sabato 6 luglio 2013

Seconda vittoria dei lavoratori OM Carrelli (Bari) Adesso bisogna prendersi la fabbrica!

Pdac Puglia




La vertenza dei lavoratori Om va avanti ormai da due anni Qualche giorno fa la Kyon,cxgruppo tedesco a cui appartiene l'azienda,  ha tentato il secondo blitz mandando due camion per portarsi via una parte dei carrelli stivati nei magazzini. In maniera furbesca, la Kyon ha tentato di recuperare un pezzo di valore di 10 milioni di euro, tra carrelli e macchinari, per completare l'opera di delocalizzazione dell'azienda. Questa volta, rispetto alla prima di maggio, i camion sono passati da un'entrata secondaria non controllata dal presidio permanente attivato appunto per impedire che l'azienda si prenda i macchinari. Ma la lotta organizzata ha impedito che ciò avvenisse. Infatti, alcuni operai del presidio si sono accorti dell'entrata dei due camion e con un tam tam hanno fatto accorrere quasi una settantina di lavoratori che hanno bloccato l'uscita dei camion pieni di macchine dall'azienda. Si sono vissuti momenti di tensione per la rabbia operaia e per la presenza in forze di blindati di polizia e carabinieri. Dopo la forte opposizione dei lavoratori, il presidio ha imposto che i camion fossero svuotati, che le macchine fossero riposte nei magazzini e che i camion uscissero totalmente vuoti. La Kyon è stata sconfitta per la seconda volta in meno di due mesi. 
Questa è una seria lezione per tutti coloro che credono di sfruttare lavoratori e risorse pubbliche per poi delocalizzare. Un lezione che vale anche per le altre fabbriche in crisi, da Bridgestone a Natuzzi, dove padroni senza scrupoli stanno licenziando migliaia di lavoratori, mettendoli sul lastrico assieme alle loro famiglie.
Alternativa comunista è da sempre al fianco dei lavoratori Om e delle altre fabbriche in crisi pugliesi, partecipando attivamente al presidio e alle lotte di questi mesi. Infatti, riteniamo che se il padronato vuole andar via noi l'accompagneremo all'aeroporto a calci nel sedere, però le fabbriche e i macchinari devono rimanere qui ed essere gestiti direttamente dai lavoratori. Questo vale per l'Om come per tutte le altre aziende in crisi, da Natuzzi a Bridgestone. Da qui riparte la lotta di tutti i lavoratori a cui vogliono togliere il futuro e con cui lotteremo per vincere.

 

I primi 100 giorni di Zingaretti

Il coordinatore PdCI

Oreste Della Posta


Si fa molta enfasi sui primi 100 giorni di Zingaretti alla Regione come Presidente. Certamente ci sono stati dei segnali positivi come la riduzione degli stipendi dei Consiglieri Regionali di 1000 euro al mese e l’abolizione dei vitalizi ai Consiglieri (abolizione richiesta, per altro con un referendum proposto dai comunisti della Regione Lazio) ma questi segnali sono ancora poca cosa rispetto a quello che è necessario per ridare dignità alla istituzione Regione infangata da un governo di destra che ha fatto di tutto e di più.
Occorre unprofondo cambiamento nel modo di essere amministratori e di affrontare le tematiche del gestire. A noi sembra che siano stati nominati già troppi consulenti, la cui necessità è al quanto dubbia.
Bisogna dire basta al metodo spartitorio degli incarichi che tanto danno ha fatto all’Italia. Insomma si veniva a ricoprire cariche importanti non per la propria competenza ma bensì per la fiducia verso chi ti nominava, in sostanza una testa di legno basta che obbedisca ai comandi del padrone.
È ora di buttare a mare questo sistemadi fare. A noi, caro Presidente, i nomi che circolano per l’incarico di presidente dell’ATER di Frosinone non rispondono al criterio della competenza. Occorre molto più coraggio nell’agire per dare un segnale di discontinuità con il passato in modo tale di riavvicinare i cittadini alle istituzioni.
Oggi chi può essere preso esempio di coraggio nel cambiamento è il nostro Santo Padre Francesco I, che sta rivoluzionando la chiesa, dallo IOR, alla pedofilia, ritornando ai valori cristiani che hanno fatto grande la chiesa.
Oggi la nostra religione ha bisogno di una rivoluzione copernicana in modo che essa diventi il motore dello sviluppo del nostro territorio. La vera sfida è il nuovo piano per la formazione professionale che va messa al centro di un nuovo modello di sviluppo, cambiando profondamente il funzionamento dei centri dell’impiego.
In questo c’è il rischio concreto che il governatore rimanga intrappolato nel gioco delle correnti del PD. E questo sarebbe la fine della primavera politica della Regione Lazio.

