Samantha Comizzoli
Una settimana di attacchi notturni da parte dei nazisti Israeliani. Durante la notte al centro di Nablus per sparare e rapire i Palestinesi. L'immagine finale l'ho girata all'ingresso del Wtanja Hospital.
sabato 21 giugno 2014
L’artista e le lotte di classe, ovvero: quando la critica delle armi impone una visione del mondo. Appunti politici attorno al film Giù la testa di Sergio Leone
Collettivo Militant
La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza
Mao Tse Tung
Non è immediato oggi cogliere il significato della citazione di Mao che apre il film di Leone. Eppure, da qui bisogna partire per comprendere il senso politico dell’opera. A prima vista, l’introduzione del presidente cinese, ancora in vita al momento della realizzazione del film, appare totalmente fuori luogo, al più ridondante. Per quanto il prolifico e altalenante filone del “western all’italiana” abbia contribuito alla vitalità artistica di un cinema ormai in declino, non può essere certo ascritto a quel movimento cinematografico “impegnato” caratteristico di quegli anni. Allo stesso tempo, non può bastare un accostamento superficiale tra violenza degli eventi narrati e ineludibilità storica di quest’ultima, certificata dalla citazione utilizzata come giustificazione della violenza presente nel film. Il fatto è che Giù la testa non è un western, ma un film politico, un film sulla Rivoluzione e sui mezzi necessari alla lotta per il potere. E Mao Tse Tung non viene usato per giustificare un discorso, men che meno per omaggiarne la figura, ma per dare una linea politica.
Gli anni Settanta in Italia erano anni di violenza politica e di repressione. Nel vortice politico che risucchiò una generazione di militanti e che costrinse il mondo intellettuale a schierarsi da una parte o dall’altra (quasi sempre dall’altra), Sergio Leone interviene a gamba tesa. Scegliendo di schierarsi, non si lascia attrarre da giustificazionismi di sorta, come se l’uso della forza delle classi subalterne fosse determinato solo dal comportamento corrotto delle elite di potere. Sergio Leone decide di stare dalla parte della Rivoluzione dicendo che questa non può darsi senza la lotta armata. E lo dice nel momento in cui, in Italia, questa prenderà vita. Probabilmente, la spirale di eventi che porteranno migliaia di militanti a prendere sul serio questo discorso provocherà una crisi di rigetto da parte di tanta parte di mondo intellettuale non ancora pronto al salto definitivo verso l’ignoto rivoluzionario, dove non esistono posizioni di rendita intellettuale tali da assicurare comodità. Il blocco cinematografico di Leone dopo questo film non va pertanto letto unicamente come “pausa intellettuale” o “vuoto creativo”, ma anche come crisi politica ed umana. La crisi di chi, dopo aver spiegato come si fa, poi viene costretto a cimentarsi con una realtà sempre più vicina alla teoria.
Sebbene inserito nel filone western, Giù la testa non è un western. Non è ambientato nei nascenti Stati Uniti alla conquista dell’ovest, non ha come protagonisti banditi o bovari in cerca di fortuna, non descrive una lotta fra guardie e ladri in una terra di nessuno dell’incerto controllo statale in fase costituente. E’ invece il racconto della Rivoluzione, delle sue contraddizioni, dei suoi passi falsi, narrata da chi comprende che un evento di tale portata non può essere preso frontalmente. Il Messico del 1916 è allora il posto ideale per gettare questo sguardo obliquo avendo come obiettivo ciò che succede in Italia negli anni Settanta.
Il film ruota attorno a tre dinamiche decisive nel discorso politico di quegli anni: l’incontro/scontro tra classe sociale e avanguardie politiche; la necessità della lotta armata quale sostanza ineludibile di ogni discorso politico rivoluzionario; le asprezze della lotta e della repressione, soprattutto inerenti al cedimento del fronte interno tramite la dissociazione, cioè il tradimento politico.
Il discorso sopra affinità e divergenze tra la “classe in sé” e i militanti politici è sempre stato, e lo è tutt’ora, uno dei nodi centrali di ogni percorso organizzativo. Nell’opera, la parte del proletario senza interessi politici, disincantato e cinico, ma con un istintivo odio di classe verso i ricchi e il potere, viene simboleggiato da un bandito, Juan Miranda, che insieme alla sua famiglia rapina diligenze e vive come può alla giornata sognando il grande colpo alla banca. Il combattente politico è invece personificato da un militante dell’IRA, John Mallory, in fuga dall’Irlanda ormai braccato dalla repressione, e che giunge in Messico per portare a compimento quella rivoluzione non riuscita in patria. Sebbene repressione e delusioni umane e politiche abbiano anche in lui prodotto la medesima disillusione e cinismo, rimane evidente la differenza, che nel film viene descritta quasi come antropologica, fra i due personaggi. L’uno politico, l’altro no.
Purtroppo, nonostante il coraggio del regista nel trattare il tema, il rapporto tra i due risente di una visione idealista, in un certo senso tipica anche oggi, del discorso sopra l’incontro tra avanguardia politica e base sociale di riferimento. Il proletario e il militante sono due esseri socialmente diversi quindi, in ultima istanza, incomunicanti: il primo vive sulla pelle quelle contraddizioni che il secondo legge sui libri, e questo fatto non può che produrre una contraddizione. La fiducia rivoluzionaria del secondo è viva solamente grazie alla distanza che separa questo dalle reali condizioni di vita dei subalterni. Non c’è possibile convergenza: grazie all’esperienza di lotta fatta insieme, il proletario giungerà alla “presa di coscienza” rivoluzionaria solo quando il militante giungerà all’estremo disincanto delle ragioni della lotta. Riproducendo il classico schema, piccolo-borghese e sovente smentito dalla storia, per cui di fronte alle concrete asprezze della lotta, sarà il proletario a rimanere in piedi e il militante a cedere di fronte alla repressione. Nonostante il militante dell’IRA non ceda, tutto il mondo politico attorno a lui e un mondo costellato da dissociazioni, da cedimenti alle torture, di delazioni che reiterano la percezione di una presa di coscienza libresca che di fronte alla crudezza della lotta viene meno. Ma il sentimento che persiste lungo tutto il film è quello della sfiducia: nonostante il percorso assieme, per il proletario la fregatura è sempre dietro l’angolo, esemplificato da un discorso che il bandito Miranda fa al militante irlandese :
“Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: Qui ci vuole un cambiamento! E la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzioni!”
Il bandito messicano riesce, al contrario, ad accogliere in pieno le ragioni della lotta, divenendone suo malgrado uno dei leader, solamente di fronte alla morte dei suoi figli, cioè quando vive sulla propria pelle le crudeltà della repressione statale. Anche qui, l’idealismo di maniera impedisce al film di essere utilizzato come paradigma. Il fatto è che, descritti come antropologicamente diversi, può prodursi un incontro umano tra le due figure, ma difficilmente un incontro politico slegato dall’amicizia o dall’esperienza diretta, capace di generalizzare quell’incontro. La storia delle lotte di classe, in Italia come in America Latina o in Asia, smentisce tale interpretazione, non a caso reiterata dal racconto borghese delle rivoluzioni, per cui queste sono il prodotto di manipolazioni populiste da parte di una elite in cerca di potere. Non c’è alcuno scarto tra proletario e militante politico, perché il militante politico rivoluzionario è, nella grande maggioranza dei casi, un proletario. E se il percorso della fatidica “presa di coscienza” è variegato, non sono “i libri” a determinare la volontà rivoluzionaria. Semmai, elementi culturali possono intervenire a strutturare questa volontà, ad indirizzarla verso questo o quel percorso, ma non c’è contraddizione o distanza fra classe sociale e sue avanguardie.
