Che l'attacco sferrato dal governo Renzi, non legittimato a riformare alcunché in quanto non eletto dal popolo, e forte, dunque, solo della stucchevole propaganda imbastita dai media asserviti, non generi solo un'opposizione estemporanea a carattere emergenziale, ma un fronte unitario e permanentemente vigile contro un chiaro e ignobile progetto di neutralizzazione del libero pensiero e dei Beni Comuni: questa l'istanza che, pur nella diversità delle prospettive e delle enunciazioni, è prepotentemente emersa a Napoli, nel corso dell'affollata assemblea dei docenti e dei lavoratori della Scuola in lotta convocata dal Coordinamento per la difesa della Scuola pubblica e dal Coordinamento Precari Scuola Napoli e svoltasi il, 10 luglio 2014, presso la sede dell'Associazione "Napoli Scuole Zona Franca". Dopo una breve introduzione e il saluto a coloro che partecipavano per la prima volta a un raduno dei Coordinamenti, sono stati illustrati gli esiti dell'incontro al MIUR del 17 giugno scorso, che ha visto il CPS Napoli presente in delegazione, per chiedere anche di consegnare una petizione contro il famigerato decreto 356 del 23 maggio scorso. In quell'occasione, infatti, i delegati hanno avuto modo di confrontarsi con Marco Campione, deputato Pd e Capo di Gabinetto del sottosegretario Reggi, le cui esternazioni recenti hanno generato vivissimo e giustificatissimo allarme nel mondo della Scuola, dal momento che prevedono, bypassando la contrattazione, un aumento inverosimile dell'orario di lavoro fino a 36 ore, la soppressione dei precari iscritti nelle GI e, tendenzialmente, anche di quelli nelle Gae, l'attribuzione di poteri eccezionali ai dirigenti, che potranno elargire ai docenti "preferiti" bonus di varia entità sulla base dell'Invalsi e del grado di consentaneità degli insegnanti alle loro direttive e, infine, la riduzione di un anno del ciclo di studi superiori, con prevedibili tagli per altre 40.000 cattedre.Sono state immediatamente analizzate, tenendo presenti le dinamiche relative ai diversi ordini di scuola, le ripercussioni della paventata soppressione dei precari e delle supplenze brevi, grazie ai contributi di diversi presenti, che hanno esposto casi personali o peculiari di tracollo della didattica a livello regionale, ovvero di aggravio del carico di lavoro dei docenti di ruolo.E' stato posto l'accento sul fatto che le 24 ore sono già una soglia raggiungibile da parte dei docenti, e che la proposta di Reggi mira più che altro a lasciare alla totale discrezionalità dei dirigenti la formazione delle cattedre e l'erogazione del salario "accessorio". Si è ampiamente parlato della riduzione di un anno del percorso di formazione superiore, che vede i funzionari del Miur in contraddizione tra di loro, dal momento che L. Chiappetta, Capo di Dipartimento del Miur, dichiarò, lo scorso 11 aprile, ai Precari Uniti ricevuti in un'altra delegazione, che la generalizzazione della riduzione dei licei a 4 anni comporterebbe ben 25.000 esuberi, mentre Campione ha sostenuto, il 17 giugno, che il compattamento dell'orario non determinerebbe altri tagli. A tal proposito, è stato anche fatto notare, da una docente titolare di cattedra in uno dei licei di Napoli in cui dovrebbe partire a breve la sperimentazione, che sono gli stessi quadri-orario scempiati dalla Gelmini a pretendere la formazione di cattedre "organiche" che superino necessariamente le 18 ore, costringendo i docenti in lotta, sempre più soli di fronte ad un'abdicazione quasi totale al diritto-dovere dell'insegnante di stagliare la propria attività e la propria funzione sullo sfondo di una serie di principi deontologici ed etico-culturali, ad affrontare sempre più mortificanti scontri con dirigenti ormai avvezzi a prevenire i desiderata del governo in materia di aziendalizzazione del "sistema-scuola".E' stato anche rimarcato che da settembre sarà obbligatorio istituire nelle scuole un "nucleo di autovalutazione" che potrebbe indirettamente e in prospettiva sortire gli stessi effetti sperequatori e gerarchizzanti che i movimenti e i pochi sindacati non contigui alle decisioni governative stanno cercando di scongiurare. Più di un precario ha opportunamente fatto notare che le proposte di Reggi, non ancora formalizzate e tanto più preoccupanti quanto più esplicite e accompagnate dalla solita, invereconda campagna di diffamazione contro la categoria dei docenti, rappresentano, oltre che la sintesi annichilante di tutto quanto di peggio gli ultimi governi hanno escogitato per zittire e smantellare la Scuola e per reprimere il dissenso degli studenti, vere vittime del drammatico e voluto tracollo dell'Istituzione Scuola, una preziosa occasione di ricomposizione del mondo dei precari, scientemente e interessatamente frazionato con politiche attuate dal ministero nella logica antica del "dìvide et ìmpera".Numerosi gli interventi dei docenti e dei lavoratori centrati sull'unità delle vertenze e delle lotte, sulla necessità di autoconvocarsi e autorganizzarsi e sul corrispondente affrancamento da quelle forze sindacali che hanno svolto la funzione di "pompieri" del conflitto sociale (è stato menzionato il caso emblematico dei tranvieri di Genova).Intense e dense riflessioni sono state fatte anche in merito alla mancata o difficile coscientizzazione di troppi docenti, disinformati o confusi, alla deumanizzazione indotta dalla competizione, esaltata come nuovo valore da porre alla base delle relazioni interpersonali, e all'affermarsi di un paradigma antropologico e professionale avvilente, che ignora le alternative e la complessità dell'azione pedagogica. Sul fronte più squisitamente politico, si è sottolineata l'illegittimità del governo, l'inammissibilità della sua pretesa di riformare, allo scopo di liquidarle, la Scuola e la Costituzione della Repubblica.Dal confronto è emersa l'ovvia necessità di mobilitarsi per respingere un attacco che, a differenza di quello del governo Monti, si configura come più subdolo, perché innestato nel clima politico di un diffuso consenso costruito grazie anche all'occupazione pressoché totale dei canali di comunicazione e di informazione.L'assemblea ha votato l'adesione convinta alle iniziative previste per il 14 e il 15 luglio, a livello territoriale e nazionale, disponendosi a raggiungere Palazzo Montecitorio per il giorno 15, data in cui verrà verosimilmente presentato, una volta formalizzato, il provvedimento contenente le aberranti "soluzioni finali" per gli annosi problemi della Scuola depauperata e umiliata da anni. Si è però deciso anche di fissare un'assemblea operativa al 18 luglio, allo scopo di organizzare, di lì a pochi giorni, in concomitanza con l'atteso pronunciamento dell'Unione Europea sulla stabilizzazione dei precari, una manifestazione cittadina davanti alla sede del Pd. In occasione di questo presidio, la Scuola cercherà di mobilitare tutte quelle categorie di lavoratori e tutti quei movimenti che stanno risentendo del giro di vite del governo, intenzionato a fare di ogni diritto un "servizio on demand " e di ogni settore pubblico un'occasione d'affari per gli imprenditori meno abili e più spregiudicati, quelli che sputano sullo Stato ma non ne disdegnano il soccorso e l'aiuto massiccio quando restano vittime della loro stessa idolatria per la competizione.Sono