Cercasi Utopia

Lelio De Michelis. Fonte  http://www.sbilanciamoci.info/

Che fine ha fatto il sogno europeista? Il nichilismo tecno-capitalista ha prodotto forme di eteronomia e assoggettamento, privando gli individui di ogni idea di futuro, di autonomia e di responsabilità. Per uscire da questa "sedazione sociale" urge ritrovare le mappe dell'Utopia. Ma cercandole senza ricorrere al navigatore satellitare e senza confidare nei motori di ricerca
Ventisei milioni e mezzo di disoccupati in Europa. La disoccupazione giovanile al 23,8% come media europea ma in Italia al 38,5%. Sempre n Italia, disoccupazione al 12,2%, il massimo dal 1977, mentre anche Confindustria rivede al ribasso – da meno 1,1 a meno 1,9% – le stime sul pil del 2013. Pochi dati, per fotografare una realtà drammatica.
Ovvero: un impoverimento di massa in Europa imposto in nome di una pura astrazione numerica (pareggio di bilancio, parametri debito/deficit-pil), ma ugualmente ideologica, ovvero inattaccabile dai dati di realtà e dalle confutazioni della storia, anche l’ideologia neoliberista vivendo in una propria surrealtà immaginata ma poi soprattutto imposta come vera. Conseguenza di tale ideologia (o di tale religione capitalistica secondo Benjamin, contro la quale servirebbe un sano laicismo e una sana laicità): il portarsi a niente dell’Europa: di se stessa, del sogno europeista, dell’economia europea da troppo tempo in recessione; uno scendere, deliberatamente e ostinatamente lungo un piano inclinato nichilista, pesantissimo sia in termini sociali che di democrazia sostanziale (meno diritti, potere oligarchico) - rimuovendo dall’orizzonte culturale e politico il fatto che si potesse (ma si può ancora) fare diversamente e meglio se solo si rileggesse la storia della crisi del 1929 e del new dealrooseveltiano. Eppure, questa realtà drammatica e socialmente perversa sembra non riuscire a smuovere la società europea, incapace di re-agire avendo ormai interiorizzato il proprio ruolo di vittima (sacrificale) della crisi.
Questa società – ma esiste ancora una società? – non produce alcuna rivoluzione (ormai cancellata dall’immaginario politico), ma neppure la rivendicazione di un riformismo radicale e quindi doverosamente opposto a quelle riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, soprattutto flessibilizzazione del mercato del lavoro, riduzione dei diritti sociali e quindi anche politici), invocate come un mantra dall’Europa merkeliana, draghiana e barrosiana, ma che sono in verità solo la prosecuzione del neoliberismo con altro nome e in altre forme. Servirebbe invece un riformismo radicale per creare un diverso rapporto (diverso, ma soprattutto radicalmente rovesciato) tra capitale e lavoro, tra mercato e ambiente, tra algoritmi e vita, tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo al servizio della società – come scritto in Costituzione) e politica (la tecnica regia secondo Platone che deve tornare urgentemente ad orientare in termini di senso e di scopo le altre tecniche, soprattutto l’economia – mentre da almeno tre decenni (in realtà da molto di più) l’unica tecnica regia che tutte le altre governa è proprio l’economia).
No, nulla di tutto questo accade. La società è come annichilita, implosa su se stessa. Balbetta qualcosa. Cerca di sopravvivere tra lavoro precario, discount, riduzione dei consumi, ma in questo modo – perdendosi nell’oggi, incapace di re-agire e soprattutto di immaginare - non fa che assoggettarsi ancora di più alla biopolitica neoliberista e alla sua strutturale e continua espropriazione di futuro. A quel neoliberismo di oggi, fatto di austerità, impoverimento, disoccupazione, colpa e penitenza per avere vissuto al di sopra dei propri mezzi, come ieri si era adattata alla precedente fase (in verità davvero molto seduttiva, cui era quasi-impossibile resistere) del neoliberismo del godimento fatto di consumismo, vivere al di sopra dei propri mezzi, edonismo e narcisismo, irresponsabilità per il futuro. Neppure le sinistre osano il cambiamento. Il Presidente Napolitano poi lo teme sopra ogni altra cosa. Neppure il sindacato riesce nell’intento; neppure i movimenti che nascono (ma muoiono in fretta) un po’ ovunque. Questo mentre il vertice europeo del 27 e 28 giugno ha mancato un’altra occasione per pensare in grande, avendo destinato alle vittime giovani della crisi briciole di euro (appena 8), mentre per salvare le banche (la causa della crisi) sono stati spesi migliaia di miliardi. E mentre il governo Letta approva un piano per il lavoro davvero piccolo piccolo. Siamo cioè in presenza di frammenti di indignazione e di impegno: gli scioperi, le manifestazioni, le proteste di nicchia. Ma nulla di più. L’impegno si scontra contro il muro di gomma delle oligarchie. Perché dunque non si produce cambiamento, né riforma?
Prima ipotesi, forse virtuosa ma minoritaria. È un solitario passare nel bosco di molti singoli, come il ribelle di Jünger, rivendicando la libertà di dire no, perché il ribelle è “deciso a opporre resistenza, il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata”. Oppure – seconda ipotesi, la più praticata e la più facile – ci si limita a cadere nella regressione populista e qualunquista (Grillo in Italia, altri in Europa), tra rassegnazione e antipolitica, tra rancore da bar e autocompiacimento da blog.
In realtà vi sarebbe una terza ipotesi da considerare, questa sì politicamente virtuosa: quella di immaginare il cambiamento e poi cercare di realizzarlo partendo da una rivolta del pensierocome invocata ad esempio dall’ultimo (e intrigante) saggio di Mario Galzigna, appunto Rivolte del pensiero (Bollati Boringhieri); per uscire dalla disperanza, da quell’atmosfera collettiva fatta non solo di scoramento quanto (e peggio) di assuefazione alla sottrazione di futuro. Unasottrazione contro cui tuttavia un pensiero in rivolta - insorgente, libertario e spaesante rispetto alla realtà e sovvertitore di questa stessa realtà - “può preparare il terreno per il cambiamento”, perché solo “un pensiero costruito sulle rivolte e sugli antagonismi – anche se disseminati, eterogenei, dispersi e molecolari – può riaprire il tempo e restituirci il futuro”. Convinti, come osservava l’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro, che “è meglio sbagliare ed esplodere che prepararsi al nulla”. Al nulla, o a questo – aggiungiamo – meta-nichilismotecno-capitalista ormai egemone e al suo sotto-nichilismo europeo.
Ma praticare questo pensiero, positivo e innovativo perché radicale – che cioè rivendica unadifferenza dai non-pensieri omologanti e produttori di indifferenza – e riprendersi l’idea di futuro è difficile se capitalismo & apparati tecnici li hanno sottratti da tempo a individui e società. E non per un’imposizione di legge ma per la modifica – sovversiva ed etero-diretta, soft e impercettibile (quindi difficile da riconoscere: riconoscimento che è invece la necessaria premessa per poter poi contrastare la sua guerra di posizione dentro e contro la società e gli individui attuata dal tecno-capitalismo per la conquista dell’egemonia) – dei saperi di organizzazione della vita individuale e collettiva. Bisognerebbe allora e per prima cosa diventare consapevoli – con un processo illuministico di rischiaramento e insieme parresiastico– dei meccanismi che ci condizionano e ci assoggettano in modo quindi etero-diretto, delle forme di biopolitica dominanti che governano la vita intera di individui e società, dei soft power secondo Nye – soft power (”la capacità di ottenere ciò che si vuole mediante l’impostazione di un programma d’azione, la persuasione e l’attrazione positiva”), che in realtà non sono altro (basterebbe rileggere Propaganda, di Edward Bernays) che le vecchie pratiche di propaganda e di manipolazione del consenso, ma con un nuovo nome. Detto altrimenti, bisognerebbe prendere finalmente atto che è il capitalismo come sapere/potere e comebiopolitica che ci ha espropriati del futuro avendo fatto con-fondere mercato e società, mercato e democrazia e soprattutto avendo addestrato a dover consumare tutto sempre più in fretta: prima le merci poi, tracimando dall’economia alla società, anche i valori, la cultura, il tempo e lo spazio, le relazioni e gli affetti umani, il senso della durata e del costruire e quindi: il futuro; mentre la rete - ultima forma tecnica in ordine di tempo divenuta forma sociale e per di più ormai globale (il richiamo è ad Anders e alla sua critica della tecnica come apparato) – ci porta a vivere nello stesso solco nichilista del capitalismo, con saperi simili e congrui fatti di brevità, istantaneità, tempo irreale, simultaneità, ma soprattutto individualizzando e isolando gli individui per poi totalizzare meglio in sé le parti prima separate, per cui dobbiamo esseresoli ma connessi (e individualizzazione e totalizzazione sono l’essenza del potere moderno, non tanto politico quanto economico e tecnico). Producendo persino, per favorire questatotalizzazione mediante individualizzazione, un nuovo feticismo di massa, quello appunto deldover essere connessi.
Ne è uscita una nuova forma di etero-nomia e di assoggettamento, certo diversa da quelle religiose o ideologiche del passato ma anch’essa negatrice, forse più di quelle, di ogni auto-nomia individuale e sociale. Contro questa etero-nomia occorre dunque recuperare quellacosa che permetta l’auto-nomia e che si chiama immaginazione pro-gettuale e magari la vecchia utopia, possibile solo “fuori dai vincoli della ripetizione”, cercando “una nuova proliferazione di significati e di eccedenza di senso” (ancora Galzigna), per rimettere insieme gli antagonismi molecolari pure esistenti ma ancora sterili culturalmente e politicamente. Utopia il cui desiderio e la cui ricerca nascono solo se vi è la compresenza (Bauman, da ultimo) di due condizioni: la prima, l’insoddisfazione per la realtà esistente (e questa c’è); e poi, la convinzione di potercela fare a cambiare la realtà (e questa invece manca).
Gli uomini in rivolta si limitano ancora a dire no, dimenticando (Camus) che un uomo in rivolta deve soprattutto dire  e lo deve dire “fin dal suo primo muoversi”. In questa Europa è possibile solo la logica dello scontro che non deve diventare conflitto&pro-getto, l’unico meccanismo di azione sociale per il cambiamento invece capace di trasformare quegli uomini senza qualità tanto amati dal potere in uomini con molte qualità e quindi capaci finalmente di dire .
Nulla di quello che dovrebbe accadere – il rovesciamento delle politiche neoliberiste e deisaperi/poteri tecno-capitalistici – sta dunque accadendo. E la causa – prima che nelle oligarchie, nei governi tecnici e nelle larghe intese – è nell’azione biopolitica e nelle discipline (in senso foucaultiano) dello stesso tecno-capitalismo, nel loro avere agito in profondità nella società in quanto saperi/poteri di relazione e integrazione, nell’avere infine vinto anche la lotta di classe contro il proletariato. Il dover essere sempre connessi; la velocizzazione/intensificazione del tempo e del lavoro; il lavorare come un dover collaborarecon l’impresa; la cancellazione delle differenze (sinistra/destra, bene/male, giusto/ingiusto, lavoratore/imprenditore, consumatore/brand) e del dialogo, privilegiando il monologo collettivo (ancora Anders) con tutti che ripetono le stesse cose di tutti senza saper davvero immaginare in auto-nomia il nuovo e il diverso; la perdita della privacy, con la morte dellasoggettività; la precarizzazione del lavoro e della vita: tutte pedagogie e discipline che hanno svuotato di senso e di futuro l’individuo (isolandolo, falsamente individualizzandolo) perché fosse invece possibile una sua crescente integrazione (appunto: la totalizzazione) con l’apparato di cui deve fare parte (mercato, impresa, rete, stato), con la società sempre menoaperta e sempre più sedotta dalla chiusura comunitaria (i localismi, il comunitarismo di rete d’impresa e di brand, il comunitarismo nazionalistico), dove le metafore ‘biologiche’ (il corposociale) e ‘tecniche’ (l’apparato, la rete) si confondono - ed ecco le pedagogie dellacondivisione e del fare sciame in rete, della community, del siamo tutti sulla stessa barca, della wikinomics), imposte da un pilota automatico (se si crede nella tecnica o nel mercato o in Mario Draghi o in Giorgio Napolitano) o dall’istinto. Comunque e sempre: etero-nomia.
È stata una grande opera di sedazione sociale mediante incorporazione di ognuno nell’organizzazione tecno-capitalista. Che per funzionare al meglio deve eliminare ogni possibile resistenza e ogni possibile conflitto interno. Per questo era necessario che gli individui perdessero ogni idea di futuro e di utopia, di autonomia (nel senso di Kant) e diresponsabilità (nel senso di Hans Jonas). E questo è accaduto. Urge allora ritrovare le mappe dell’Utopia (e se è vero che le utopie hanno prodotto disastri, un disastro ancora maggiore lo sta producendo la loro assenza).
Ma cercandole – queste utopie e queste mappe – senza ricorrere al navigatore satellitare. E senza confidare nei motori di ricerca.