Al contrario, il discorso dove Sergio Leone riesce ad esprimere un coraggio e una chiarezza inusuali per un certo tipo di intellettualità è quello sulla lotta armata. Come detto in precedenza, proprio nel momento in cui anche in Italia iniziano a nascere certe esperienze di lotta, il regista fa una scelta di campo e indica una direzione: il discorso rivoluzionario concerne l’uso della forza, e l’uso della forza va organizzato. Non c’è alcun cedimento umano o pietistico intorno al tema. Nel film, i nemici politici vanno eliminati, senza ripensamenti. Non è odio personale contro questo o quell’esponente del governo o dell’esercito, ma una violenza politica che concerne la lotta per il potere. Nel momento della lotta la parola passa alla razionalità politica, senza spazio alcuno alla filosofia o al moralismo. Anche le continue riflessioni critiche tra i due protagonisti scompaiono durante il conflitto, perché questo impone una scelta di campo, e a questa scelta non è possibile sottrarsi. La strada per il potere rivoluzionario è fatta di sangue, che lo si voglia o meno. Tanto vale organizzare questo sangue, con scientificità, senza avventurismi.
Altro discorso centrale dell’opera è il rapporto con il tradimento. La asprezze della lotta provocano cedimenti difficilmente razionalizzabili. Dapprima in Irlanda, poi in Messico, il militante dell’IRA John Mallory è costretto a subire il tradimento dei suoi compagni, la dissociazione, la delazione sotto tortura. Di fronte al dramma del compagno che cede alla tortura, Leone-Mallory indica due strade, simbolo dell’impossibilità di razionalizzare l’evento. In Irlanda, Mallory uccide il compagno (e suo migliore amico) Sean Nolan (di qui il tema musicale di Ennio Morricone,Sean Sean) che, cedendo alle torture, fa arrestare il resto dell’organizzazione. La scelta estrema sarà motivo del disincanto del protagonista, che viene riprodotta in Messico: qui è il dirigente dell’organizzazione, il dottor Villega, che non regge la brutale repressione, mandando decine di rivoluzionari alla fucilazione. Di fronte alla riproposizione dell’evento, Mallory decide di non decidere, concedendo al traditore di vivere. Questa scelta imporrà una redenzione del traditore, che troverà una morte da eroe nella battaglia per arginare le forze militari mandate a sconfiggere i rivoluzionari. La morte da eroe cancella il cedimento sotto tortura? A questa domanda il regista non risponde. Di fronte al cedimento (qui parliamo del tradimento dovuto a tortura fisica, non alla dissociazione o al pentimento per meri tornaconti personali) solo due strade si aprono: il ritiro dalla politica o la morte in battaglia. Non esiste una terza strada. Il coraggio e la capacità nel trattare il tema, ancora oggi dovrebbero illuminare schiere di intellettuali e dirigenti politici. Soprattutto nel nostro paese, la via della dissociazione ha aperto la strada alritorno in politica. Non possiamo che rimpiangere allora l’indicazione di Leone.
Il film oggi non può che reiterare la propria “inattualità”. La possibilità delle classi subalterne di razionalizzare l’uso della forza è un’immagine espunta dal discorso politico. L’unica violenza ammessa è la reazione rabbiosa di fronte alla povertà, rabbia e violenza descritte come tentativo sottoproletario di accedere al consumismo senza freni, unica loro possibilità di soddisfazione. Il “riot”, per forza di cose impolitico, viene represso ma non criminalizzato perché funzionale ad un discorso di potere. La valvola di sfogo della violenza senza obiettivi può ben essere trattata dalla forza pubblica alla stregua della comune criminalità, perciò in qualche modo sistemica e dunque fisiologica. Ciò che va espunto dalla storia non è allora la violenza in quanto tale, ma la sua organizzazione politica. E’ l’avanguardia politica che organizza la forza che va repressa senza alcun termine di mediazione. Laddove si presenta, è d’altronde palese il tentativo di ricondurre l’evento a fatto d’ordine pubblico, da risolvere attraverso l’uso della polizia. Tanto all’interno dei propri confini quanto in operazioni che non a caso vengono definite di polizia internazionale. Il nemico politico non è pensabile, ma questo può essere descritto solo nei termini del terrorista o del criminale comune.
Eppure, nonostante la distanza discorsiva difficilmente colmabile tra l’opera di Leone e la realtà odierna, la banca di Mesa Verde trasformata in prigione politica descrive ancora con forza impareggiabile la violenza del capitale, che non è solo o soltanto una violenza economica, quanto una violenza politica. Nel momento della lotta, anche l’icona dello sfruttamento economico, la banca, può ben servire alla ragione di Stato. Le casseforti un tempo colme di denaro possono rapidamente adattarsi a celle per militanti, se lo impone il corso degli eventi, cioè la lotta di classe. Non è rapinando una banca che si cambia la ragione sociale di quell’istituzione allora, ma attentando al potere politico che consente a quella banca di svolgere quella funzione. Un discorso quanto mai attuale, in questa fase di rifiuto del politico.
CONFRONTO PUBBLICO PER L'ATTUAZIONE DELLA L.R. 5/2014
COORDINAMENTO REGIONALE ACQUA PUBBLICA LAZIO
Mercoledì 25 giugno
Poggio Mirteto (RI)
Sede ARCI – Via Cairoli/Piazza Martiri della Libertà
programma
ore 15,00 – Incontro Coordinamento regionale acqua pubblica Lazio
ore 17,00 – Confronto pubblico con amministratori locali e tecnici esperti
ore 20,00 – Cena a sottoscrizione
E' stato invitato ad intervenire l'Assessore Regionale all'Ambiente Fabio Refrigeri
Dal 5 aprile nel Lazio è in vigore una nuova legge regionale che regola il servizio idrico integrato secondo i principi di solidarietà, autonomia degli enti locali e di salvaguardia della risorsa idrica, cercando di sottrarla alle speculazioni e alle logiche di mercato come hanno chiesto la maggioranza dei cittadini con i referendum del 2011.
In questi giorni, volontari dei comitati locali, ricercatori, tecnici esperti e amministratori hanno cominciato a lavorare per l'attuazione immediata di una delle leggi più innovative in Italia in tema di servizio idrico. A Poggio Mirteto si terrà un primo confronto aperto a tutta la cittadinanza per cercare di aumentare la consapevolezza sul tema dell'acqua ed in particolare sulle problematiche concrete che affliggono i territori.
Per informazioni sull’iniziativa:
3474807602 - 3333783599
Abc, l'esperimento democratico di Napoli
Ugo Mattei. Fonte: http://www.sbilanciamoci.info/
Lo Stato dell'economia/La società che gestisce il servizio idrico ha uno statuto sociale ed ecologico e una governance fondata sulla partecipazione
La crisi industriale richiede un nuovo intervento pubblico e riporta all'ordine del giorno la questione del governo democratico dell'economia. Ma - come ci ricordano i casi di politiche sbagliate e di corruzione - non basta dare potere e risorse a soggetti pubblici per risolvere i problemi: serve un controllo democratico e forme di gestione rivolte a tutelare l'interesse collettivo.