state poi avanzate le seguenti proposte e sono stati formulati i seguenti propositi, in linea con la necessità di coinvolgere le famiglie e i docenti renitenti ad allargare la loro prospettiva, restando, così, estranei al dibattito e alla lotta per la Scuola libera e statale: recuperare e ripubblicare, con intento comparativistico e mobilitante, le 600 mozioni emanate dai collegi dei docenti delle scuole di tutta Italia due anni fa, per respingere la Legge Aprea e l'ipotesi di aumento dell'orario di lavoro a 24 ore proposto da Monti; radicalizzare la comunicazione e demistificare i proclami del Pd, le cui dichiarazioni mendaci e melliflue fanno a cazzotti con la ghigliottina di Reggi; coinvolgere con volantinaggi e assemblee organizzate in altri luoghi di lavoro i genitori e gli alunni, spiegando loro che una Scuola le cui attività saranno a pagamento, come l'apertura fino alle 22, che Reggi e la Giannini immaginano "coperta" economicamente dai privati, sarà una scuola in tutto e per tutto privata, da cui resteranno esclusi i meno abbienti, e prospettando la mancata emancipazione dei ragazzi, dal momento che, una scuola di scarso livello quale è quella attuale, a causa della carenza di risorse e della discontinuità, rende problematica la frequenza dell'Università, accrescendo i livelli di abbandono e, quindi, approfondendo il divario tra classe "dirigente" e classe indigente.A margine dell'assemblea, c'è stato l'intervento di due attiviste ucraine, Giulia Berdibaeva e Ludmila Shishkina, le quali hanno attestato la loro solidarietà ai Precari della Scuola, già intervenuti a loro volta ad un presidio organizzato contro lo sterminio fascista in atto nella zona di Donbass e contro la congiura dei media, che tendono a criminalizzare dei presunti "separatisti" filorussi, i "cattivi" di turno da ammannire alla popolazione ignara e credula, laddove invece sono le potenze occidentali, USA e parte dell'UE, interessate a "sgomberare" un'area da sottoporre a sfruttamento economico intensivo e proficuo (gas), che stanno finanziando l'attuale dittatore e le sue squadracce fasciste, che sono arrivate a compiere abomini indicibili, tra cui la crocifissione di bambini. Le attiviste hanno messo in guardia il nostro paese contro ogni rigurgito fascista e contro le sue versioni eufemizzate, quelle, appunto, incarnate da governi che postulano la distruzione della scuola e poggiano su un degradante culto della personalità del premier.Dopo aver rivolto anche un pensiero alla martoriata Palestina e dopo aver invitato i presenti a partecipare anche alle manifestazioni organizzate a Napoli a sostegno della causa del popolo palestinese, vittima di una atroce rappresaglia, innescata, come sempre, in modo oscuro e pretestuoso, l'assemblea si è sciolta ripromettendosi di lavorare alacremente per la buona riuscita delle prossime iniziative.
Le rovine
"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"
Buenaventura Durruti
sabato 12 luglio 2014
ASSEMBLEA DEL COORDINAMENTO IN DIFESA DELLA SCUOLA DI NAPOLI CONTRO IL PIANO "REGGI"
Movimento precari uniti
Scrivi anche tu ai Senatori: "Si alle bonifiche, No alla sanatoria per gli inquinatori".
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
Coordinamento Nazionale Siti Contaminati
Stop Biocidio Lazio e Abruzzo
SCRIVI AI SENATORI
DECRETO 91/2014 = Inquinatore protetto
Il Governo Renzi sta varando il nuovo Decreto 91/2014, un regalo per chi ha provocato disastri ambientali.
Sostanzialmente si demanda tutto al privato in un vero e proprio "far west" dove a rimetterci sono le comunità che vivono nelle migliaia di siti inquinati nel nostro Paese.
Diviene, dunque, urgente far sentire la pressione ai Senatori affinchè si odoperino per far modificare radicalmente tali norme.
Per questo Ti invitiamo a far pervenire il testo sottostante e la cartolina allegata.
Sostanzialmente si demanda tutto al privato in un vero e proprio "far west" dove a rimetterci sono le comunità che vivono nelle migliaia di siti inquinati nel nostro Paese.
Diviene, dunque, urgente far sentire la pressione ai Senatori affinchè si odoperino per far modificare radicalmente tali norme.
Per questo Ti invitiamo a far pervenire il testo sottostante e la cartolina allegata.
In fondo il materiale occorrente compreso l'indirizzario mail dei Senatori.
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Oggetto: Decreto 91/2014 = “Inquinatore protetto”
"Gentile Senatrice/ore,
Le scrivo in merito al Decreto 91/2014 ora in discussione in Parlamento.
Partito con il positivo intento di semplificare le farraginose procedure delineate dal Testo Unico dell'Ambiente (D.lgs.152/2006) si è trasformato in un vero e proprio invito a nascondere la polvere inquinata sotto il tappeto.
Infatti, con tale decreto, dal punto di vista sanitario e giudiziario, si perderebbe la sicurezza sul reale stato di contaminazione a cui sono stati esposti magari per decenni i cittadini. La popolazione che vive in un'area inquinata (ma anche i ricercatori che devono valutare l'esposizione ad inquinanti e le eventuali conseguenze) dovranno basarsi sui dati dei privati per capire se sono stati esposti a pericoli per la salute!
Inoltre, una volta avvenuta la bonifica faranno fede solo i dati “autocertificati” dei privati. Ma viene spontaneo chiedersi: quale privato, quale multinazionale autocertificherà mai l'esistenza di uno stato di inquinamento per il quale potrebbe essere chiamata a rispondere per danni nelle aule dei tribunali?
Per queste ragioni Le chiedo di intervenire in sede di conversione in legge al fine di superare le criticità che evidenziamo:
- sulla trasparenza e informazione dei cittadini durante il procedimento;
- sulla definizione di criteri minimi rispetto ai dati di partenza necessari per redigere il progetto di bonifica e il piano di caratterizzazione;
- sull'incredibile innalzamento dei limiti di legge per la contaminazione nelle aree militari;
- sulla certificazione a campione di questi dati di contaminazione di partenza da parte delle agenzie regionali;
- sulla modifica del criterio del silenzio/assenso per l'approvazione dei piani di caratterizzazione.
Solo in questo contesto potrebbe giustificarsi un intervento per semplificare le procedure, intervento che così come configurato ad oggi nel Decreto 91/2014 si tradurrebbe in una potenziale sanatoria regalata agli inquinatori contraria al principio "Chi inquina paga".
La ringrazio in anticipo per la disponibilità.
- sulla trasparenza e informazione dei cittadini durante il procedimento;
- sulla definizione di criteri minimi rispetto ai dati di partenza necessari per redigere il progetto di bonifica e il piano di caratterizzazione;
- sull'incredibile innalzamento dei limiti di legge per la contaminazione nelle aree militari;
- sulla certificazione a campione di questi dati di contaminazione di partenza da parte delle agenzie regionali;
- sulla modifica del criterio del silenzio/assenso per l'approvazione dei piani di caratterizzazione.
Solo in questo contesto potrebbe giustificarsi un intervento per semplificare le procedure, intervento che così come configurato ad oggi nel Decreto 91/2014 si tradurrebbe in una potenziale sanatoria regalata agli inquinatori contraria al principio "Chi inquina paga".
La ringrazio in anticipo per la disponibilità.