giovedì 4 luglio 2013

Thank you Egypt

Simonetta Zandiri


E ora il mondo che farà, dopo l'Egitto? Come reagiranno i capi di stato?

Non potranno dire che l'esercito ha appoggiato le istanze del popolo perché così facendo ammetterebbero che non bastano le urne per fare una democrazia. Ammetterebbero che 22milioni di firme raccolte (ben più dei 13 milioni di voti con i quali era stato eletto Morsi) ed una mobilitazione senza precedenti sono un segnale forte e chiaro che supera e annulla quelle urne. Si chiama partecipazione. Ne conseguirebbe che la nostra democrazia è imperfetta, e che quello che è successo in Egitto non andrebbe definito GOLPE ma legittima presa di posizione dell'Esercito per tutelare il benessere del popolo, al netto di eventuali interessi superiori o manovre oscure.
Di fatto, quindi, temo che la stampa occidentale, cosi' come gli esponenti politici di rilievo, dovranno definirlo golpe. I più prudenziali potranno glissare auspicando che la transizione verso nuove elezioni si svolta rapidamente e "democraticamente". In ogni caso sarà un precedente importante, anche per noi. Perché di fatto l'Egitto ha fatto qualcosa che a noi non riesce mai. Vedere le armi, che pur non ci piacciono, puntate verso i veri criminali.
E un popolo in festa. Un popolo che ha iniziato una rivoluzione e che, come dovrebbe essere per tutte le rivoluzioni, speriamo non abbia mai fine!
THANK YOU, EGYPT!
E, a proposito, italiani... vogliamo iniziare almeno a raccogliere 10 milioni di firme?


Napolitano. The new commander in chief

Luciano Granieri

L’affare F-35 s’ha da fare. Presidente Napolitano dixit. Il presidentissimo della Repubblica entra a gamba tesa sulla questione e come un elefante dentro ad un negozio di cristalli, distrugge la fragile e sudata intesa che gli azzeccagarbugli delle larghe intese e dei procrastinabili rinvii, avevano raggiunto per neutralizzare la mozione presentata da Sel e M5S finalizzata a interrompere il programma di acquisto degli infernali otto volanti da luna park . 

Gli azzeccagarbugli delle larghe intese l’avevano studiata bene. Per varare l’ennesimo rinvio e sminare un’ulteriore  minaccia innescata soprattutto sotto la sedia dei parlamentari piddini, si è richiamata la legge 244/2012 sul finanziamento dei sistemi d’arma. Un norma varata dal governo Monti, E PROMULGATA dal presidentissimo Napolitano, atta a risparmiare un po’ di soldi sulle spese militari. In base a questa legge” le spese militari straordinarie  e quelle ordinarie a completamento  di  programmi pluriennali finanziati da precedenti esercizi con  leggi speciali,  devono essere deliberate esclusivamente dal Parlamento  che deve tenere conto delle situazioni internazionali e della disponibilità economica dello Stato per evitare oneri maggiore a  carico della finanza Pubblica”  

Dunque, ecco pronta la quadratura del cerchio. Dal momento che, in base a questa norma, è il Parlamento e solo il Parlamento a decidere sul finanziamento del progetto F-35 joint strike fighter,  che nello specifico costituisce   un “ finanziamento  di  programmi pluriennali finanziati da precedenti esercizi con  leggi speciali” , è necessario che le camere prima di deliberare  abbiano a disposizione  altri sei mesi di tempo per vagliare tutte le variabili. Tutti contenti. Sia il Pdl che ha evitato il blocco del programma, sia il Pd che ha evitato l’immediato rifinanziamento. Poi fra sei mesi si vedrà. 

Ma l’imperatore Giorgio primo, fustigatore delle inettitudini profuse dai perdigiorno che affollano le segreterie dei partiti, per non dispiacere gli amici americani, si è inalberato. Rivestendo i panni di novello commander  in chief , come capo   assoluto delle forze armate, un ruolo che la Costituzione riconosce al Presidente della Repubblica, ha convocato d’urgenza il Consiglio Supremo di Difesa, manco ci fossero i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli in Fontana di Trevi,  o pericolosi comunisti a cibarsi di teneri infanti, e ha imposto che: “La facoltà del Parlamento riconosciuta dalla legge 244/2012 non può tradursi in un diritto del veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. 

Cioè ha annullato gli effetti di una norma da lui stesso promulgata togliendo al Parlamento la prerogativa a legiferare in merito e trasferendola al governo da lui stesso, di fatto, comandato. Per cui bando ai rinvii e avanti a tutta forza con l’acquisto di questi trabiccoli.   Delle due l’una. O  Re Giorgio  sbagliò nel 2012 a firmare la norma decisa dal governo Monti, o questa pagliacciata della convocazione del Consiglio Supremo di Difesa, un organo che si convoca solo in casi di estrema urgenza e di pericolo nell’imminenza di una guerra, per sbugiardare quella  stessa norma,  è stata del tutto fuori luogo. 

Questa vicenda spazza via ogni dubbio   per cui ormai, di fatto,  la nostra sia  diventata, a dispetto del dettato costituzionale, una Repubblica presidenziale. E un presidente che sbugiarda, dall’oggi al domani le leggi che egli stesso ratifica, non merita di essere deposto come Mubarak e Morsi?  E, soprattutto, non meritano di essere deposti coloro i quali, in barba ad ogni consuetudine di garanzia istituzionale, e per rimanere avvinghiati ai propri privilegi minacciati dall’indignazione popolare, hanno incoronato per la seconda volta un tale inetto presidente?  