La stagione dei beni comuni - referendum sull'acqua, occupazione dei teatri, costituente per i beni comuni ha radicalmente posto in discussione la dicotomia tra pubblico (Stato) e privato (mercato), e in particolare la riduzione della questione democratica alle istituzioni del primo. Certo, la critica alla rappresentanza non poteva che rivolgersi principalmente alle istituzioni politiche pubbliche: la «ripubblicizzazione» dell'acqua e degli altri servizi di interesse economico generale non può coincidere con un ritorno a un pubblico burocratico, gerarchico e verticale. Ma la questione democratica si pone naturalmente anche nelle sedi economiche, e non più soltanto in quelle politiche.
In questo quadro ho seguito l'importante esempio di trasformazione dalla veste privatistica (Spa) a quella pubblicistica (Azienda speciale) avvenuto a Napoli, dove l'acquedotto, un servizio a vocazione industriale con fatturato ben superiore ai 100 milioni di euro e con un numero di dipendenti dell'ordine del mezzo migliaio è stato definitivamente trasformato in Azienda Speciale ABC (Acqua Bene Comune) nell'aprile del 2013, proponendosi come modello (finora non seguito) di ottemperanza fedele al referendum di tre anni fa.
Sul piano teorico, il processo non poteva essere più limpido e cristallino. L'Azienda Speciale ai sensi del Testo unico sugli enti locali è dotata di piena autonomia statutaria. Lo statuto è il vero Dna di ogni soggetto economico perché determina i comportamenti degli amministratori, perciò tutto sta nell'adottarne uno coerente con la natura di bene comune del servizio idrico. Lo statuto di ABC dovrebbe vincolare così gli amministratori (per due quinti espressione del «mondo ambientalista») ad un governo dell'acqua come bene comune, ossia ad uno spirito ecologico, contestuale, solidaristico, generativo e senza fini di lucro.
Si supera così la natura tipicamente estrattiva, di breve periodo, verticalmente aziendalistica e «for profit» delle Spa (indipendentemente dal fatto che l'azionariato sia pubblico o privato). Il bene comune servizio idrico non è frazionato in azioni, per loro natura agevolmente alienabili, sicché il valore d'uso torna a prevalere strutturalmente su quello di scambio e la privatizzazione è davvero scongiurata.
Fatta questa scelta, occorre affrontare il problema per cui insieme allo «scopo di lucro» si rischia di perdere i servigi della sola «agenzia» capace di misurare l'efficienza aziendale, ossia «il mercato». È quindi essenziale sostituire il «controllo del mercato» con «il controllo della partecipazione», o meglio affiancare il secondo al primo, allestendo una sorta di parlamentino dell'acqua (il Comitato di sorveglianza) che a regime dovrebbe dotarsi dei mezzi tecnici (per esempio una matrice dei beni comuni) idonei a garantire che il governo ecologico e sociale non degeneri in collocamento del nipote scemo del potente di turno.
Questa combinazione di statuto ecologico e sociale con governance fondata sul controllo partecipato dell'operare degli amministratori è sicuramente la chiave di volta del nuovo governo democratico dell'economia di cui ABC si propone come modello. Ovviamente, è necessario molto lavoro teorico e pratico che non può essere portato avanti in solitudine, sicché ABC ha promosso a livello nazionale Federcommons associazione che cerca di legare fra loro le oltre duemila aziende di servizi ancora interamente in proprietà pubblica il cui valore, dell'ordine di ben 500 miliardi (stime dell'Imf), costituisce la vera preda delle prossime rapaci privatizzazioni.
Infatti se a Napoli abbiamo allestito il parlamentino dell'acqua, composto di cinque lavoratori eletti, cinque utenti sorteggiati, cinque componenti del consiglio comunale e cinque rappresentanti dei movimenti ambientalisti (oltre all'assessore con delega all'acqua) nulla vieta di immaginare altrove un parlamentino della spazzatura, uno dei trasporti, uno della scuola, uno della Rai, in modo da attirare al governo dell'azione pubblica intesa come bene comune le migliori energie della cittadinanza attiva.
È presto per valutare i nostri risultati anche perché come prevedibile scontiamo non poca resistenza su diverse linee. Intanto, la ripubblicizzazione, ponendosi in contrasto radicale con i tentativi continui di aggirare il referendum, si ritrova come nemici i poteri finanziari (che cercano di limitate l'accesso al credito, per fortuna oggi assai basso), e l'informazione dominante, portatrice di interessi direttamente in conflitto con il mantenimento dell'acqua pubblica.
Inoltre, scontiamo un ritardo soprattutto culturale da parte delle istanze comunali che stentano a comprendere che il modello ABC lungi dal voler concentrare maggiori poteri nella politica rappresentativa, costituisce un avanzato tentativo destituente volto alla restituzione al popolo sovrano del potere mal utilizzato dalla rappresentanza. A questo proposito, si sta giocando una delicata partita proprio su alcune proposte modifiche di Statuto che rischiano di mettere la «mordacchia» ad ABC, mentre invece occorrerebbe ripensare al controllo analogo con piena responsabilizzazione del parlamentino, ovviando altresì ai problemi gravissimi generati dall'inerzia e dai tempi della politica. Infine ben scarso entusiasmo per questo esperimento è manifestato dai movimenti napoletani, i quali non si rendono conto che il meglio è nemico del bene e paiono assi riluttanti ad assumere la responsabilità che deriva dal partecipare al gioco istituzionale. Incredibilmente, la sola componente che ancora non ha dato i suoi cinque rappresentanti del parlamentino dell'acqua è proprio quella di movimento! Verrebbe da dire: è facile predicare la ripubblicizzazione, molto meno è sporcarsi le mani per metterla in pratica.
L'esperimento ABC sta dando risultati largamente positivi sul piano economico, finanziario e degli investimenti in chiave di beni comuni. I risultati di gestione sono tutti migliori rispetto al budget nonostante l'assai becera applicazione di spending review ed altri arroganti interventi esterni, dall'Agenzia delle entrate, a Inps, Inpdap, ad alcuni uffici comunali, ai favoritismi intollerabili della Regione Campania nei confronti dei soliti gruppi privati: ABC resta l'unica partecipata virtuosa del Comune di Napoli, in attivo a dispetto dei Santi! È forse a causa di questi risultati che l'esperienza istituzionale di ABC è occultata dal dibattito pubblico.
venerdì 20 giugno 2014
Il coordinamento ambiente di Anagni ha incontrato il nuovo sindaco
Coordinamento per l’Ambiente
di Anagni
Associazione “Anagni Viva”,
Associazione Diritto alla Salute DAS, Associazione Terra
Dolce, Comitati di quartiere Ponte del Papa, Osteria della Fontana, Vox
Populi, S, Bartolomeo
Mercoledì
18 giugno una delegazione del Coordinamento Ambiente di Anagni ha incontrato
ufficialmente il neo Sindaco di Anagni, dott. Fausto Bassetta.
La
delegazione,costituita da Alessandro Compagno per la Das , Piero Ammanniti per il
Comitato salviamo l’Ospedale di Anagni, Anna Natalia, Rita Ambrosino, Luciano
Marinelli per Anagni Viva, Vincenzo La Pastina , per il Comitato San Bartolomeo e
Pasquale Maiorano, per Terra Dolce, ha esposto in sintesi gli sviluppi che la
situazione ambientale del territorio di Anagni e dell' intera Valle del Sacco
ha avuto nel corso degli anni, per giungere alla condizione attuale che
presenta, purtroppo rafforzate, tutte le tipologie di inquinamento dell'aria,
dell' acqua e della terra che, per accumulo nel tempo, hanno raggiunto livelli
non più tollerabili, le cui conseguenze non colpiscono soltanto il territorio
ma le condizioni di vita e di salute, sempre più compromesse, di tutti i
cittadini.