Io sottoscritta/o."
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ALLEGATI
Frosinone. MANIFESTAZIONE per difendere il diritto alla salute delle nostre popolazioni.
A TUTTE LE ASSOCIAZIONI – Loro sede
La sanità della provincia
evidenzia sempre di più la sua organizzazione precaria, caotica e drammatica.
Gli ospedali sono al
collasso, i Pronto Soccorso sono luoghi di pena senza legge dove vengono
calpestati e annullati dignità e diritti mentre le strutture territoriali sono
sempre più deboli e fatiscenti. Siamo giunti, ormai, al punto di non ritorno.
OCCORRE DIRE BASTA
Mercoledì 16 luglio, alle ore 15, in Piazza Madonna della
Neve,
a Frosinone, associazioni, sindaci, amministratori locali e cittadini si
ritroveranno per dar vita ad una MANIFESTAZIONE per difendere il diritto alla
salute delle nostre popolazioni.
Il corteo, dopo aver percorso
la statale Monti Lepini e Via Fabi, si concluderà dentro la
Asl. Nel piazzale-parcheggio adiacente la
palazzina della direzione generale.
Da Sora, un gruppo di cittadini raggiungerà
Frosinone a piedi. Delegazioni numerose arriveranno da Cassino, Alatri, Anagni,
Ceccano, Veroli, Ferentino, Pontecorvo e
da ogni angolo della provincia.
I Sindaci saranno presenti
con la fascia tricolore ed i Gonfaloni comunali.
Le associazioni ed i cittadini sono invitati ad
organizzarsi per partecipare con striscioni e cartelli per fa sentire la nostra
rabbia, la nostra protesta e per far accogliere le nostre proposte.
TUTTI UNITI PER VINCERE UNA BATTAGLIA DECISIVA A
DIFESA DELLA NOSTRA SALUTE E DELLA NOSTRA VITA
Per i Comitati
Territoriali Sanità
Roberto Sarra
Francesco Notarcola
Rodolfo Damiani
Augusto Vinciguerra
Fabrizio
Pintori
video di Luciano Granieri....così tanto per ricordare che i problemi arrivano
da lontano.
venerdì 11 luglio 2014
Per capire meglio la questione palestinese
a cura di Mario Catania e Luciano Granieri
Storia della Palestina
Proprietà della terra in Palestina
Ci sembra
opportuno iniziare dando, sia pur molto brevemente, un’idea della struttura
della proprietà rurale in Palestina e del ruolo della terra in questa società.
Quella palestinese era all’inizio del ‘900 una società rurale, in cui i fellahin
costituivano delle comunità caratterizzate dalla proprietà comune della terra e
dal possesso dei mezzi di produzione (animali). La comunità che possedeva la
terra era o quella dei residenti di un villaggio o quella della famiglia
estesa. Nella stagione dell’aratura e della semina, la terra era divisa sulla
base della capacita di coltivarla. Un feddan ad ogni
uomo con un animale; mezzo feddan addizionale per ogni animale da
lavoro in più. Un uomo senza animali aveva diritto a mezzo feddan. Nelle
zone collinose o montagnose c’erano anche forme di proprietà individuale o
familiare di orti e di terre con alberi. La proprietà era basata sulla capacita
di piantare e mantenere gli alberi o sull’eredita. I confini, segnati con
cactus o con muretti a secco, erano rispettati da tutti; lo stesso valeva per i
confini dei pascoli delle tribù seminomadi. Il tentativo fatto a partire dal
1858 da parte dell’amministrazione ottomana di istituire un registro delle
proprietà rurali non ebbe un grande successo, anche perche il registro era
inteso anche come strumento di controllo della popolazione ai fini fiscali ed a
quelli della leva militare. Un effetto collaterale dell’introduzione dei
registri fu che alcune famiglie ed individui, approfittando della propria
posizione nell’amministrazione o della propria influenza e della relativa
arbitrarietà delle procedure di registrazione, riuscirono a fare registrare a
proprio nome rilevanti appezzamenti di terra non loro. Ciò contribuì allo
sviluppo di una classe di notabili urbani che, avendo nella terra la base del
loro potere, riuscivano ad assicurarsi posizioni di rilievo
nell’amministrazione ottomana. Comunque la proprieta collettiva continuo ad
essere maggioritaria in Palestina fino alla creazione dello stato di Israele
nel 1948. Questo fatto, come vedremo, renderà più facile l’espropriazione della
terra da parte del governo israeliano.
La colonizzazione ebraica prima della nascita
dello Stato di Israele
L’acquisizione della terra in Palestina da parte
del movimento sionista inizia in modo sistematico all’inizio del ‘900.
Strumento fondamentale fù l’istituzione del Fondo Nazionale Ebraico (Keren
Kaymeth LeIsrael ), avvenuta nel 1901 proprio con l’obiettivo di
raccogliere fondi fra la diaspora ebraica per l’acquisto e la ‘redenzione’ di
terra in ‘Eretz Israel’. Nel 1947 le proprietà ebraiche coprivano il 6,6% della
Palestina (1.734.000 dunum , ovvero 1.734 Kmq), di cui oltre la meta (933.000
dunum) era posseduta dal Fondo Nazionale Ebraico. Accanto
al processo di acquisizione di terre da parte di singoli ebrei o di istituzioni
sioniste, durante il mandato britannico si sviluppò un vero e proprio processo
di confisca di terre gestito direttamente dalla potenza mandataria. La “Woods
and Forest Ordinance” del 1920 permise la confisca di terreni utilizzati
principalmente per il pascolo da parte delle tribù beduine e delle popolazioni
rurali. Queste terre venivano classificate foreste statali e diventavano di proprietà
dello stato. Fra il 1927 ed il 1947
furono confiscati in questo modo 1.840.586 dunum di terra
palestinese. Quando poi, il 15 maggio 1948, fu proclamato lo stato di Israele,
le foreste statali furono considerate terra dello stato di Israele, cosı come
le terre che non erano registrate come proprietà individuali (e quindi le terre
possedute in modo collettivo dalle comunità rurali), per un totale di 15.025.000 dunum.
Dalla nascita di Israele alla guerra del 1967
La politica di occupazione della terra (e delle
abitazioni) ebbe una fortissima accelerazione durante la guerra, con
l’espulsione sistematica dei palestinesi da larghe porzioni del territorio, e
dopo, con l’imposizione alle popolazioni palestinesi della legge marziale, col
mantenimento delle leggi d’emergenza emanate dall’amministrazione britannica ai
tempi del mandato, ed infine con la Legge sulla Proprietà degli Assenti del
1950. Durante la guerra circa 400 villaggi arabi furono svuotati della loro
popolazione e distrutti. Sulle terre di diversi di questi villaggi sorsero
centri abitati o fattorie ebraiche. In molti casi gli arabi furono scacciati
con la forza dalle truppe sioniste, a volte anche a seguito di veri e propri
massacri, in altri casi fu la paura, alimentata da notizie di violenze subite
dagli abitanti di villaggi vicini, a spingere gli arabi alla fuga. Alla fine
della guerra circa 700.000 arabi palestinesi avevano abbandonato le terre dello
stato di Israele. Nasceva il problema dei rifugiati, ancora oggi uno dei
principali ostacoli alla soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche in
questa occasione ritroviamo presente il Fondo nazionale Ebraico
attraverso il suo direttore del dipartimento della terra, Josef Weitz. I primi
scontri fra truppe sioniste e milizie arabe scoppiano poco dopo il piano di
partizione dell’Onu del 29 novembre 1947, e Weitz “fu il
primo a apprezzare - agendo di conseguenza - il potenziale per
l’acquisizione di terre inerente allo stato di anarchia creato
in Palestina allorchè le milizie rivali si scambiavano colpi
sotto gli occhi dei reggimenti britannici occupati a organizzare la propria ritirata.” Che ci
sia stato, come sostengono gli storici palestinesi, un piano preordinato per
l’espulsione degli arabi da parte delle forze sioniste `è materia di discussione.