Pensate, una volta liberato il  campo da questi tristi figuri con una bella sollevazione  non si dovrebbe neanche annullare la Costituzione come in Egitto. Infatti  quella vigente, una delle più efficaci del mondo, non solo resterebbe inalterata,  ma verrebbe ulteriormente salvaguardata dai vergognosi sfregi  che questi sciagurati vorrebbero infliggerle, modificandola da carta a difesa dei diritti di tutti i cittadini a peloso documento a tutela dei  privilegi di pochi.




Conferenza di presentazione del 7° Congresso del Partito dei Comunisti Italiani.

Responsabile Ufficio Stampa PdCi Federazione di Frosinone 
                                                  
Si è svolta a Frosinone, presso la Sala Giunta del Comune, la Conferenza di presentazione del 7° Congresso del Partito dei Comunisti Italiani.
Diverse le tematiche affrontate e molte in relazione alla drammatica crisi che viviamo e che, particolarmente, sta distruggendo il lavoro e l’economia dell’intera provincia di Frosinone.
Il documento Congressuale sviluppato per
RICOSTRUIRE IL PARTITO COMUNISTA, UNIRE LA SINISTRA ed ATTUARE IL PROGRAMMA DELLA COSTITUZIONE
è un’attenta e puntuale analisi delle motivazioni della crisi e delle proposte dei Comunisti Italiani per uscirne, evitando che il prezzo più alto, come sta già avvenendo, lo paghino i meno tutelati e più deboli. Ad illustrare e rispondere alle domande dei giornalisti il Presidente Regionale Ugo Moro, il Coordinatore della Segreteria Provinciale Oreste Della Posta ed il Tesoriere Provinciale Giuseppe Palombo.
La catastrofe sociale che siamo costretti a vivere può essere affrontata soltanto rinegoziando i trattati che legano l’Italia all’Unione Europea, superando il fiscal compact ed i vincoli del patto di stabilità. Dare immediata attualizzazione agli art41,42 e 43 della Costituzione Repubblicana che indicano la centralità del settore pubblico dell’economia per una programmazione democratica, prefigurando una economia mista (pubblica, privata e cooperativa) e prevedendo espropri e nazionalizzazioni a fini di pubblica utilità, a partire dal settore finanziario.
Senza un intervento pubblico programmato, che rompa con il liberismo, è illusoria non solo una fuoriuscita progressiva dalla crisi, ma anche una semplice ripresa economica e un piano del lavoro atto a ridurre disoccupazione e precarietà, salvaguardando i diritti fondamentali.
Il reperimento delle risorse volte al finanziamento di tale intervento pubblico ed alla modernizzazione dello Stato deve avvenire mediante la drastica riduzione delle spese militari, la vera e dura lotta all’evasione, il riequilibrio delle aliquote a favore dei ceti medio-bassi, le imposte sui grandi patrimoni, l’abolizione dei privilegi e la riduzione degli stipendi ai parlamentari.
Stabilire il principio secondo cui il denaro pubblico dato a banche ed imprese in difficoltà deve essere condizionato all’effettuazione di assunzioni ed investimenti, su cui dovrà essere esercitato il controllo pubblico: mai più soldi pubblici a fondo perduto, le imprese che de localizzano con perdita di occupazione in Italia devono restituire le agevolazioni pubbliche di cui hanno beneficiato.

Sono proposte molto adatte a risolvere le difficoltà post industriali della Ciociaria, unitamente ad una nuova politica, equilibrata ed efficace, nel turismo e nel terziario, capace di sviluppare le risorse economizzando su costi divenuti intollerabili. Totale impegno per ricostruire il Partito Comunista, non una generica od eclettica unità dei comunisti ma una nuova organizzazione comunista di tutte le forze che in Italia si richiamano al patrimonio migliore del movimento operaio e comunista italiano ed internazionale.

Egitto È caduto Morsi! Grande vittoria della mobilitazione delle masse egiziane!

Dichiarazione della Lit – Quarta Internazionale

Le masse popolari egiziane, protagoniste di una colossale mobilitazione, scrivono una nuova pagina nella storia del Paese e della sua rivoluzione.
La forza irresistibile di circa 17 milioni di persone nelle strade è il fatto determinante nel rovesciamento del governo di Mohamed Morsi.
Questa mobilitazione, probabilmente la più grande nella storia dell’umanità, è stata un terremoto politico che ha colpito alle fondamenta il regime militare che impera nel Paese e che è sopravvissuto al rovesciamento del dittatore Mubarak nel febbraio del 2011.
Le masse egiziane, che hanno sperimentato la loro forza nella caduta di Mubarak, hanno fatto una rapida esperienza con Morsi, giunto alla presidenza del Paese sulla base di un patto tra i Fratelli musulmani e l’alta direzione delle forze armate per preservare il regime militare.
Un anno di mandato è stato sufficiente affinché Morsi, che non ha dato risposta a nessuna delle aspirazioni popolari dopo la caduta di Mubarak, si trasformasse in un cadavere politico. Le masse popolari, disgustate, si sono sollevate con ancora più forza rispetto a due anni fa e lo hanno rovesciato.
Siamo di fronte a un’immensa vittoria delle masse, che la intendono come tale e perciò la festeggiano nelle strade e nelle piazze di tutto il Paese.
È una vittoria perché l’elemento determinante che ha rovesciato Morsi è stata la colossale mobilitazione delle masse. Quest’elemento fa sì che il regime militare, benché non distrutto, esca chiaramente indebolito nella misura in cui i militari si sono visti obbligati a sacrificare un altro governo servile rispetto ai loro interessi: prima quello di Mubarak e ora quello di Morsi. L’hanno dovuto fare non per libera scelta, quanto per cercare di placare una mobilitazione popolare a livello nazionale, superiore a quella che cacciò Mubarak, e per salvare così il proprio regime.
Questo è il contenuto essenziale del fatto e del processo. Perciò non possiamo farci ingannare dalla forma con cui si è prodotta la deposizione finale di Morsi: un intervento diretto o un golpe politico dell’esercito.
I militari hanno dovuto cambiare un altro “fusibile” mentre la situazione del regime, ad ogni colpo assestato dal movimento di massa, è più precaria, per quanto ancora riescano a manovrare. Prima Mubarak, ora Morsi, che oltretutto era rappresentante dei Fratelli musulmani, un’organizzazione che mantiene un peso importante nel Paese. Quanti “fusibili” restano ancora ai generali egiziani e all’imperialismo?
Come ha annunciato il comandante in capo dell’esercito ed ex ministro della Difesa di Morsi, generale Abdel Fatah al Sisi, l’attuale presidente della Corte Suprema costituzionale, Adly Masour, assumerà la carica di nuovo presidente per un “periodo transitorio”, fino alla realizzazione di nuove elezioni presidenziali e parlamentari. Una tabella di marcia ben nota al popolo egiziano   e che può avere vita breve.
Questa vittoria è parziale e ha come principale contraddizione il fatto che le masse egiziane continuano ad avere fiducia nelle forze armate, non identificando i generali come il nemico principale. Per le masse, il nemico più evidente e immediato continuano ad essere i governi (Mubarak, Morsi) e non l’esercito come istituzione, che oltretutto ha saputo riposizionarsi rompendo qualsiasi legame potesse in qualche modo trascinarlo insieme allo screditato Morsi.
Il nuovo governo sorto all’interno del regime come risposta alla lotta popolare delle masse non potrà rispondere alle legittime rivendicazioni e aspirazioni democratiche ed economiche del popolo egiziano. È un governo che risponde e risponderà, come Mubarak e Morsi, allo stesso regime dei generali pagati direttamente dell’imperialismo. Perciò non possiamo riporre in esso alcuna fiducia: esso merita solo l’opposizione diretta delle masse e del movimento operaio, studentesco e popolare, dell’Egitto.
Il grande compito dei rivoluzionari in questo momento consiste nello spiegare pazientemente alle masse egiziane che questo non è il loro governo, che sarà parte dello stesso regime ancora vigente e che è necessario continuare le mobilitazioni contro i suoi piani.
La lotta deve continuare!
Il nuovo governo sarà inoltre molto debole rispetto al precedente, ciò che crea condizioni migliori per continuare la lotta non solo contro di esso, quanto contro il regime nel suo insieme.
Il compito, in questo momento, è, basandosi sulla grande conquista della cacciata di Morsi, mantenere la mobilitazione per conquistare piene libertà democratiche, punire i crimini non solo di Mubarak, ma di tutta la cupola militare, confiscare le loro fortune e proprietà e annullare tutti i trattati stipulati con l’imperialismo.
In questo senso, è ora di rivendicare: Rottura immediata del Trattato di Camp David e fine di tutta la subordinazione finanziaria e politica dell’esercito rispetto all’imperialismo e a Israele! No al nuovo indebitamento di 4,8 miliardi di dollari con i banchieri di Washington! No al pagamento del debito estero! Perché le risorse siano investite in lavoro, sanità e istruzione per il popolo egiziano!
Dobbiamo anche lottare: Per un aumento generale dei salari! Per un piano economico d’emergenza e la riduzione immediata della giornata di lavoro a parità di salario suddividendo il lavoro fra tutti! Per l’espropriazione delle grandi imprese nazionali e multinazionali e del sistema finanziario!
In questo quadro, è necessario mantenere l’indipendenza delle organizzazioni operaie e popolari e, nel vivo della lotta, avanzare nella costruzione di un partito rivoluzionario e internazionalista che possa condurre la mobilitazione fino alla distruzione del regime militare, nel senso di avanzare verso l’unica soluzione di fondo: un governo operaio e delle masse popolari in Egitto.
Viva la rivoluzione egiziana!
Segretariato internazionale della Lit- Quarta Internazionale