Al
Sindaco è stato chiesto di impegnare l' Amministrazione in un progetto organico
che preveda controlli sistematici del rispetto delle leggi per gli impianti
presenti nel territorio e le sanzioni per i responsabili delle violazioni, per
non dover più agire per rispondere soltanto alle emergenze.
È
stato sottolineata da tutti i presenti la necessità di delineare una posizione
di fermezza dell' Amministrazione di Anagni e delle Amministrazioni dei Comuni
limitrofi in sede di Conferenza dei Servizi, per respingere decisioni di
apertura di discariche e installazioni di inceneritori in un territorio che non
è più disposto a subire ulteriori devastazioni.
A tale proposito, il Coordinamento ha espresso al
sindaco la necessità di intervenire con una ferma opposizione al progetto
di realizzazione di un impianto per il trattamento di RSU che si sta
tentando di realizzare in località Casarene.
Inoltre
diventa indispensabile l'avvio di seri ed efficaci progetti di bonifica e
risanamento, quanto la richiesta di risarcimento per i danni inferti a questa
valle e ai suoi cittadini.
Il
Sindaco ha preannunciato il
rafforzamento della polizia ambientale, il possibile impegno per tirocinio
sull' ambiente di laureati e laureandi, potendo usufruire di finanziamenti
regionali, e la contrarietà all' impianto di Casarene.
Saranno avviate misure
sistematiche di controllo con la costituzione di una Commissione Ambiente
Permanente.
Il Coordinamento ha molto apprezzato l' attenzione
dimostrata dal Sindaco per le sollecitazioni avanzate e per l' impegno a
collaborare con il gruppo di associazioni e comitati e, a sua volta, esprime
fiducia nell' avvio di un nuovo corso per affrontare efficacemente la grave
questione ambientale.
I nuovi sfascisti
Luciano Granieri
Il tempo è galantuomo. E’ vero, anche se tale la galanteria,
spesso, si rivela inutile quanto beffarda.
Mi riferisco alla campagna elettorale cui ho partecipato nelle fila di
Rifondazione Comunista per le elezioni comunali del 2012. Competizione
disastrosa anche in termini di deterioramento di rapporti umani, ma molto utile
per capire certe dinamiche.
Il tempo è galantuomo perché in quella campagna
elettorale eravamo gli unici, noi del circolo Carlo Giuliani di Rifondazione di
Frosinone , a sostenere, e quindi a voler inserire nel programma, la necessità di
contravvenire al patto di stabilità per i Comuni . Venimmo bollati come
terroristi dai componenti delle altre liste (Sel e una civica denominata
Frosinone Bene Comune) che con noi appoggiavano il candidato sindaco Marina Kovari. Il patto di stabilità era una
iattura ma non rispettarlo era un atto scellerato di disobbedienza civile ci
dissero .
Oggi a distanza di due anni, il patto di stabilità è il pericolo pubblico
numero uno . Perfino Matteo Renzi,
evidentemente non un terrorista, tuona contro questa odiosa prescrizione
divenuto bersaglio anche dei sindaci più moderati .
Ma il tempo ci onora dell’elogio di
galantuomini anche per altre cosucce accadute prima e durante quella campagna
elettorale. Proprio il tempo ci
riabilita dalle accuse di sfascismo ricevute dalla segreteria
provinciale del nostro ex partito, la quale aveva identificato nella nostra
condotta politica, orientata a fuggire
dall’abbraccio mortale con il Pd e altri pezzi
riformisti in libera uscita nei comuni della Provincia chiamati al voto,
la causa dello scioglimento del Circolo Carlo Giuliani di Frosinone.
Sfascisti
era anche l’accusa che ci venne dal
circolo di Rifondazione di Ceccano impegnato anch’esso nella campagna
elettorale per le comunali. Nella tappa
di avvicinamento alle elezioni i compagni di Ceccano prima schifarono sia la Maliziola, accusata di essere una borghese
riformista al servizio di Schietroma, sia
il candidato trito e ritrito del Pd Maurizio Cerroni. Poi in nome del “laboratorio
della buona politica” si turarono il naso e scelsero la Maliziola, per
assicurare comunque al loro esponente Umberto Terenzi lo scranno a vita in consiglio comunale .
La scelta portò il laboratorio della buona
politica alla vittoria con l’elezione a sindaco di Manuela Maliziola . Ma
subito i rifondaroli ceccanesi dovettero
abbozzare l’entrata in giunta dell’ex
forzitaliota indigesto Angelino Stella. Morale della favola. Il Circolo della Buona
politica, ha governato con la Maliziola contro il Pd, poi ha governato con la
Malziola e il Pd infine ha
sfasciato tutto, firmando insieme alle
odiate forze amiche nemiche Psi-Sel-Pd e
qualcuno di Fratelli d’Italia, le dimissioni in massa sancendo la fine prematura della
giunta Maliziola .
La ripicca per non aver ottenuto le poltrone richieste è
arrivata ad un punto tale da autocertificare
il proprio fallimento, buttare a mare il voto dei cittadini ed affidare la
città con la sua marea di maleodoranti problemi ad un commissario. Come esempio di sfascismo non è male! Noi
venimmo accusati di aver sfasciato il
circolo di Frosinone, ma questi, Dio li benedica, hanno sfasciato un intero
consiglio comunale dove pure sedevano in maggioranza, e si sono rottamati da
soli, perché non so quanto questa faccenda sia stata apprezzata dai cittadini
di Ceccano e quanto questi siano disposti a rivotarli. Il bue che dice cornuto all’asino.
E veniamo a
coloro che ci accusavano di aver voluto sfasciare una coalizione, quando alla
vigilia del ballottaggio, fra Ottaviani e Marini, coerentemente decidemmo al
contrario delle liste che con noi sostenevano Marina Kovari, di non appoggiare
nessuno dei candidati. Sel, Frosinone
bene Comune e anche la segreteria del nostro stesso partito ci accusarono di
sfascismo per la scelta di non schierarci a fianco di Michele Marini, candidato
Pd ai ballottaggi.
L’allora segretario provinciale di Sel, Nazareno Pilozzi,
oggi deputato, sosteneva che Marini era
più di sinistra di Ottaviani, dimenticando che lo stesso esponente del Pd era
sostenuto da ciarpame fascistoide raccolto in diverse liste. Fu lo stesso Pilozzi ad accusarci di sfascismo.
Ma anche in questo caso l’allievo ha superato il maestro. Noi avremo anche
sfasciato la coalizione, ma il buon Pilozzi pare sia in prima linea per guidare il bulldozer che
asfalterà Sel dopo la diaspora dei “Miglioristi”. Colui che ci accusava di
sfascismo è pronto a passare, armi e bagagli, magari dopo una piccola sosta in
qualche gruppo misto, alla corte di Renzi, rendendosi corresponsabile dello
sfascio, non di un circolo cittadino di Sel, ma dell’intero partito. E’ proprio
vero chi di sfascismo ferisce, di sfascismo perisce. Noi avremo sfasciato un
circolo cittadino di Rifondazione, ma abbiamo lasciato integra la nostra digitò
politica. Lo sfascismo di altri è stato molto più devastante.
Di seguito l'intervento, quanto mai profetico, nella nostra campagna elettorale dell'allora presidente della FIOM Giorgio Cremaschi.