Certamente è priva di fondamento e
unicamente propagandistica la tesi sostenuta per molti anni da parte sionista,
che i palestinesi abbiano abbandonato volontariamente le proprie case su
indicazione dei dirigenti arabi. L’accurata ricostruzione degli eventi fatta da
Benny Morris non lascia dubbi. Le comuni caratteristiche delle modalità di espulsione
dei palestinesi nelle diverse parti del paese fanno pensare, se non ad un piano
centralmente concepito ed attuato, certamente ad una comune aspirazione che
trovava poi nei responsabili locali lo strumento attuativo, con il tacito
appoggio ed incoraggiamento dei comandi centrali e di Ben Gurion in
particolare. Questa impressione viene confermata dalla sistematica politica di
distruzione dei villaggi arabi abbandonati in modo da impedire la possibilità
di un ritorno delle popolazioni arabe. “`E difficile non avere
l’impressione che ci sia una mano che guida” afferma a
questo proposito una circolare di una organizzazione vicina al Mapam, l’unica
forza politica sionista da cui si levarono voci critiche alla politica di
espulsione. Sempre Benny Morris riporta l’impaziente risposta di
Ben-Gurion durante una discussione a livello di Gabinetto su piani riguardanti
le zone densamente popolate da arabi: “Gli arabi della Terra di Israele
hanno solo un ruolo, quello di fuggire via.” La conclusione di Morris è che il problema dei rifugiati palestinesi è un prodotto della guerra e non di una azione
premeditata. Conclusione contestata da Norman G. Finkelstein che sostiene come
proprio l’insieme della documentazione raccolta da Morris porti piuttosto alla
conclusione che “gli arabi palestinesi furono
espulsi in modo sistematico e con premeditazione”. Con l’obiettivo di
realizzare uno stato completamente ebraico, l’idea di dovere convivere con una
forte minoranza araba, che per le diverse dinamiche demografiche, avrebbe
potuto nel tempo superare numericamente la popolazione ebraica, divenendo
maggioranza, era una delle maggiori preoccupazioni dei dirigenti sionisti. Per
cui, anche se non premeditato, l’esodo palestinese fu certamente desiderato e
attivamente favorito, e furono realizzate le condizioni perche diventasse
definitivo. Come ha scritto Morris: “[. . . ] risulta che la
maggior parte di loro [i palestinesi] fuggirono dai loro villaggi e
dalle loro città in seguito ad attacchi ebraici, o per il timore di simili
attacchi. `E vero che molti fuggirono senza essere espulsi,
ma il vero dramma è derivato dalla Più drastica decisione degli israeliani, quella di
vietare ai palestinesi fuggiti di rientrare nel paese.” La
fondamentale responsabilità israeliana nell’esodo palestinese non deve fare
trascurare la responsabilità della classe dirigente araba che, preoccupata
soprattutto di mettere in salvo le proprie famiglie ed i propri beni, fu la
prima a fuggire lasciando la popolazione allo sbando senza guida né politica né militare. Il 21 ottobre 1948, con
l’imposizione della legge marziale, i palestinesi rimasti all’interno di
Israele, circa 150.000, furono sottoposti ad una amministrazione militare, con
l’obiettivo principale di limitare e controllare i loro movimenti. Nei primi
anni di amministrazione militare, la Galilea fu suddivisa in oltre 50
distretti, e ai palestinesi non era consentito di lasciare i luoghi di residenza
senza il permesso del governatore militare. I permessi di viaggio specificavano
non solo la data di partenza e di ritorno e la destinazione, ma anche il
percorso del viaggio. Questo sistema si dimostro un potente strumento di
controllo, limitando le interazioni fra loro dei palestinesi e frammentando
letteralmente le loro comunità. Molte zone erano completamente vietate,
specialmente quelle in cui la popolazione ebraica aveva sostituito quella
palestinese di prima del 1948. Queste restrizioni insieme alla Legge sulla
Proprietà degli Assenti che consentiva la confisca delle terre ‘abbandonate’,
permisero di dare una sanzione legale all’espropriazione delle terre arabe. Non
solo furono confiscate le terre di coloro che erano stati espulsi da Israele,
ma anche molti di coloro che erano rimasti all’interno del paese persero le
loro proprietà. Una parte consistente dei palestinesi di Israele erano profughi
interni, espulsi dalle loro case, ma alloggiati o accampati nelle zone vicine.
Essi furono considerati come legalmente “assenti”. Oltre a questa, un insieme
di altre leggi contribuì alla legalizzazione della confisca di terre
palestinesi. Ad esempio la legge 125 che consentiva ai comandanti militari di
dichiarare delle aree come aree militari chiuse, e la 5709 che consentiva di
fare evacuare per ragioni di sicurezza aree collocate lungo i confini, a nord
ed a sud. Fra la fine della guerra ed il 1965 l’applicazione di queste leggi
permise allo stato di confiscare 12.500.000 dunum di terra
araba, più del 60% appartenente a
palestinesi che non avevano mai lasciato Israele. Le terre, come le migliaia di
abitazioni confiscate, furono messe a disposizione dell’immigrazione ebraica.
Ancora oggi molti palestinesi di israele vivono come profughi all’interno del
loro stesso paese. Sono circa 40 i villaggi ed i piccoli centri arabi che ufficialmente’
non esistono: non appaiono nelle carte di Israele e non hanno diritto a servizi
di nessun tipo. Ma anche quando gli arabi riuscivano a mantenere la proprietà
delle terre, era difficile continuare a coltivarle. Lo stato, infatti, limitava
rigorosamente le loro quote di risorse idriche ed elettriche, specie in
confronto alle vicine cooperative o comunità agricole ebraiche (i kibbuzim
ed i moshavin). Nel 1966 terminò l’amministrazione militare
degli arabi di Israele. Dal punto di vista formale gli arabi furono a quel
punto cittadini come gli altri, godendo di tutti i diritti. In pratica rimasero
cittadini di seconda categoria, mentre continuava, in forme diverse, il processo
di espropriazione della loro terra. Simbolico della resistenza araba alle
espropriazioni il famoso giorno della terra del 1976.
Le autorità israeliane avevano comunicato l’intenzione di espropriare un
milione e mezzo di dunum di terra araba in Galilea e nel
Negev. Fu subito evidente che l’obiettivo principale era di modificare gli
equilibri demografici in Galilea, dove la popolazione era per oltre il 70%
araba. Il 30 marzo fu indetto uno sciopero generale cui partecipo tutta la
popolazione araba di Israele, ed a cui si unirono anche i palestinesi dei
territori occupati. Ragazzi arabi bloccarono le strade e lanciarono pietre
contro i soldati israeliani; alla fine della giornata 6 arabi erano stati
uccisi e diversi feriti si contavano da entrambe le parti. Da allora il 30
marzo `e ricordato come il giorno della terra, Yom al-Ard, da
tutti palestinesi, ma, in particolare, per i palestinesi di Israele rappresenta
una festa nazionale, l’unica comune a mussulmani e a cristiani, festa
dell’identificazione con la terra e della resistenza contro l’espropriazione.