mercoledì 3 luglio 2013

La reinvenzione del fascismo

 Se la libertà è quella di utilizzare denaro per guadagnare più denaro, la sicurezza è la possibilità di uccidere i nemici, la democrazia è ridotta al rito delle elezioni, qualcosa di grave sta accadendo. È la reinvenzione del fascismo, il potere che passa nelle mani del nuovo “complesso militare-finanziario”


Le atrocità della Seconda guerra mondiale hanno lasciato dietro di sé danni permanenti, abbassando i nostri standard su quello che è accettabile. La guerra è male; ma se non è una guerra nucleare, non siamo oltre il limite. Il fascismo è male; ma se non è accompagnato dalla dittatura e dall’eliminazione di un’intera categoria di persone, non siamo oltre il limite. Hiroshima, Hitler e Auschwitz sono profondamente radicati nelle nostre menti, deformandole.
La bomba di Hiroshima ci porta a trascurare il terrorismo di stato contro le città tedesche e giapponesi, che ha ucciso cittadini di ogni età e genere. Hitler e Auschwitz ci fanno trascurare il fascismo, inteso come il perseguimento di obiettivi politici attraverso la violenza e la minaccia della violenza. Ci vogliono due soggetti per fare la guerra, di qualunque tipo. Ma ne basta uno per realizzare il fascismo, contro il proprio popolo e/o contro gli altri.
Qual è l’essenza del fascismo? La definizione è il connubio tra il perseguimento di obiettivi politici e l’uso di una violenza smisurata. Proprio per evitare questo abbiamo la democrazia, un gioco politico in cui si perseguono obiettivi politici attraverso mezzi nonviolenti, in particolare attraverso l’ottenimento della maggioranza da parte di un soggetto politico, in elezioni libere e giuste o nei referendum. Un’innovazione meravigliosa, con una conseguenza logica: l’utilizzo della nonviolenza quando la stessa maggioranza oltrepassa i limiti, come è ad esempio scritto nei codici dei diritti umani.
Lo Stato forte, capace e disposto a mostrare la sua forza, anche nella forma della pena di morte, appartiene all’essenza del fascismo. Questo vuol dire un monopolio assoluto del potere, anche quello che non viene dalle armi, incluso il potere nonviolento. E vuol dire una visione della guerra come un’attività ordinaria dello Stato, rendendola normale, eterna addirittura. Vuol dire una profonda contrapposizione con un nemico onnipresente, come gli ariani contro i non ariani, la cristianità contro l’Islam, glorificando il primo e demonizzando il secondo. Ovunque, il fascismo fa del dualismo, del manicheismo e di Armageddon – la battaglia finale – un tutt’uno.
Va da sé che tutto questo vuol dire una sorveglianza illimitata sul proprio popolo e sugli altri; la tecnologia postmoderna rende tutto ciò possibile, o almeno plausibile. Quello che conta è la paura; conta che le persone abbiano timore e si astengano dalla protesta e da azioni nonviolente, per la minaccia di essere individuate per la punizione estrema: l’esecuzione extragiudiziale. Che ci sia davvero un controllo su e-mail, attività su internet e telefonate, è meno importante rispetto al fatto che le persone credano che ciò stia accadendo sul serio.
Il trucco è farlo in maniera indiscriminata, non concentrandosi solo sugli individui sospetti, ma facendo sentire ciascuno un potenziale sospetto; spingendoli a stare al sicuro per la paura, trasformando i potenziali attivisti in cittadini passivi sottomessi al governo. E lasciando così la politica nelle mani dei Big Boys – gli uomini di potere con i muscoli, sia in patria che all’estero.
Il trucco più semplice è rendere il fascismo compatibile con la democrazia. Una recente notizia colpisce: “Ammettendo che le forze inglesi torturarono i kenyoti che combatterono contro il dominio coloniale negli anni ’50, il governo risarcirà 5.228 vittime” (International Herald Tribune, 7 giugno 2013). Un numero drammatico, più di 5.000 – ma sicuramente il numero delle vittime è maggiore. Dov’era la “Madre dei Parlamenti” durante una simile manifestazione di fascismo? Si avverte una formula: “era per la sicurezza degli inglesi in Kenya”, dovesicurezza è la parola-ponte tra fascismo e democrazia, sostenuta da quella paranoia istituzionalizzata a livello accademico che sono gli “studi sulla sicurezza”.
Ci sono anche altri modi. Innanzitutto ridurre la definizione di democrazia alla presenza di elezioni nazionali con più partiti. In secondo luogo, far diventare i partiti praticamente identici sulle questioni della “sicurezza”, pronti all’uso della violenza a livello nazionale o internazionale. Terzo, privatizzare l’economia nel nome della libertà, l’altra parola-ponte, lasciando al potere esecutivo essenzialmente le questioni giudiziarie, militari, e di polizia, sulle quali già esiste un consenso manipolato.
Arrivare a una crisi permanente, con un nemico permanente e pronto a colpire, è utile, ma ci sono anche altri modi. Proprio come una crisi che viene definita “militare” catapulta al potere i militari, una crisi definita “economica” catapulta al potere il capitale. Se la crisi è che l’Occidente ha perso la competizione nell’economia reale, allora al potere arriva l’economia finanziaria, le grandi banche, che gestiscono migliaia di miliardi in nome della libertà. Corrompere alcuni politici finanziando le loro campagne elettorali è roba da niente, e può perfino non essere necessario, dato il consenso generale.
Una via d’uscita c’è, e prima o poi verrà presa. Le persone pagano intorno al 20% di imposte – negli Stati Uniti è la metà – quando acquistano beni o servizi di consumo nell’economia reale. La finanza invece fa ogni pressione con le sue lobby per non pagare l’1%, o neanche lo 0,1%. Un compromesso al 5% (di tassazione della finanza) basterebbe a risolvere il problema dei paesi occidentali: l’economia reale non produce un surplus sufficiente per governare uno Stato se non con la forza.
Se la libertà è definita come la libertà di utilizzare denaro per guadagnare più denaro, e la sicurezza come forza per uccidere il nemico designato ovunque esso sia, allora abbiamo un “complesso militare-finanziario”, il successore del “complesso militare-industriale”, nelle società in via di deindustrializzazione. I movimenti pacifisti e ambientalisti sono i loro nemici: una minaccia alla sicurezza e alla libertà non solo perché mettono in dubbio le uccisioni, la ricchezza e la disuguaglianza, ma perché vedono gli effetti opposti di tutto questo: la produzione di insicurezza e dittatura. I movimenti operano alla luce del sole, sono facilmente infiltrati da spie e provocatori, le voci indispensabili sono facilmente eliminate.
Siamo a questo punto. La tortura come metodo rafforzato per le indagini, i campi di concentramento de facto come a Guantanamo, la cancellazione dell’habeas corpus. E un presidente americano che racconta a chi vuol crederci favole progressiste che non diventano mai realtà che sia un ipocrita o un velo messo da qualcuno su una realtà fascista. Chi quel velo lo strappa, un Ellsberg, un Assange, un Manning o uno Snowden è considerato un criminale. Non coloro che costruiscono il fascismo. Un antico adagio: quando c’è più bisogno di democrazia, aboliscila.