Brasile: una storia di occupazioni e di evacuazioni
Vik Birkbeck video a cura di Luciano Granieri
Sono trascorsi cinque anni da quando il Brasile ha festeggiato la sua nomina da parte della FIFA a ospitare la Coppa del Mondo attualmente in corso. L’annuncio fu fatto in grande stile sulla spiaggia di Copacabana, zeppa di migliaia di persone a saltare, ballare e in molti casi a festeggiare tutta la notte in quello che molti considerano il puro stile brasiliano. La FIFA aveva chiaramente ritenuto che quella fosse la scelta sicura nella sua marcia graduale attorno al mondo per portare nella propria orbita nazioni e continenti recalcitranti. Il Brasile, dopotutto, è il prototipo di nazione matta per il calcio, in cui l’intero paese si blocca per vedere in azione la propria squadra. Dunque chi mai avrebbe potuto immaginare che quattro anni dopo milioni di persone avrebbero marciato nelle strade non solo di Rio e Sao Paulo, ma anche di Brasilia, Belo Horizonte, Recife, Salvador, Gioiania, urlando Nao Vai ter Copa! (Non ci sarà una Coppa del Mondo!)?
L’impulso originale per le massicce dimostrazioni del 2013 è stato un aumento nazionale delle tariffe degli autobus, ma con l’imminente Coppa delle Confederazioni, la prova generale della FIFA per la Coppa del Mondo, l’attenzione del pubblico si è rapidamente concentrata sulle vaste somme investite in stadi e in infrastrutture per il torneo. Lo ‘standard FIFA’ dei nuovi stadi era confrontato con i ricorrenti problemi dei trasporti pubblici, della sanità e dell’istruzione. L’esagerazione di essere stato scelto anche per ospitare i giochi olimpici del 2016 ha generato un piano di ristrutturazione e sviluppo di un’ambizione sfrenata a Rio de Janeiro.
Il 5 dicembre 2009 il piano strategico dell’amministrazione cittadina annunciato dal sindaco Eduardo Paes ha presentato come uno dei propri obiettivi centrali la riduzione del 3,5% dell’area complessiva occupata da favelas [baraccopoli], ufficialmente perché localizzata “in aree a rischio di frane e inondazioni, aree tutelate come riserve o aree di pubblica utilità”. Ma, come diceva uno striscione portato da una vittima da un dimostrante vittima di questa politica di sfratti: “Quando i ricchi vivono nella zona meridionale quella è definita un’area nobile, quando vi vivono i poveri la chiamano area a rischio”.
Persino l’amato stadio Maracanà, un’icona internazionale dell’identità di Rio, ha dovuto essere ricostruito interamente in linea con le direttive della FIFA. Nel processo il geral – il settore dei posti in piedi a basso prezzo occupato dai più ardenti tifosi di calcio di Rio – è stato abolito, escludendo efficacemente la parte più povera della popolazione dall’assistere alle partite. Assistere al calcio dal vivo è oggi privilegio dei “bianchi”, gli spettatori della classe media e superiore in grado di pagare di più per il diritto di assistere seduti alle partite. Nel processo di ricostruzione del Maracanà gli sviluppatori si sono imbattuti in un piano perfetto per guadagnare più soldi abbattendo la zona circostante e facendo spazio a un enorme parcheggio e centro commerciale.
I dintorni dello stadio distrutti hanno incluso la Scuola Friedenreich, una delle migliori scuole comunali di Rio (in un paese che è al settantottesimo posto per qualità dell’istruzione); Lanagro, il solo laboratorio di Rio per l’analisi degli alimenti (mentre il Brasile ha il consumo di pesticidi più elevato del mondo e tutto il frumento e la soia è geneticamente modificato); il complesso di atletica di livello olimpico Celio de Barros e il complesso per sport acquatici Julio de Lamare (entrambi ricostruiti con grandi spese per i Giochi Pan-Americani del 2007 e utilizzati per l’allenamento degli atleti olimpici di Rio); Metro Mangueira, una comunità povera costruita 34 anni fa dai lavoratori edili della metropolitana di Rio, da cui il nome; e infine Aldeia Maracanà, una comunità indigena multietnica creata nel 2006 intorno all’edificio abbandonato del diciannovesimo secolo a lungo associato alla cultura indigena e che ha ospitato per più di vent’anni il museo indio.
Metro Mangueira è emblematico dei molti espropri attuati o programmati alla vigilia della Coppa del Mondo e delle Olimpiadi. Era una comunità ordinata, unita e, sebbene povere, le case erano costruite solidamente dagli operai dell’edilizia. Nell’ottobre del 2010 dipendenti del Consiglio Comunale hanno cominciato ad attaccare gli abitanti, contrassegnando le loro case con croci e numeri, evocativi delle pratiche naziste nei ghetti ebrei. Le 107 famiglie che hanno accettato sono state trasferite a Cosmos, a circa 45 miglia di distanza, causando enormi difficoltà a quelli che avevano lavoro o frequentavano scuole nei pressi. Hanno fatto poi il loro ingresso i trattori del Consiglio Comunale che hanno demolito le case appena abbandonate, lasciando grandi spazi vuoti e mucchi di mattoni a pezzi, aprendo la comunità ai trafficanti di droga, agli sfruttatori della prostituzione e a un flagello di ratti e zanzare.
In conseguenza la spiegazione ufficiale utilizzata per giustificare gli sfratti è divenuta una profezia auto-avverata. Con le famiglie e i singoli che occupavano le rovine e le macerie delle case demolite, l’area è stata presto trasformata in una zona a rischio. Alla fine, all’inizio del 2014, con in vista la Coppa del Mondo, le macchine da demolizione sono tornate nella comunità. Invece di offrire una scelta reale a quelli che stavano per essere espropriati, il consiglio comunale ha proposto di registrarli nel programma federale Minha Casa, Minha Vida(Casa mia, vita mia), che sovvenziona famiglie a basso reddito per l’acquisto della casa. Sebbene federale, questo programma è amministrato dai consigli comunali di ciascuno stato. Non ci sono state nuove costruzioni di case popolari nell’area centrale di Rio, dunque la registrazione è soltanto un pezzo di carta. L’opposizione popolare alla demolizione di Metro Mangueira è durata diversi giorni e ha portato a un attacco di un vasto contingente della polizia militare con spray al peperoncino, candelotti lacrimogeni e pallottole di gomma contro giovani e vecchi.
Prima dell’avvento di Google Maps, le mappe di Rio de Janeiro riportavano le aree più vecchie e tradizionali della città e le espansioni più nuove verso Barra e Recreio, mentre il resto dell’area era apparentemente uno spazio disabitato. Google Maps ha sferrato un duro colpo a questa immagine bucolica della Cidade Maravilhosa, rivelando che tutto lo spazio disponibile nell’area urbana – colline, valli, terreni irregolari – era occupato da favelas. La reazione di gran parte delle élite è stata una sensazione di tradimento, ma è impossibile spazzare sotto il tappeto quelle immagini satellitari. Improvvisamente tutti sono stati costretti ad ammettere l’esistenza delle favelas.
Dopo le misure draconiane d’austerità e le riforme strutturali imposte dal FMI durante la crisi debitoria degli anni ’80, le favelas si erano diffuse rapidamente con il numero sempre maggiore di persone che erano spinte nelle città dall’espansione dell’agricoltura industriale. Nelle loro nuove sistemazioni urbane gli abitanti indugiavano in una specie di limbo, in quanto forza lavoro ausiliaria a salari insufficienti ad alimentare adeguatamente le proprie famiglie, per non parlare di pagare l’affitto. Segni dell’acuta crisi abitativa a Rio sono riflessi dal numero di persone – anche intere famiglie – che dormono per strada nel centro cittadino, mentre spuntano in continuazione nuove favelas in ogni spazio disponibile.