L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza
Nel 1967 a seguito della guerra dei 6 giorni (5-10
giugno) tutta la Palestina storica ad ovest del Giordano viene occupata di
Israele, ed inizia subito un nuovo capitolo nel processo di espropriazione
della terra palestinese. Come osservato dallo storico israeliano Zeev
Sternehell, la conquista della Cisgiordania e di Gaza viene sentita dalla
classe dirigente sionista, la stessa che ha fondato Israele, come il completamento
della guerra d’indipendenza. “Nel 1967, come nel 1948 e nel 1937, i
leader del paese erano ancora convinti che le frontiere si
creano con fatti sul terreno. Dopo la vittoria dei sei giorni,
il dibattito nel Mapai non riguardò se la dottrina della conquista
dei territori ogni volta che ce ne fosse l’opportunità - messa in pratica
sin dalla prima decade del secolo - fosse ancora valida, ma su come, e in che
grado, la situazione creata dalla sconfitta araba potesse essere sfruttata.” Il 27
luglio 1967, a meno di due mesi dalla guerra, il ministro del lavoro Allon
presenta al governo un piano che prevede l’annessione di Hebron, della valle
del Giordano e del Golan. Questo piano sarà alla base della politica degli
insediamenti dei successivi governi laburisti. Successivamente, il 14 gennaio
1968, lo stesso Allon propone la realizzazione di un insediamento nei pressi di
Hebron. Prese cosı forma l’idea di Kiryat Arba, insediamento che oggi conta
circa 6.000 abitanti e che è uno dei bastioni dell’estremismo nazionalista
ebraico. Proprio da Kiryat Arba venne quel Baruch Goldstein che il 25 febbraio
1994 uccise circa 35 arabi mentre pregavano nella moschea della tomba di
Abramo. In accordo col piano Allon, i governi laburisti cominciano a costruire
insediamenti nella valle del Giordano lungo due fasce, una in pianura ed
un’altra nelle zone collinari adiacenti. Nel 1975 viene poi steso un piano
ventennale per la colonizzazione completa della valle. Obiettivo del piano era
lo sfruttamento delle risorse della valle (terra ed acqua) a fini agricoli. Dal
1977, con i governi del Likud, il piano Allon viene abbandonato e inizia una
fase di colonizzazione più estesa che include le zone montagnose della
Cisgiordania, ormai chiamata Giudea e Samaria. L’obiettivo è di circondare le
città palestinesi con blocchi di insediamenti, rendendo impossibile la
creazione di uno stato palestinese dotato di continuità territoriale. I primi
insediamenti furono costituiti su terra palestinese espropriata per necessita
militari. Nel 1979 la Corte suprema accolse il ricorso di alcuni palestinesi la
cui terra era stata confiscata per costruirvi l’insediamento di Elon Moreh. In
quell’occasione la Corte affermo che l’insediamento non era in realtà
giustificato da ragioni militari ma piuttosto da ragioni ideologiche. Il
governo israeliano allora cambiò tattica: abbandonò i motivi di ‘sicurezza’, e
decise piuttosto di realizzare insediamenti su terre statali. A questo scopo
bisognava naturalmente ampliare il più possibile l’estensione delle terre statali.
Ciò veniva realizzato attraverso una procedura abbastanza semplice ed efficace:
una volta individuata la terra che interessava, il sovrintendente alle proprietà
statali della ‘Amministrazione Civile’, dopo avere consultato la Divisione
Civile dell’ufficio dell’Avvocato della Stato, la dichiarava terra statale;
quindi i mukhtar [i capi] dei villaggi venivano informati. A questo
punto i residenti avevano 45 giorni per ricorrere alla Commissione di Appello
militare. Se nessuno si appellava, allora la terra passava in possesso dei
militari. Altrimenti, la questione veniva portata di fronte ad una commissione nominata
appositamente. Poichè l’onere della prova di essere il legittimo proprietario
della terra ricadeva sull’appellante, considerata la carenza di catasti aggiornati
ed il tipo di proprietà collettiva diffuso in Palestina, era molto difficile
per i palestinesi fare valere le loro ragioni. Come risultato di questa
procedura alla fine del 1999, in Cisgiordania, circa 5.500 kmq risultavano essere
terra statale, laddove prima del 1967 sotto l’amministrazione giordana, solo
527 kmq erano catalogati come terra statale. Le terre statali sono così passate
da circa il 10% della Cisgiordania a circa il 45%. Con questo ed altri
strumenti legali, dal 1967 ad oggi Israele ha espropriato oltre 5.839.000 dunum
di terreno, cioè il 73% della Cisgiordania e della striscia di Gaza.
Gerusalemme
Un caso particolarmente importante, anche per la
sua valenza simbolica `e quello di Gerusalemme. Fra il 1948 ed il giugno 1967
Gerusalemme era divisa in due settori, quello occidentale (Gerusalemme Ovest),
sotto sovranità israeliana, che ricopriva un’area di circa 38 kmq, e quello
orientale (Gerusalemme Est) con la città vecchia, sotto sovranità giordana, con
una superficie di circa 6 kmq. Gerusalemme Est viene conquistata il 7 giugno
1967, al terzo giorno di guerra. Tre giorni dopo, la sera di sabato 10 giugno,
Le autorità israeliane intimano alle oltre 100 famiglie che vivono nel
quartiere di Mughrabi, adiacente al muro del pianto, di evacuare entro tre ore.
I bulldozers cominciano subito il loro lavoro e la mattina di lunedì 12 una
spianata di un acro, di fronte al muro del pianto, è stata completamente
liberata da costruzioni. Negli stessi giorni viene deciso lo spostamento
forzato degli abitanti di quello che prima del 1948 era stato il quartiere
ebraico della città vecchia. Il 29 giugno, a meno di tre settimane dalla fine
della guerra, Israele decide di estendere i confini municipali di Gerusalemme
Ovest, includendovi i 6 kmq di Gerusalemme Est e circa 64 kmq di terra
appartenente a diversi villaggi e municipalità della Cisgiordania. I nuovi
confini furono disegnati in modo da garantire l’obiettivo del mantenimento di
una consistente maggioranza ebraica: diversi villaggi furono divisi, lasciando
fuori dai confini le zone più popolate ed includendovi invece una parte delle
loro terre. Tutta l’area di Gerusalemme fu quindi annessa allo stato di
Israele, annessione illegale dal punto di vista del diritto e mai riconosciuta
dalla comunità internazionale. Con l’annessione inizia una sistematica politica
di discriminazione contro la popolazione palestinese di Gerusalemme attraverso
le espropriazioni ed attraverso una politica urbanistica guidata dall’esplicito
intento politico di favorire lo sviluppo della popolazione ebrea e di creare
situazioni che rendano irreversibile la sovranità israeliana sulla città. Nel
presentare il piano di sviluppo urbanistico, il 6 luglio 1977, il sindaco Ted
Kollek afferma “Il principale obiettivo del piano è di
assicurare il mantenimento del carattere distintivo di Gerusalemme
come capitale di Israele, una città santa ed un luogo di pellegrinaggio come
centro spirituale, una città con un carattere culturale e storico speciale
- e tutto questo può essere mantenuto solamente se la città rimane unificata
sotto la sovranità israeliana. [. . . ] Noi riteniamo che, approvando il
piano, noi stiamo affermando il nostro controllo sull’intera città e stiamo mettendo
le basi per la continuata realizzazione dell’unificazione della città.” Sui
terreni espropriati, in gran parte arabi, furono costruite solamente case per
ebrei. Fra il 1967 ed il 1996 su queste terre erano state costruite 38.500 unità
abitative per la popolazione ebrea e nessuna per gli arabi. Allo stesso tempo i piani
urbanistici limitavano fortemente le costruzioni nelle aree arabe, costringendo
spesso le nuove famiglie palestinesi a trasferirsi fuori dai confini comunali.