(Transcend Media Service, www.transcend.org/tms/?p=30956Traduzione dall’inglese diAlessandro Castiello D’Antonio)

Bella scoperta

Simonetta Zandiri

I commentatori televisivi sono straordinari! Ora che l'esercito ha il controllo dell'Egitto, spodestando di fatto il leader eletto secondo canoni che da noi vengono considerati DEMOCRATICI, Morsi, ora riescono a dire che "effettivamente la democrazia non è soltanto questione di una scelta alle urne"! MA DAVVERO? E quando lo diciamo noi, che la democrazia è un'altra storia? IPOCRITI, massa di IPOCRITI!


Popoli dalla schiena drittta

Luciano Granieri


Gli eventi che stanno infiammando l’Egitto nelle ultime ore dimostrano come il popolo egiziano sia determinato nel conquistare la propria libertà.  Dopo aver invaso le piazze e aver rimosso il dittatore Hosni Mubarak nel febbraio del 2011, grazie anche all’aiuto dell’esercito, gli Egiziani   hanno  deciso di ribellarsi in modo ancora più massiccio al governo dei fratelli musulmani guidato da Mohammed Morsi, peraltro liberamente eletto a seguito di consultazione popolare. 

In realtà dalla dittatura di Mubark si è passati alla dittatura religiosa, all’islamizzazione forzata di Morsi. Ancora una volta il popolo è rimato fuori dai processi decisionali , soggiogato da un altro tipo di tirannia. Oltre all’invasione delle piazze per urlare la propria protesta, gli oppositori di Morsi e l’esercito hanno raccolto milioni di firme per chiedere le dimissioni del presidente  ,  a cui  sono state concesse 48 ore per dimettersi, alla scadenza delle quali, l’esercito trarrà le proprie conclusioni e il popolo metterà in atto  la disobbedienza civile. 

Le 48 ore sono scadute  ieri ma  Morsi ha ribadito di non aver intenzione di dimettersi perché  si considera legittimato dalla sovranità popolare  in quanto è il primo leader eletto in libere elezioni. La protesta continua ancora più aspra, cruenta  ma anche gioiosa  ,  con le piazze invase del suono delle vuvuzelas . Tanto  è bastato a   provocare le prime defezioni. Hesham Qandil , premier egiziano, si è dimesso e con lui anche  il ministro della difesa Abdel  Fattah el Sissi, pronto a prendere il comando dell’esercito contro il presidente.  

Certo l’ingombrante presenza dell’esercito nel guidare la protesta prelude ad un ritorno al potere delle forze armante del generale Tantawi.  Un governo già sperimentato dagli egiziani fra il febbraio del 2011 (caduta di Mubarak) e il giugno 2012 (elezione di Morsi)  che non ha lesinato violenza nel reprimere le rivolte uccidendo e torturando, come nell’eccidio di Maspero dell’ottobre 2011 e negli scontri di via Mohammed Mahmoud un mese più tardi.

 Ciò che manca in realtà è un’avanguardia che guidi e organizzi le masse nella rivolta  in modo da riuscire a instaurare un governo diretto del popolo  senza interposizioni di sorta, né dell’esercito, né della fratellanza musulmana.  Evidentemente tale forza catalizzatrice degli interessi popolari non esiste ancora perché il Paese è stato sempre occupato da un regime dittatoriale impermeabile ad ogni tipo di organizzazione socialista o comunista. Sia come sia  gli Egiziani sono determinati ad ottenere la propria libertà e, anche se in ordine sparso,  si oppongono alla dittatura religiosa che ha sostituito la dittatura di Mubarak. 

Anche in Italia  abbiamo assistito, non ha una rivoluzione per  carità, ma ad un forte cambiamento di indirizzo, nella tornata elettorale del febbraio scorso, con la  vittoria assoluta dell’astensionismo e del voto di protesta al M5S.  Lo scossone  ha prodotto non già un programma di rinnovamento ma la messa in moto di un processo di ulteriore arroccamento della casta. 

Il risultato è stato il pieno tradimento anche degli elettori  che,  obbedienti,  hanno votato i propri comitati elettorali di riferimento.  Ad esempio    chi ha voluto dare per l’ennesima volta credito al Pd, in base agli annunci fatti da Bersani sull’incompatibilità di un accordo con Berlusconi, sull’eliminazione del programma degli F35,   sulla modifica della legge elettorale, si è ritrovato a subire il tradimento dei vertici piddini non appena eletti: Maggioranza  con un Berlusconi ormai irrimediabilmente braccato dalle sentenze processuali,  rinvio della decisione sugli F35,    affossamento di una nuova legge  elettorale, vincolata alla natura delle riforme istituzionali, in particolare la seconda parte della costituzione,  così  come Berlusconi  ha comandato.

 Il nuovo governo si barcamena sui pericolosi marosi del rinvio dell’aumento dell’Iva , coperto dall’anticipo degli acconti Irpef e Irap, sul posticipo del pagamento dell’Imu , sempre come comandato da Berlusconi ,  su una legge per il lavoro che è acqua fresca. Così come in Egitto si è sostituito al  regime di Mubarak  la dittatura religiosa, in Italia al regime del capitalismo finanziario, governato per emanazione diretta dei banchieri, nonostante le indicazioni chiare venute dalle urne, si è sostituito un nuovo regime, ancora espressione  del capitalismo finanziario, ma  questa volta retto per effimera legittimazione politica  dai soliti comitati elettorali , opposti  fra loro a chiacchiere,   ma uniti nel compiacere i signori della Bce, del Fmi, e nel conservare i propri smisurati privilegi. 

Altro  che battere i pugni sul tavolo con Bruxelles, come sostiene Letta nipote! In sostanza le condizioni sociali ed economiche sono ulteriormente peggiorate. Siamo in presenza di un’accelerazione del declino imposta da un governo che decide sempre e comunque di non decidere nel tentativo di conciliare l’inconciliabile, ossia la propria sopravvivenza con gli interessi popolari.  Ma a differenza del popolo egiziano che insorge, il popolo italiano dorme. Si bea delle protestucce messe in piedi dai sindacati di regime. Si   disinteressa completamente della vicenda sperando di poter contare sul porta borse  o politicuzzo, burocrate di quartiere di turno,  a cui raccomandarsi, cerca di vincere la guerra fra poveri  messa in atto dal potere per evitare la formazione di un vero e proprio  fronte popolare. 