Così, quando agli inizi dell’aprile del 2014 alcuni dei leader del Movimento dei Lavoratori Senzatetto hanno identificato un grande edificio e il terreno circostante e dipendenze che appartenevano all’ex compagnia telefonica Telerj e che erano stati abbandonati da quasi vent’anni, si sono rapidamente decisi a occupare l’area. Migliaia di famiglie hanno investito le loro minime risorse nell’acquisto di assi per costruire baracche nell’area che, nel giro di una settimana, è stata occupata da diecimila persone. Anche se gli occupanti dell’edificio Telerj comprendevano donne incinta, anziani e migliaia di bambini, da neonati ad adolescenti, non è stato fatto alcun tentativo di identificare gli occupanti o di indagarne le necessità.
TV Globo, la maggiore rete televisiva brasiliana, è stata rapida nel denunciare gli “invasori” come delinquenti, sorvolando l’area per riprese dall’alto dell’”invasione”. La compagnia telefonica che ha rilevato la Telerj – Oi – non aveva mai occupato l’edificio che stava per essere venduto all’amministrazione cittadina e che era destinato al programma “Casa mia, vita mia”. Tuttavia, con l’impasse dell’occupazione, i “proprietari” sono immediatamente riapparsi ed è stata avviata una causa a tappe accelerate per la reintegrazione nella proprietà. Mercoledì 9 aprile il sindaco Eduardo Paes ha annunciato che l’occupazione era stata realizzata da professionisti organizzati, sottintendendo un’intenzione criminale, e ha dichiarato che l’area doveva essere “dis-occupata” e restituita ai suoi proprietari. Il sindaco si è spinto sino ad affermare che “i poveri veri che hanno bisogno di una casa non riempiono i loro lotti di assi e materiali da costruzione.”
Dunque quale è stata la soluzione per tutta questa “attività criminale”? All’alba dell’11 aprile, 11,600 poliziotti militari armati hanno invaso l’area. Donne che dormivano sono state svegliate a calci, baracche sono state abbattute, tutti sono stati innaffiati di spray chimici, non provenienti dalle solite bombolette da grossi cilindri delle dimensioni di estintori che i poliziotti trasportavano in zaini. Tutti i rappresentanti della stampa, convenzionale o indipendente, sono stati espulsi dall’area e persino uno dei giornalisti della Globo è stato arrestato in base all’accusa pretestuosa che stava “tirando sassi”. Gli occupanti affermano che quattro neonati sono deceduti a causa degli spray chimici e sono circolate voci che dei motivi dell’allontanamento dei giornalisti è stato evitare che fossero testimoni delle vittime.
Lo stesso numero delle persone coinvolte, il fatto che nessuno ha avuto il tempo di creare un vero registro degli occupanti dell’edificio e il pandemonio seguito rendono impossibile confermare i fatti. Ciò nonostante le fotografie e i video di giornalisti indipendenti sulla scena testimoniano il terrore della “dis-occupazione”. Testimonianze di molti dei coinvolti rivelano che si tratta di persone che erano già state cacciate da altre aree in demolizioni e allontanamenti recenti, mentre altre sono vittime dell’aumento dei prezzi generato dalla militarizzazione delle favelas.
L’occupazione e la successiva evacuazione dell’edificio Telerj, proprio come la distruzione della comunità Metro Mangueira, è esemplare del totale disprezzo del diritto all’alloggio dei più poveri del Brasile. Da un lato interi quartieri sono demoliti per fare spazio a parcheggi e centri commerciali, dall’altro molte favelas sono state occupate da forze di polizia militarizzate (UPP). Questo significa che comunità prive di qualsiasi forma di servizio pubblico sono fondamentalmente poste sotto un coprifuoco costante, che va sotto il dubbio nome di “pubblica sicurezza” e che ogni forma di protesta è trattata come una rivolta delinquenziale.
Lo spirito contagioso delle proteste di massa che hanno scosso il Brasile l’anno scorso ha trovato suolo fertile anche nelle favelas, dove la morte di ogni giovane ucciso dalla polizia è un’altra chiamata alla lotta per la resistenza popolare. Come dimostra l’attuale onda di proteste contro la Coppa del Mondo, il genio è fuori dalla lampada e ci vorrà molto più che evacuazioni violente e repressione poliziesca per mettere a tacere la moltitudine risvegliata e indignata.
Frosinone: un forum per la rinascita della sinistra
Oreste Della Posta segretario provinciale dei Comunisti Italiani
E’ chiaro a tutti che occorre un riposizionamento della
sinistra in Italia e in particolar modo nella provincia di Frosinone. I
risultati provinciali delle elezioni europee, che hanno visto l’avanzamento del
PD e la buona tenuta di Forza Italia, hanno dimostrato come nella nostra
provincia resistano logiche clientelari dure a morire. Una svolta in questo
senso può arrivare soltanto dalla riorganizzazione di quelle forze a sinistra
del PD, le quali, durante la campagna per le europee, si sono battute contro le
politiche dell’austerity, causa principale del collasso sociale in cui versa la
nostra provincia. L’urgenza di questo riassetto politico è sottolineato anche
dal risultato del congresso della CGIL a Rimini, che ha evidenziato come la
sinistra sindacale non riesca a trovare un accordo per rilanciarsi in un
momento delicato nel quale invece si avverte la forte necessità di una sinistra
di classe. Solo una sinistra unita e con le idee chiare, e che sappia mettere
al centro il tema del lavoro, può rappresentare una speranza per il paese e per
la provincia di Frosinone in primo luogo. Una sinistra che sia in grado di
superare personalismi ed individualismi che l’hanno portata verso un declino
che si è poi tradotto nel declino sociale ed economico dell’intero paese, in
quanto il risultato delle decennali politiche neoliberiste europee e nazionali
è adesso sotto gli occhi di tutti. La provincia di Frosinone in particolar modo
negli ultimi 20 anni è stata il teatro di una deindustrializzazione costante
che ha prodotto la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. A
questo bisogna aggiungere che le nostre terre sono state a lungo oggetto di
condotte criminali in termini di inquinamento, le cui conseguenze gravano
quotidianamente sulla salute dei cittadini. Questa piaga va poi a ricollegarsi
in maniera sinistra alla profonda crisi in cui versa il nostro sistema
sanitario. Questo elenco, che potrebbe proseguire impietoso, ci deve convincere
una volta di più circa la necessità di una svolta. Noi Comunisti Italiani
lanciamo la proposta di aprire un forum provinciale a settembre aperto a tutti
ed in particolare a tutte quelle forze ed organizzazioni che intendono opporsi
alle politiche della Unione Europea, che sono condivise e sostenute dal nostro
governo e che non tengono conto delle tematiche del lavoro ma danneggiano
invece il futuro dei nostri giovani. Per fare questo ci stiamo già impegnando
ad organizzare una riunione preliminare da tenersi nel mese di luglio. Occorre un punto di vista diverso dal regime unico
dell’informazione a cui siamo sottoposti e quindi da questa politica che
conduce soltanto, come ha scritto recentemente in un articolo il
costituzionalista Stefano Rodotà, ad una democrazia autoritaria.
giovedì 19 giugno 2014
Le terme romane in curva
Luciano Granieri
Nel sottosuolo di Frosinone esistono testimonianze
archeologiche estese per oltre 2.000 mq. Vestigia
di civiltà stratificate in ere
che vanno dal XII secolo avanti cristo, fino all’età imperiale romana .