Gli insediamenti ebraici andarono crescendo con l’obiettivo di arrivare a
costituire un continuum che rendesse impossibile una nuova divisione di
Gerusalemme lungo la ‘linea verde’ , con la restituzione ai
palestinesi dei quartieri orientali. Secondo le parole del sindaco Kollek, “Gerusalemme
deve essere costruita in modo da rendere impossibile la sua divisione. Senza
le espropriazioni delle terre, decine di migliaia di ebrei non vivrebbero
oggi nei nuovi quartieri”. Il più recente episodio di questa politica di
ebraizzazione di Gerusalemme `e quello di Abu Ghneim, una collina
collocata a sud della città, sul confine nord della cittadina palestinese di
Beit Sahour. Questa collina e le terre intorno sono storicamente proprietà di
Palestinesi di Beit Sahour e del villaggio di Um Tuba. A seguito
dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est,
durante la guerra del 1967, Abu Ghneim ed i dintorni furono
illegalmente annessi a Gerusalemme. Da allora Israele ha sistematicamente
negato ai Palestinesi il diritto di costruire su questa terra con la scusa che
si trattava di una ‘area verde’ protetta. Tuttavia dopo che, nel 1991, i 465
acri della collina furono espropriati, decisione confermata dalla Corte Suprema
nel 1994, la terra di Abu Ghneim fu resa disponibile per un
insediamento ebraico. Si tratta dell’insediamento di Har
Homa, in cui si prevede di alloggiare inizialmente 6.500 nuovi immigrati
ebrei, per arrivare nel giro di pochi anni a 50.000 abitanti. E’ uno schema di
comportamento già applicato in altri casi: una terra araba viene classificata
come area verde, impedendo su di essa qualsiasi costruzione, viene poi
espropriata e non appena cambia il proprietario cambia anche la sua
destinazione: non `e più ‘verde’ e può essere utilizzata per nuovi
insediamenti. Vale la pena a questo punto ricordare che gli “insediamenti
israeliani nei territori occupati violano alcuni principi
fondamentali della legge umanitaria internazionale: la
proibizione di trasferire civili dalla potenza occupante ai territori
occupati, e la proibizione di creare nei territori occupati cambiamenti permanenti
che non vadano a beneficio della popolazione occupata.” Il primo è
sancito esplicitamente nell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, mentre
il secondo deriva dalle convenzioni dell’Aia, secondo cui (articolo 55) “Lo
Stato occupante sarà considerato solamente come amministratore e usufruttuario
degli edifici pubblici, delle proprietà immobiliari, delle foreste e delle
proprietà agricole appartenenti allo Stato ostile e situati nel paese occupato.”
Una silenziosa pulizia etnica
Il processo di appropriazione e colonizzazione
della terra palestinese che abbiamo fin qui cercato di evidenziare non è
qualcosa che riguardi solamente il passato. E’ un processo ancora attivo, che
non si `e interrotto neppure dopo l’inizio del processo di pace, malgrado
questo sia basato, almeno stando ai documenti ufficiali, sull’accettazione
della risoluzione 242 dell’Onu, che prevede la restituzione da parte di Israele
dei territori occupati. Dall’inizio del processo di pace (settembre 1993) al
2000 la popolazione negli insediamenti della Cisgiordania e di Gaza (senza
contare l’area metropolitana di Gerusalemme) è raddoppiata arrivando alle
200.000 unita. Dal Luglio 1999 al settembre 2000, durante il governo laburista
di Barak `e stata iniziata la costruzione di 1.924 nuove unità abitative in
insediamenti (di cui 1.384 in Gerusalemme). Nuovi insediamenti comportano nuove
strade riservate ai coloni e quindi ulteriori espropriazioni di terre
palestinesi. Nel 1999 sono stati confiscati 40.178 dunum di terra
palestinese, dei quali 19,691 sono stati usati per la costruzione degli insediamenti
e 16.657 per nuove strade. Non stupisce in questa situazione la sostanziale
sfiducia da parte della popolazione palestinese circa la reale volontà di pace
israeliana. Come dice Edward Said, “[. . . ] ciò che le truppe
israeliane ed i coloni fanno [. . . ] è nulla meno di un organizzato tentativo di
pulizia etnica. La principale differenza tra la Bosnia e la Palestina è che la
pulizia etnica nella prima ha avuto luogo nella forma di drammatici massacri e
carneficine che hanno attirato l’attenzione del mondo, mentre in Palestina ciò
che accade è una tattica di ‘goccia dopo goccia’ in cui una o due case sono
demolite giornalmente, qualche acro è preso qui e lı ogni giorno, alcune persone
sono costrette ad andare via. Nessuno vi presta molta attenzione.”
Brano. Luglio Agosto e Settembre Nero degli Area
Terme romane. O la borsa o il palazzone
Luciano Granieri
La questione delle
terme romane di epoca imperiale, a
rischio sepoltura sotto 35.000 metri cubi di cemento, finalmente arriverà sul tavolo
del ministro dei Beni Culturali Franceschini. Grazie all’interrogazione
parlamentare dei senatori Pd Francesco Scalia e Maria Spilabotte, e al
parallelo orientamento dei deputati Luca Frusone M5S e Nazareno Pilozzi ex Sel,
il ministro dovrà occuparsi dei reperti archeologici presenti nel sottosuolo di
Frosinone.
Non c’è dubbio che la situazione sembra segnare un punto a favore
dei movimenti e delle associazioni che si battono per salvaguardare l’enorme
patrimonio culturale archeologico del
Capoluogo. A corroborare questa ipotesi,
oltre che all’interessamento di deputati e senatori locali, emerge il giallo della scomparsa di una nota con cui il
dirigente del settore Pianificazione Territoriale e Ambiente, Elio Noce,
proponeva alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e del Paesaggio di
rivedere la tutela diretta e indiretta dell'area d’interesse archeologico adeguandone l’estensione anche al sito dove
dovranno sorgere palazzi e centri commerciali. La nota in questione è riemersa
con somma indignazione da parte delle associazioni che hanno chiesto ragione al
Comune dell’autorizzazione paesaggistica
concessa senza prima discutere l’oggetto della valutazione del dirigente Noce.