Ma si ignora   che i poveri non vincono mai,  men che meno se si combattono fra di loro. Allora forse sarebbe il caso di guardare all’Egitto, alla Turchia, a popoli che pur se ancora non sono organizzati nella rivolta, comunque mostrano di avere la schiena dritta nel promuovere ed imporre le proprie legittime aspirazioni di libertà e di rispetto della dignità umana.

martedì 2 luglio 2013

Turchia Fianco a fianco contro il fascismo

Dichiarazione di Red movement (sezione turca della Lit)
 
Erdogan e il suo governo hanno iniziato un barbaro attacco contro la sollevazione del movimento di massa. Al momento, il bilancio di questo attacco è di quattro morti, migliaia di feriti, persone scomparse e arrestate. Comunque, la nostra gente non si sta arrendendo di fronte a questa barbarie. La resistenza sta assumendo diverse forme e sta diventando sempre più forte. Vogliamo condividere le nostre idee e i nostri suggerimenti sulle ultime conclusioni che abbiamo raggiunto e sulle minacce che ci attendono.

1. Le forze di polizia che sono entrate a piazza Taksim e a Gezi park con immensa brutalità non hanno rappresentato una sconfitta: involontariamente hanno contribuito a dare un'esperienza al movimento. L’aumento della tensione e delle aspettative, la costruzione dei nostri scudi, la resistenza disarmata e vulnerabile che non aveva nessuna possibilità di resistere contro i pesanti attacchi a tradimento ha dovuto essere cambiata. Senza dubbio, la determinazione delle masse, una rivolta di tre settimane e 24 ore di eroica resistenza hanno lasciato la loro esperienza come eredità per il futuro.
2. Con la partecipazione delle forze militari gli attacchi si sono estesi a tutta Istanbul, per non parlare della repressione contro il movimento di massa. La conseguenza diretta è stata l’estensione della protesta a tutta la città. Ora ci sono punti d’incontro e di discussione in tutta la città e manifestazioni ogni notte.
3. C’è un ripudio crescente per il governo in tutto il Paese. In tutte le grandi città e anche in molti piccoli paesi si sta sviluppando un movimento antigovernativo. Nessuno si arrende. Ogni giorno decine di persone sono incarcerate semplicemente per aver alzato la testa e per resistere. Tutto questo dimostra chiaramente che le masse non si inginocchieranno davanti al dittatore.
4. Dopo una pausa per riprendere fiato il movimento di massa si solleverà un’altra volta. Taksim sarà conquistata un’altra volta. Questo significherà la fine di Tayyip Erdogan che non è altro che un dittatore che non riconosce nemmeno le sue stesse leggi. La classe dominante è cosciente di questo e per questa ragione attacca le masse in maniera brutale.
5. Dall’altro lato, bande fasciste armate con mazze attaccano le masse insieme alla polizia. La situazione ci ha apertamente posti di fronte al carattere fascista dell’Akp. Per noi non è altro che un dittatore fascista che difende entusiasticamente il suo regime facendo leva su una presunta “volontà nazionale”.
6. Gli incontri che in forma consistente si stanno tenendo tutte le notti nei quartieri di Istanbul sono molto importanti. Devono estendersi a tutto il Paese e diventare “assemblee delle masse popolari”. Le masse popolari devono creare i loro meccanismi decisionali e decidere cosa fare. Le decisioni prese nei quartieri devono collegarsi tra di loro. Questo rappresenterà un passo importante per risolvere il problema della mancanza di organizzazione del movimento.
7. Dobbiamo resistere contro l’Akp e i fascisti armati, iniziando dai nostri quartieri, dobbiamo creare l’autodifesa del nostro movimento. Siamo di fronte a bande fasciste che venerano il denaro e il potere. Esistono solo grazie al supporto delle forze dello Stato e otterranno il potere solo sconfiggendo il movimento di massa. Noi non lasceremo che questo accada.
8. In risposta al supporto dato dal Kesk e dal Disk allo sciopero di un giorno, la direzione del Türkis preferisce comportarsi come se non fosse successo niente in Turchia. Questo dimostra apertamente che loro supportano la dittatura. I sindacati affiliati al Türkis, partendo dalle loro sezioni, devono forzare la linea di sostegno alla dittatura per fermarla e convincerli a partecipare in vari modi al movimento in corso. L’entusiasmo del dittatore fascista che cerca di gestire il popolo con pugno di ferro e di condannare la classe operaia a condizioni di schiavitù può solo essere rovesciato dal movimento delle masse che si sono organizzate.
9. La dittatura deve essere sconfitta. Le richieste di solidarietà per Taksim sono superate; a partire da ora le parole d’ordine del nostro movimento sono “Via l’Akp, via Tayyip!”. Da questo momento la nostra lotta procede su queste basi.
10. Questo movimento di libertà, che ha avuto inizio a Gezi park, si è diffuso in tutte le regioni e ha mostrato alla nazione curda e alle organizzazioni politiche il terreno per la costruzione di un’alleanza tra la classe operaia turca e le organizzazioni rivoluzionarie curde. L’Akp e le sue politiche hanno apertamente dimostrato che non daranno risposta alla richiesta di libertà che la nazione curda reclama da decine di anni. Le rivolte di giugno devono diffondere il messaggio che la pace e la libertà possono essere conquistate solo nelle strade. Non possiamo dimenticarci che il movimento nelle strade è il destinatario delle richieste di pace e libertà da parte della nazione curda.

BARRICATE! SCIOPERO! RIVOLUZIONE!
RIVOLUZIONE PERMANENTE FINO ALLA VITTORIA!
 

Indietro non si torna

Sinistra critica Roma

Indietro non si torna!

Incontro pubblico di presentazione di Ross@ a Roma e nel Lazio

Venerdì 5 luglio, ore 18

Case occupate

viale delle Provincie, 198

(metro Bologna)

Per il referendum contro i trattati dell'Unione Europea

Per contrastare l'accordo del 31 maggio, per la democrazia nei posti di lavoro

Per opporsi al presidenzialismo e all'autoritarismo

Costruiamo Ross@ anche a Roma e nel Lazio, per dare vita a una piattaforma comune di lotta contro le politiche antipopolari e dell'austerità insieme alle/agli attiviste/i dei movimenti sociali