Villaggi di capanne volsche su cui i romani hanno sovrapposto la loro magnificenza imperiale attraverso l’imponenza
di sontuosi impianti termali. Nelle viscere di mezza Frosinone bassa esistono dunque importanti testimonianze di brulicanti civiltà.
E’ dal 1997 che ogni tanto
da un buco fatto, oggi qua, domani là, nel complesso mare di particelle urbanistiche
private e pubbliche, queste millenarie
tracce tornano a veder le stelle . Una sciagura peggio della peste bubbonica per
le mire espansionistiche dei grandi edificatori della città e dei politicanti a loro asserviti.
Fortunatamente negli ultimi
anni piani particolareggiati
regionali, pareri delle varie sovraintendenze
, relazioni di insigni archeologi, ma soprattutto l’immane impegno dell’associazionismo frusinate,
hanno impedito la definitiva chiusura
nell’oblio del sottosuolo di questi tesori. Grazie alla strenua ed impari
battaglia di movimenti, associazioni e cittadini, nei confronti delle lobby fondiarie locali, nel
settembre del 2011 il comune di Frosinone approva ben DUE MOZIONI che
impediscono alle mire della speculazione edilizia di allungare le mani sui siti
archeologici.
In particolare, nella PRIMA PROPOSTA, presentata in prima battuta
il 7 giugno dall’allora consigliere di maggioranza
di Rifondazione Comunista Francesco Smania, e la cui votazione fallì per mancanza del numero legale, si impegnava
il comune a non concedere autorizzazione a costruire in aeree private, in
questo caso ci si riferiva al progetto
denominato “Portici”, limitrofe al sito comunale dove erano stati
rinvenuti reperti di interesse archeologico,
fino a che l’ente non avesse
ultimato scavi , finanziati in parte dalla Regione e con l’ausilio della
sovraintendenza ai beni archeologici, necessari a determinare la reale
rilevanza e ampiezza dell’intero sito archeologico.
Nella SECONDA MOZIONE ,
presentata dalla consulta delle associazioni, con la firma in calce di 750
cittadini, si stabiliva che il sindaco e la giunta avrebbero dovuto impegnarsi
nell’ avviare
tutte le iniziative necessarie alla
salvaguardia, alla tutela e alla valorizzazione dell’intera area archeologica,
vista anche la disponibilità dell’Assessorato alla Cultura dell’Amministrazione
Provinciale, e al recupero
dei vari beni archeologici rinvenuti nel corso
degli anni su tutto il territorio comunale , reperti di indubbio valore archeologico e
storico.
Gli strali del costruttore
titolare della lottizzazione contro gli intrepidi cittadini che avevano osato
profanare il suo sacrosanto diritto a spargere cemento, non si fecero
attendere. Sul giornale di famiglia il grande muratore fece fuoco e fiamme,
minacciando di lasciare la città, se questa fosse ancora rimasta in mano a
quattro banditi ecologisti.
Fu una vittoria, ma come ci insegna la storia ogni
diritto conquistato non è per sempre se non lo si difende con costante impegno. Al soglio di P.zza VI dicembre, nel
frattempo indebitatosi fino al collo anche per i mancati versamenti
degli oneri di urbanizzazione da parte dei marchesi di cazzuola uccellati dai
cittadini, sale il miglior amico della
classe dei grandi costruttori. Quel Nicola Ottaviani la cui campagna elettorale
fu sostenuta in cambio dello sblocco di milioni e milioni di metri cubi di
cemento.
Ed ecco puntuale il letale
contrattacco. Attraverso un atto legislativo la Regione Lazio, ente competente
nell’attribuzione delle autorizzazioni paesaggistiche, nella concessione cioè
di permessi ad edificare su aree di particolare interesse, trasferisce a quei comuni che hanno insediata una commissione paesaggistica,
la subdelega per deliberare in materia.
Disgraziatamente il comune di Frosinone dispone di questa commissione
che immediatamente, nel dicembre 2013, dichiara l’area dei “Portici” edificabile
incurante del danno che una tale decisione potrà arrecare ai reperti
sottostanti.
Il tutto rendendo carta straccia le delibere approvate nella precedente consiliatura e senza passaggi consultivi in consiglio comunale. Anni di lotte spazzati via in un baleno. La
reazione delle associazioni non si fa attendere. Si decide di impugnare la decisione del nuovo sindaco
ricorrendo al TAR, contro un provvedimento adottato nel disprezzo assoluto
delle delibere precedenti. Inoltre si interessano consiglieri comunali, oggi d’opposizione,
Raffa, Martini e Calicchia affinchè si
adoperino al risanamento dello strappo attraverso azioni specifiche, come un’interrogazione scritta da sottoporre
al consiglio comunale, la convocazione
di un consiglio straordinario , o addirittura
la presentazione di un esposto alla Procura della Repubblica.
Incassato
anche l’impegno a livello parlamentare della senatrice Pd Spilabotte disponibile a presentare un’interrogazione al
ministro Franceschini che possa
raccogliere altre firme di deputati e
senatori. Anche Nazerno Pilozzi deputato
di Sel ha concesso la sua disponibilità,
mentre l’onorevole Frusone del M5S ha già presentato una sua
interrogazione. Un interesse istituzionale
di indubbio spessore, ma che si faccia attenzione.
Perché non molti se ne sono accorti, ma la
questione delle terme romane, rischia di intrecciarsi con quella del nuovo
stadio Casaleno. In una intervista
rilasciata nei giorni scorsi al
quotidiano “il messaggero” l’assessore ai lavori Pubblici Tagliaferri spiegava
come il comune di Frosinone ha intenzione di finanziare la ristrutturazione
dell’impianto del Casaleno.
Tre milioni
di euro derivano da un vecchio prestito
trentennale di 16 milioni e rotti contratto con la Cassa depositi e prestiti,
un altro milione e mezzo dovrebbe arrivare dagli incassi degli oneri concessori.
Guarda caso 800 mila euro sono già belli e pronti in cambio della concessione a costruire sulle terme
romane.
Conoscendo le furbesche
attitudini dell’attuale sindaco, questi non ci metterà molto a sostenere che chi vuole impedire il progetto dei “Portici” blocca di fatto anche
il finanziamento del nuovo stadio. Se in
futuro i tifosi frusinati si dovranno privare del privilegio di vedere nella
propria squadra un Balotelli o un Insigne, sarà colpa di quei disgraziati che
hanno impedito la costruzione dei palazzi dei "Portici”. Una tale argomentazione
rischia inoltre di condizionare un eventuale campagna elettorale aperta da una possibile caduta della giunta
Ottaviani. Quale candidato sindaco avrà il coraggio di sacrificare il sacro
fuoco della passione calcistica alla tutela di quattro cocci messi in croce?
mercoledì 18 giugno 2014
IL comitato L.I.P. si presenta alle associazioni di Frosinone
Luciano Granieri . Osservatorio Peppino Impastato
Si è svolta ieri 18 giugno presso
la casa del volontariato di Frosinone la presentazione alle associazioni, ai
movimenti, ai cittadini e alle istituzioni del Capoluogo, del Comitato Legge di’Iniziativa
Popolare (L.I.P.) per la Valle del
Sacco.