Da
ultimo, gli scandali che recentemente hanno coinvolto alcuni dirigenti della
sopraintendenza aggravano ulteriormente la posizione di chi vorrebbe costruire
sulle terme. Ma anche quando il diritto dei cittadini di rientrare in possesso
di una ricchezza comune sembra essere rispettato, irrompe la forza della proprietà
e dell’interesse privato. La società
interessata alla costruzione del grande blocco residenziale e commerciale sul
sito delle terme, con molta calma e tranquillità si dice disposta a rinunciare
al suo progetto, ma evidentemente reclama il risarcimento delle spese di scavo ,
dei lavori svolti fino ad oggi e dei danni per lo stop al cantiere, oltre a
ribadire che quella operazione urbanistica
avrebbe portato nelle casse del comune
circa un milione di euro in oneri concessori. La posizione è chiara, che i
diritti dei cittadini siano soddisfatti ma…..ridateci i soldi e tanti.
E’ un
argomento questo a cui il Comune non potrà rimanere insensibile per cui, alle
fine, interrogazioni, raccolte di firme, proteste, finiranno per soccombere
alla ragione del capitale e dell’unico diritto inviolabile nel nostro
disgraziato paese che è quello della
proprietà privata. Il tutto però parte da una concezione rovesciata del problema.
E’ evidente che il sottosuolo di
De Matthaeis contiene una vasta area d’interesse archeologico. Un’area
che dalla Villa Comunale si estende
almeno fino all’inizio di Via Roma se non oltre. Ed è altrettanto evidente che gli
ingegneri e gli architetti delle terme
romane all’epoca non hanno edificato la struttura a macchia di leopardo,o a cazzo
di cane, lasciando un buco vuoto proprio in corrispondenza del
terreno dove più di duemila anni dopo un costruttore avrebbe voluto piazzarci
il suo bel palazzone senza avere la rogna di imbattersi nei loro cocci.
Dunque
se è vero, come è vero, che tutta l’area di De Matthaeis sorge sopra un enorme
insediamento archeologico, su di essa deve essere interdetto ogni tipo di
intervento urbanistico che non sia finalizzato alla riscoperta e alla
riqualificazione del sito archeologico.
E quand’anche l’esistenza di una parte delle terme non sia evidenziata
da uno scavo specifico nell’area interessata, su questa stessa area dovrebbe rimanere
comunque il divieto di edificazione, oppure, in mancanza, come detto , dell’evidenza
un privato potrà entrare in possesso dell’area su cui non sono ancora stati eseguiti accertamenti , ma lo farà a suo rischio e pericolo. Acquisirà il terreno, procederà a sue spese
agli scavi per verificare che non vi sia nulla nel sottosuolo, poi se le
ricerche saranno negative la costruzione potrà proseguire, se invece dovessero
venire alla luce i reperti, il privato restituirà tutta l’area al Comune senza nulla a
pretendere in cambio.
Queste dovrebbero
essere le prescrizioni da seguire in un sito interessato da reperti
archeologici. La difesa delle potenzialità culturali del territorio e la loro
fruibilità da parte della collettività dovrebbe essere il primo obbiettivo da
perseguire, dopo e solo dopo arriva l’eventuale interesse del costruttore
privato. In questo caso in vece si è
proceduto in senso contrario. Il privato costruisce comunque, l’interesse sarà
quello di fermare ogni tentativo di accertamento sotto il suolo oggetto dell’edificazione
e di depotenziare e negare qualsiasi documentazione che attesti la presenza di
reperti archeologici.
Se anche questo tentativo dovesse fallire l’ultima ratio
sarà quella di rinunciare a far valere i diritti dei cittadini perché la
decisione sarebbe troppo onerosa per il Comune che dovrà risarcire il
costruttore per lo stop dei lavori e rinunciare agli oneri di urbanizzazione.
Insomma così come è messa la situazione, sarà difficile fermare il progetto
residenziale. E sarà sempre più difficile in futuro se non si riuscirà a
sottomettere gli interessi privati agli interessi della collettività.
Italia, land of story telling
Luciano Granieri
Story telling, ovvero cantare storie. No non è proprio così.
La figura del cantastorie evoca l’immagine di un affabulatore che affascina
l’uditorio guidandolo nei sentieri della fantasia e della fascinazione. Story
telling, significa, : “il dire storie”, in cui il termine storia è inteso come
imbroglio, bugia. La pratica dello story telling risale agli albori del
neoliberismo occidentale i cui campioni, all’inizio degli anni ’80, furono
Margaret Thatcher ,ma soprattutto Ronald Reagan. La loro politica tesa a
distruggere lo stato sociale, il controllo dello Stato sul libero dispiegarsi
dell’accumulazione finanziaria e sulla polarizzazione delle ricchezze a favore
delle grandi lobby private, necessitava di un sistema per convincere i poveri,
vittime predestinate di questo insensato sistema, a votare per i ricchi.
L’imbroglio consisteva
nel sostenere che era nella disponibilità di ogni persona un capitale umano il cui utilizzo, ai fini dell’ottenimento del
successo, dipendeva solo ed esclusivamente dalla persona stessa. E lo Stato, con le sue regole opprimenti, non
era altro che un ostacolo al pieno dispiegamento delle capacità di ciascuno finalizzate
a conseguire il successo. L’essere poveri non era altro che la conseguenza
della propria inadeguatezza, per cui compito di ognuno era darsi da fare per non essere abbietto.
Tramite lo story telling, la solidarietà venne sostituita dalla competitività. Le sciagure che tale sistema ha prodotto nei decenni successivi sono ancora
sotto gli occhi di tutti.
Alla stessa scuola si iscrisse Bettino Craxi. Anche
il leader socialista praticò lo story telling, con la sua Milano da bere, con
il partito liquido, tutti oscuri presagi all’avvento del ventennio
berlusconiano. Ma a leggere bene la storia il popolo italiano è stato sempre
particolarmente sensibile a chi gli ha raccontato storie. Ci siamo sempre fatti
gabbare da certi personaggi, a partire dall’inizio del ‘900.
Uno dei primi
story tellers può ritenersi Gabriele D’Annunzio, che insieme all’allora
presidente del consiglio, il conservatore Salandra, al ministro degli esteri
Sonnino, e a quasi tutte le formazioni politiche dai conservatori, fino ai
socialisti rivoluzionari di Benito Mussolini, convinse gli italiani con le “radiose
giornate di Maggio” ad entrare in una guerra dalle conseguenze drammatiche per
il Paese. Un Paese screditato agli occhi delle altre potenze, infatti, dopo aver flirtato con Austria e
Germania era entrato nel conflitto
affianco dell’alleanza opposta, formata da Francia Germania e Russia. Con le mire di conquista del Trentino Alto Adige, Trieste, L’Istria e la
Dalmazia, una Nazione povera, oberata
dalle tasse, militarmente debole, guidata da generali inetti, con un
esercito formato da soldati arruolati perché
cacciati delle proprie famiglie che li ritenevano stupidi o turbolenti, si avventurò in un
conflitto disastroso.
Il periodo che seguì la grande guerra aprì la strada ad
un altro famoso story teller. Benito
Mussolini, la testa d’ariete della borghesia conservatrice, dei poteri forti,
chiesa compresa, utilizzata per
annientare le lotte sociali del biennio rosso. Affabulando gli italiani con
l’espansionismo, la rottura delle reni
alla Grecia, la conquista infausta
dell’Etiopia che aveva svuotato le casse dello Stato, il duce condusse
la nazione all’ignominia delle leggi razziali, alla sanguinaria sudditanza ad Hitler, allo sfascio della seconda guerra mondiale. Ma l’abilità dello story
teller nel convincere un popolo povero,
affetto da ampie sacche di analfabetismo, a seguirlo nella follia, fu esemplare,
o forse fu la stupidità del popolo medesimo a determinare tali esiti
drammatici. Queste gesta di story teller
condannarono il paese a stenti e massacri.
