativo delle elites dominanti di imporre una deriva accentratrice ed autoritaria. Questo voto può cambiare il corso politico del nostro paese e aprire una nuova stagione democratica fondata sui principi fondamentali della Costituzione. 

Denunciamo il tentativo di far dimenticare il risultato referendario, di riassorbirne le potenzialità democratiche, in definitiva di non rispettarne l'esito. 

Questo voto referendario è il contrario di una deriva populistica che, a parole, tanto preoccupa. In realtà si tenta di non rispettare l'esito di questa grande prova di partecipazione democratica. 

Per questo è importante che soggetti importanti della campagna referendaria come il Comitato per il No e quello contro l'Italicum, con 750 riferimenti territoriali, restino in campo contro tentazioni future di stravolgimento dell'assetto costituzionale e per la piena attuazione della Costituzione. 

Nel ringraziare quanti hanno contribuito al successo del No riteniamo ora necessario sottolineare che il compito non è finito e che è in atto un tentativo di stravolgere il risultato del voto. Per questo l'Italia e la Costituzione hanno bisogno di vigilanza, di partecipazione, di iniziativa democratica. 

Con le deformazioni della Costituzione è stato bocciato anche l'Italicum, fin troppo simile al porcellum. L'Italia deve dotarsi di un nuovo sistema elettorale, coerente per Camera e Senato, che consenta agli elettori di eleggere tutti i parlamentari con voto proporzionale (così vanno eletti i rappresentanti in ogni altra sede rappresentativa come province e aree metropolitane) rimettendo in equilibrio rappresentanza e governabilità e rispettando i principi fondamentali della Costituzione. 

Questo obiettivo è tutto da realizzare: dal sostegno alle ragioni che hanno portato i nostri avvocati a presentare istanze di incostituzionalità sull'Italicum, fino ad un impegno forte per ottenere un sistema elettorale rispettoso della volontà popolare che consenta di avere un parlamento rappresentativo e legittimo, al contrario di quello attuale, che deve solo approvare una legge elettorale rigorosamente coerente con l'esito del referendum costituzionale. 

Per questo sulla base del nostro documento sulla legge elettorale e dopo il pronunciamento della Corte costituzionale presenteremo un documento politico per lanciare una raccolta di firme per ottenere una legge elettorale coerente con l'esito del referendum. 

Il nostro impegno sarà centrato nei prossimi mesi su:

 -Costituzione, per la salvaguardia dei suoi fondamenti democratici e rappresentativi e la piena attuazione dei suoi principi; 

-Legge elettorale, sostanzialmente proporzionale, diritto degli elettori di eleggere tutti i loro rappresentanti, modifiche per il voto all'estero;

 -Impegno a modificare le leggi che regolano le raccolte delle firme per i referendum e per le leggi di iniziativa popolare, al fine di renderle più semplici e meno costose;

 -Sostegno alle iniziative referendarie per i diritti di chi lavora e al mondo della scuola per modificare i provvedimenti del governo Renzi; 

-Lavoro di approfondimento per la piena attuazione della Costituzione; impegno per la modifica dell'articolo 81 sul pareggio di bilancio in presenza di un nuovo parlamento; 

Sono tutti compiti che motivano l'impegno a costruire un movimento di cittadini che vuole restare in campo e vuole far valere il proprio punto di vista democraticamente, escludendo ogni deriva di natura partitica e tanto meno vocazioni elettorali. L'attacco al ruolo delle rappresentanze dei corpi sociali è stato respinto, ma non basta. Ora occorre un diffuso impegno dei cittadini e fare appello alla loro partecipazione democratica. 

Per questo è necessario favorire il diritto dei cittadini di associarsi e di far valere le proprie opinioni. 

Piena autonomia, impegno civico, nessuna confusione con i partiti, ferma volontà unitaria nel rispetto del pluralismo, sono i presupposti su cui vogliamo fondare un movimento civico, basato sulla rete dei comitati territoriali, erede del nostro contributo alla vittoria del No, in grado di pesare nel dibattito culturale, scientifico, politico del nostro paese. 

I due Comitati referendari - per il No alle modifiche della Costituzione e contro l'Italicum - insieme alla rete dei Comitati territoriali saranno i protagonisti di questo percorso, e, una volta approvata la nuova legge elettorale, decideranno insieme forme e modi per proseguire le iniziative, fondate sulla partecipazione e sulla diffusione nei territori. In vista di questo appuntamento i direttivi dei due Comitati referendari si riuniranno con le rappresentanze delle aree regionali, nel rispetto delle differenze di genere. Il sito Internet dei due Comitati, per sottolineare la nuova fase, aggiungerà anche “per la democrazia costituzionale”, fino all'assemblea nazionale  convocata dopo la legge elettorale. 

Approvato dall'Assemblea dei comitati territoriali del 21/1/2017

domenica 22 gennaio 2017

I genitori del plesso Dante Alighieri: La scuola non può essere la sola istituzione a pagare per l'inquinamento.

Oltre l'Occidente



Il comitato genitori del plesso Dante Alighieri dell’Istituto Comprensivo Frosinone3, alla luce dei provvedimenti per il risanamento della qualità dell’aria come da ordinanza 20/2017, che prevede la chiusura obbligatoria degli impianti di riscaldamento all’interno di tutte le scuole pubbliche e private per il 23 gennaio p.v., evidenzia:

a) La scuola appare l’unica attività colpita realmente da tali sporadici e non concludenti provvedimenti. Essa appare come inutile e facoltativa nonostante l’importanza che l’istruzione rivesta e gli impegni di migliaia di ragazzi e ragazze. 
 
b) Il risanamento dell’aria non avviene con interventi sporadici in attesa delle prossime precipitazioni, ma affrontando decisamente la viabilità, la allocazione dei servizi e l’impiantistica delle strutture pubbliche.

c) Questi provvedimenti non hanno séguito nel senso di migliorare i modi di vivere la città. Sarebbe già un piccolo passo avanti permettere a TUTTI/E gli studenti di usufruire del trasporto pubblico locale e dello scuolabus gratuitamente o a prezzi simbolici favorendo, soprattutto quelli fino a 10 anni, con punti di raccolta all’interno o all’esterno del perimetro della città, punti di snodo anche del trasporto pubblico locale, dove possano essere prelevati e portati a scuola. Ciò favorirebbe una più scorrevole viabilità e un minor inquinamento, e potrebbe indurre le famiglie ad utilizzare esse stesse in maniera minore l’automobile.

d) La giustificazione che molti degli impianti non siano a norma o che risultino obsoleti non può essere motivo della chiusura delle scuole senza un reale piano di adeguamento degli impianti.

Il Comitato, nel ritenere la scuola una parte fondante della vita della comunità per la crescita dei ragazzi e ragazze, sollecita l’Amministrazione ad attuare provvedimenti certi e pianificati nel tempo nella direzione dell’efficentamento energetico che si trasformano in minor consumo di combustibile e con esso una minori emissioni, ed evitare ulteriori chiusure.

Frosinone 21 gennaio 2017