Il Comitato L.I.P si è costituito come organismo
associativo il 29 marzo del 2014 con la finalità di svolgere tutte le attività
ed iniziative necessarie a presentare e promuovere la proposta di LEGGE REGIONALE di iniziativa popolare denominata: “Proposta di Legge Regionale di Iniziativa Popolare per il
risanamento, la bonifica, la tutela e la valorizzazione ambientale, il rilancio
economico e sociale della Valle del Sacco”, è scopo del comitato, inoltre, seguire
e conseguire la presentazione della proposta
di legge secondo il percorso istituzionale previsto dalla Legge Regionale del
Lazio n.63/1980 e dagli art.li 37 e 60 dello Statuto della Regione Lazio, e
dalle altre norme e regolamenti vigenti.
E’ obbiettivo primario, altresì, svolgere tutte le attività di carattere sociale,
culturale, e di partecipazione dei cittadini, volte a promuovere, sostenere,
raccogliere contribuiti ed adesioni, in relazione a questa proposta. Nell’ottica di acquisire
contributi programmatici, suggerimenti e
condivisione da parte di tutti gli attori della comunità, il comitato L.I.P ha
svolto diversi incontri di presentazione in molto centri della provincia
coinvolgendo associazioni e movimenti , fra cui il forum regionale dell’acqua
pubblica e l’Osservatorio Peppino Impastato.
L’evento di presentazione di ieri è stato per l’appunto organizzato da noi dell’Osservatorio Peppino Impastato. L’adesione
della nostra associazione al comitato L.I.P.
rispecchia pienamente le finalità dell’Osservatorio orientate alla promozione
della cultura della legalità, attraverso la partecipazione dei cittadini e alla
pratica di forme sempre più estese di
controllo e collaborazione al processo decisionale che attiene al territorio. Legalità
non significa soltanto rispettare la legge, per noi dell’Osservatorio ha
implicazioni molto più ampie che investono in pieno la sfera sociale.
E’
illegale rendere il territorio poco vivibile, è illegale esporre i
cittadini al rischio di contrarre
malattie, o offrire loro sempre meno opportunità di promozione sociale e
miglioramento della propria condizione
economica. E’ illegale, in nome dell’accumulazione di ricchezze da parte di
pochi , consumare terra aria acqua e
sottrarle alla disponibilità della collettività. Tutto ciò è accaduto e ha coinvolto pesantemente
i cittadini della Valle del Sacco, i quali hanno subito sulla propria pelle più
di cinquant’anni di saccheggio delle risorse vitali in un nome di uno sviluppo
economico devastante per la cittadinanza.
Il comitato L.I.P. Legge d’Iniziativa
Popolare per la Valle del Sacco, costituisce un elemento decisivo
per il ripristino di queste forme di legalità in favore del territorio e dei
cittadini che lo abitano. Si tratta di un progetto integrato di tutela che passa, certamente
dalla bonifica e dal contrasto alla riproposizione di altre fonti inquinanti,
ma prosegue promuovendo forme di riqualificazione e sviluppo economico nel
rispetto delle qualità e delle peculiarità del territorio. Ma soprattutto, la
forma di legge di iniziativa popolare,
che vede la partecipazione dei cittadini alla redazione stessa della norma,
e la raccolta di firme che la propone in
discussione all’assise regionale in virtù del consenso popolare, soddisfa il
principio di partecipazione e controllo da parte dei cittadini alla fase
legislativa. Un elemento fondamentale per l’Osservatorio Peppino Impastato.
L’incontro, i cui relatori sono stati: Luciano Granieri e
Mario Catania, esponenti dell’Osservatorio Peppino Impastato,
associazione già attiva nel Comitato L.I.P., Lorenzo Santovincenzo e il professor
Alberto Bonanni della L.I.P. stessa, ha registrato una numerosa, qualificata ed
interessata partecipazione di associazioni, stampa e cittadini. Molte sono
state le adesioni con richieste di contribuire al progetto. Una buona notizia considerato il
panorama di stallo sociale che spesso attanaglia la nostra città. Ciò anche a
dimostrazione del fatto che quando le idee sono buone e comprensibili, anche le
acque più ristagnanti e paludose possono incresparsi e animarsi di nuove onde.
Brasile, Mondiali Continuano le lotte
Matteo Bavassano
I media italiani, che hanno dovuto dare necessariamente conto degli scioperi e delle manifestazioni di questi giorni in Brasile, hanno approfittato dell’interesse suscitato dalle partite e da altri fatti di cronaca locale per nascondere completamente il proseguimento delle lotte in Brasile, dove gli operai continuano a scioperare e dove si cerca di unificare queste lotte nella protesta contro i grandi profitti che le multinazionali si assicurano tramite la Coppa del Mondo.
Dopo le proteste a San Paolo e Rio de Janeiro del 12 giugno, con manifestazioni minori in altre città, le mobilitazioni sono proseguite seguendo il calendario del Mondiale, per esempio il 14 a Belo Horizonte, il 15 a Natal e a Brasilia, mentre sul fronte operaio gande importanza ha la campagna, che sta ricevendo una forte solidarietà anche internazionale (vedi il presidio sotto il consolato brasiliano a Milano), per il reintegro dei lavoratori della metro licenziati a causa dello sciopero. Altre categorie intensificano le loro lotte: a Natal continua lo sciopero prolungato degli autisti degli autobus, che ha creato disagi per la partita Ghana-Stati Uniti; i medici dell’ospedale universitario di San Paolo si sono uniti allo sciopero degli insegnanti che durava già da ventun giorni, insegnanti che sono in sciopero anche a Rio.
Dato che in Brasile non si possono nascondere queste proteste, il governo e la stampa borghese attaccano i manifestanti pacifici e i lavoratori in sciopero accomunandoli ai "black bloc" e denunciando che sarebbero eterodiretti, secondo il Ministro del lavoro, da “interessi elettorali” in vista delle presidenziali di ottobre, chiaro riferimento al ruolo che sta avendo il Pstu, sezione brasiliana della Lit-Quarta Internazionale, nelle mobilitazioni e negli scioperi, anche attraverso l’azione della Csp-Conlutas.
Ad esempio, il giornale Istoé, in un articolo intitolato "La forza occulta del Pstu", si lamenta del fatto che un "piccolo partito senza rappresentanza parlamentare" possa paralizzare le città più importanti del Brasile, attaccando contestualmente il nostro partito fratello per il suo programma rivoluzionario. A questo giornale borghese (e a tutti quelli che ci criticano) rispondiamo che è proprio questo il senso della costruzione di un partito d’avanguardia con influenza di massa, obiettivo che la Lega internazionale dei lavoratori – Quarta Internazionale si propone per tutti i Paesi del mondo: un partito che possa guidare le lotte dei lavoratori verso la costruzione di una società socialista. Lo scorso 14 giugno un seminario nazionale del Pstu ha confermato la candidatura di Zé Maria, presidente del partito e della Conlutas, alle presidenziali del prossimo ottobre. Una candidatura che ha come unico scopo quello di usare anche le elezioni borghesi per propagandare un programma politico che possa unificare le lotte operaie e le mobilitazioni popolari e rafforzare così il movimento di opposizione al governo di fronte popolare guidato dal Pt di Dilma-Lula. Movimento di lotta che è esploso con le giornate di giugno del 2013 e che continua a crescere nelle lotte di questi giorni mettendo in imbarazzo non solo il governo borghese ma anche tutta la sinistra riformista mondiale (inclusa ovviamente quella italiana) che per anni ha indicato nel Brasile un modello di collaborazione tra le classi.