Trebbiatura e rivoluzione

Luciano Granieri


Video intervista di Paolo Iafrate

Il 29 e 30 giugno si è svolta presso l’Azienda Agricola annessa all’istituto Agrario di Frosinone la festa della trebbiatura. Presso l’aia  è andato  in scena il magico e suggestivo rito della trebbiatura tradizionale effettuata  con  l’utilizzo un vecchio modello di trebbia “a fermo”. Il tutto allietato con balli e canti popolari eseguiti da alcuni studenti dell’Istituto.  Alla magia del rito tradizionale contadino si è unita la suggestione dell’arte. Alcuni pittori hanno eseguito delle opere che sono state esposte nell’area della trebbiatura. Una contaminazione fra vera e propria arte contadina con l’arte figurativa e musicale. Vogliamo ringraziare il Prof. Lorenzo Rea docente dell’istituto e direttore dell’Azienda agraria e il direttore scolastico Prof. Salvatore Cuccurullo per aver organizzato un evento che va oltre la semplice valorizzazione della cultura contadina. Ciò  che è avvenuto  nell’aia della’azienda agricola antistante l’istituto agrario di Frosinone, è un messaggio  affinchè  si capisca che un altro mondo era possibile ed è  possibile ancora oggi. Quel modello di comunità, basato sulla cultura della condivisione,  del reciproco aiuto nel lavoro dei campi, nel comune usufruire del frutto della terra e del proprio lavoro, del rispetto dei tempi e dei cicli  della natura, oggi rischia di diventare un modello rivoluzionario.  Una modalità in grado di sfaldare  la solitudine che attanaglia le persone,  sprofondate nella  disperazione di vivere in continua competizione con “l’altro” , anche per assicurarsi il tozzo di pane necessario a sopravvivere,  è indubbiamente alternativa e liberatrice. Quella cultura e tradizione contadina ci riporta ad una trama di rapporti sociali in cui  la stima è basata sulle qualità soggettive della persona, sulla sua disponibilità e generosità verso i propri simili e non su ciò che   possiede o sulla sua possibilità  di acquistare l’ultimo modello di cellulare o i-phon. Fondamentale è anche il concetto su cui  quella civiltà si basa, ovvero l’armonia  nell’usufruire delle risorse naturali, che contrasta fortemente con la pratica dello sfruttamento, del profitto immediato e della conseguente distruzione irreversibile di ciò che ha consentito quel profitto. Oggi le multinazionali alimentari distruggono ettari ed ettari di terreni con coltivazioni intensive, una pratica destinata a desertificare interi territori. Molte altre aree vengono sacrificate sull’altare della grande distribuzione, devastate da tonnellate e tonnellate di cemento nel quale realizzare l’ennesimo centro commerciale, nel più totale disinteresse   degli amministratori locali che spesso, proprio in virtù di questo lassismo possono godere di personali privilegi assicurati dagli speculatori a cui quel centro commerciale consente di accumulare ricchezze. Sabato e domenica scorsi i ragazzi e i docenti dell’istituto agrario ci hanno ricordato  che il sostentamento dell’uomo, fino a prova contraria,  viene dal lavoro dei campi, oltre che dal lavoro in senso lato. Fare i soldi con i soldi distruggendo giorno dopo giorno quantità immani di risorse naturali e sociali è un gioco a perdere, perché qualcuno ricordava che il denaro dà prestigio, ricchezze e potere, ma NON SI MANGIA. E quando i frutti che la terra ci mette a disposizione saranno esauriti, il denaro sarà solo carta straccia.




Per documentare la giornata abbiamo editato una foto clip con gli scatti di Eugenio Oi e le musiche di: Riccardo Tesi, organetto,   Patrick Vaillant, mandolino e mandola,  Daniel Malavergne alla tuba, Sandy Rivera alla marimba, al vibrafono ed alle percussioni, Michel Marre alla tromba.

I brani sono : Matelote e Tarantella al melograno

domenica 30 giugno 2013

Beta-HCH, pubblicato il rapporto sulla sorveglianza sanitaria ed epidemiologica della popolazione residente nella Valle del Sacco

Rete per la tutela  della Valle del Sacco


É opportuno fare il punto della situazione sulla contaminazione da Betaesaclorocicloesano (ß-HCH) alla luce della recente pubblicazione da parte del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione Lazio (DEP) del rapporto “Sorveglianza sanitaria ed epidemiologica della popolazione residente in prossimità del fiume Sacco”, Rapporto tecnico attività 2010-2013, Giugno 2013.
Ricordiamo che la prima indagine pubblicata in Ottobre 2008 fu effettuata su 246 campioni di siero individuali per il ß-HCH e campioni compositi per i PCDD-PCDF e DL-PCB, famiglie di diossine.
Estratto dei risultati:
«L’analisi statistica dei dati per area ha messo in evidenza valori di β-HCH più elevati per coloro che risiedono in prossimità (entro un km) del fiume Sacco, con valori più che doppi rispetto alle altre aree»; «[…per le diossinesi è osservato nelle aree di Colleferro (sia entro un km dagli impianti sia nel resto del comune ad 1 km dal fiume) un livello superiore a quanto riscontrato nelle altre zone a quanto osservato in studi di letteratura». 

Nel 2009 la Regione Lazio, assecondando le richieste del DEP Lazio, avvia il programma di monitoraggio biennale del ß-HCH sui residenti ad 1 Km dal fiume Sacco, con uno sportello informativo presso le USL RMG di Colleferro e la USL di Frosinone e un ambulatorio centralizzato presso la USL RMG.
Per questa nuova indagine, il campione contattato, entro 1 km dal fiume, è stato di 710 soggetti, di cui 643 hanno aderito. Di questi ultimi, 141 sono stati in seguito esclusi per problemi strumentali relativi al laboratorio analisi (Fondazione Maugeri di Pavia), per cui per il prosieguo della sorveglianza i campioni verranno inviati ad un laboratorio di Helsinki.
L’analisi è stata condotta su un campione di 502 soggetti.

Riportiamo un estratto dello studio.  

«In conclusione, in questa indagine, sono stati messi in evidenza livelli significativi di β–HCH in una popolazione nota per essere stata esposta a tale inquinante, prevalentemente attraverso alimenti e bevande. I dati emersi dalla sorveglianza sanitaria della popolazione presa in considerazione hanno permesso di mettere in luce alcuni effetti biologici […]. In particolare sono state osservate perturbazioni del pattern lipidico, della funzionalità renale e della steroidogenesi, interessando anche gli ormoni sessuali nel sesso femminile. É stata osservata infine una chiara associazione con alterazioni cognitive.
La possibilità che alla esposizione a β–HCH segua un danno biologico di diversi organi ed apparati è suffragata dai risultati di questo studio, anche se le conclusioni generali sono necessariamente caute nell’indicare l’esistenza di un nesso di causa ed effetto. La metodologia dello studio e i suoi risultati meriteranno sicuramente una valutazione attenta della comunità scientifica nei prossimi mesi e la materia si gioverà di un attento follow-up ambientale e clinico della popolazione già coinvolta e di altre popolazioni del comprensorio che hanno subito una esposizione alla sostanza tossica».

«Nel mese di marzo 2013 è iniziato infatti il primo follow-up della coorte dei residenti lungo il fiume che prevede la ripetizione di tutti gli esami di laboratorio già eseguiti e una batteria di esami strumentali per la diagnosi di patologie cardiovascolari (visita cardiologica, elettrocardiogramma, misurazione della pressione arteriosa, eco-doppler delle arterie carotidee»), il tutto attraverso la stipula di una convenzione con il CNR di Pisa.

Le conclusioni del rapporto confermano quindi che le sostanze prodotte dall’interramento dei fusti tossici nel comprensorio industriale di Colleferro hanno determinato una “acquisizione biologica del β-HCH”, in quanto il campione esaminato è abbastanza significativo.
É opportuno che alla sorveglianza sanitaria venga dato seguito, secondo le indicazioni del DEP, e che in relazione allo studio ERAS vengano implementate analisi aggiuntive su diossine, IPA e PCB, al fine di verificare l’impatto sanitario per la presenza di impianti di incenerimento rifiuti e discariche senza dimenticare le possibili ricadute del recente incendio all’impianto di preselezione di CDR in località Castellaccio a Paliano (Fr).
Riteniamo che la pubblicazione del rapporto rappresenti un ulteriore segnale di trasparenza sull’operato epidemiologico nella Valle del Sacco e soprattutto di rispetto verso una popolazione che necessita di avere serie risposte sul proprio stato di salute.

Attendiamo fiduciosi che le amministrazioni facciano il loro dovere e attraverso lo strumento del Consiglio Comunale aperto, comunichino alla cittadinanza i risultati del rapporto.

Valle del Sacco, 30 giugno 2013

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