Dopo le miserie della guerra,
ci furono risparmiati altri venditori di storie, forse quella generazione post
bellica, figlia della lotta partigiana, non era
facile da imbrogliare. Ma l’incantesimo, che guarda caso portò a conquiste
sociali e civili notevoli, fu interrotto dall’esemplare italiano dello story
telling thatcheriano reaganiano. Iniziò l’era di Bettino Craxi. Abbagliati
dalla sua storia del successo possibile per tutti, gli italiani si videro
derubati, del sistema di adeguamento del salario all’inflazione, assistettero all’inizio del declino
inesorabile dei diritti sul lavoro. Travolto dall’emersione della corruzione,
Craxi abdicò al suo principale sponsor politico. Silvio Berlusconi.
Un grande
story tellers. Sotto la sua illusione profusa a piene mani dalle sue televisioni, al popolo bue fu fatto credere che ogni cittadino avrebbe potuto aspirare a
diventare imprenditore miliardario, ogni
ragazza soubrette, l’importante era non farsi troppi scrupoli delle regole
condivise definite lacci e lacciuoli. Il Parlamento si bevve la storia che una
prostituta marocchina minorenne era nipote di Mubarak. Mentre impazzavano
queste leggende, veniva smantellato il sistema giudiziario, orientato alla
salvaguardia di corruttori ed evasori ,
il sistema dei diritti dei lavoratori restava ulteriormente smembrato e iniziò
l’era della privatizzazione dei profitti unita alla socializzazione delle
perdite, continuò la destrutturazione della sanità e della scuola pubblica. Sfinito
dall’età, dai guai giudiziari e dai ricatti dei suoi infimi cortigiani, lo story teller brianzolo qualche mese fa, ha
nominato il suo erede.
Con i famosi patti del Nazareno, il vecchio passava la
mano al nuovo in cambio di chissà quali guarentigie.
Eccolo Matteo Renzi il nuovo venditore di fumo. Il vate della velocità. In nome del nuovo è
bello, della rivoluzione riformista, il suddetto sta procedendo all’abolizione
del Senato, alla definizione di una legge elettorale anti democratica,
plebiscitaria, assolutamente noncurante della tutela dei diritti di
rappresentanza. Il nuovo story teller procede come un treno nel depotenziare la
partecipazione dei cittadini innalzando il numero di firme necessario per
presentare le leggi di iniziativa popolare e i referendum. Contornato dal suo
cerchio magico di rapidi efficienti e
desiderabili quarantenni, procede al definitivo smantellamento delle protezioni
sociali e alla precarizzazione del
lavoro.
Le conseguenze nefaste
degli story teller passati sono scritte nella storia, ancora ne
sopportiamo le conseguenze, e ciò che sta approntando questo nuovo affabulatore
non sembra migliore, anzi. Forse sarebbe il caso di smettere di farsi
abbindolare da chiunque racconti fandonie. Forse sarebbe il caso di cominciare
a costruirsi la propria storia tutti insieme.
giovedì 10 luglio 2014
21 palestinesi uccisi questa notte a Gaza. 79 in tre giorni.
La lista dei nomi e cognomi
The Palestinian News & Info Agency (WAFA) has reported that three Palestinians have been killed by an Israeli missile targeting their car, in the Nafaq Street, north of Gaza city. Their remains were moved to the Shifa Hospital, west of Gaza city.
Palestinian medical sources have reported that 21 Palestinians have been killed, and dozens have been injured, in Israeli strikes carried out during the hours between midnight and dawn, Thursday.
The Palestinian News & Info Agency (WAFA) has reported that three Palestinians have been killed by an Israeli missile targeting their car, in the Nafaq Street, north of Gaza city. Their remains were moved to the Shifa Hospital, west of Gaza city.
They have been identified as:
1. Salem Qandil, 27.
2. Amer al-Fayyoumi, 30.
3. Baha’ Abu al-Leil, 35.
1. Salem Qandil, 27.
2. Amer al-Fayyoumi, 30.
3. Baha’ Abu al-Leil, 35.
The Israeli air force also fired missiles into a number of homes in Sheikh Radwan area, north of Gaza, causing damage to several homes.
On Thursday at dawn, an entire family was killed by Israeli missiles west of Khan Younis city, in the southern part of the Gaza Strip.
They have been identified as:
1. Asma’ Mahmoud al-Hajj.
2. Sa’ad Mahmoud al-Hajj.
3. Najla’ Mahmoud al-Hajj.
4. Tareq Sa’ad al-Hajj.
5. Omar al-Hajj.
6. Amna al-Hajj.
2. Sa’ad Mahmoud al-Hajj.
3. Najla’ Mahmoud al-Hajj.
4. Tareq Sa’ad al-Hajj.
5. Omar al-Hajj.
6. Amna al-Hajj.
Medical sources said more Palestinians were killed in Khan Younis, but have yet to be identified, and many more injured. All were moved to Nasser Hospital in Khan Younis.
Resident Ra’ed Shalat, 30, was killed; his wife and three children were wounded, when an Israeli missile struck their home in the Nusseirat refugee camp, in central Gaza.
Israeli soldiers also fires missiles into a park at the coast in Khan Younis, killing eight Palestinians, including brothers, while watching the World Cup. At least fifteen Palestinians have been injured.
They have been identified as:
1. Ibrahim Khalil Qanan, 24.
2. Mohammad Khalil Qanan, 25.
3. Ibrahim Sawali, 33.
4. Mohammad Sawali, 33
5. Salem al-Astal, 55.
6. Mohammad al-‘Aqqad, 24.
7. Unidentified.
8. Unidentified.
2. Mohammad Khalil Qanan, 25.
3. Ibrahim Sawali, 33.
4. Mohammad Sawali, 33
5. Salem al-Astal, 55.
6. Mohammad al-‘Aqqad, 24.
7. Unidentified.
8. Unidentified.
Earlier on Thursday, the Israeli Air Force fired missiles into several buildings and homes, in Deir al-Balah, in central Gaza, Khan Younis and Gaza city,
At least 500 Palestinians have been injured since the Israeli aggression on Gaza started three days ago.
Killed Thursday 7/10:
1. Salem Qandil, 27, Gaza City.
2. Amer al-Fayyoumi, 30, Gaza City.
3. Baha’ Abu al-Leil, 35, Gaza City.
4. Asma’ Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
5. Sa’ad Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
6. Najla’ Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
7. Tareq Sa’ad al-Hajj, Khan Younis.
8. Omar al-Hajj, Khan Younis.
9. Amna al-Hajj, Khan Younis.
10. Ra’ed Shalat, 30, Nusseirat.
11. Ibrahim Khalil Qanan, 24, Khan Younis.
12. Mohammad Khalil Qanan, 25, Khan Younis.
13. Ibrahim Sawali, 33, Khan Younis.
14. Mohammad Sawali, 33, Khan Younis.
15. Salem al-Astal, 55, Khan Younis.
16. Mohammad al-‘Aqqad, 24, Khan Younis.
17. Unidentified, Khan Younis.
18. Unidentified, Khan Younis.
19. Unidentified.
20. Unidentified.
21. Unidentified.
2. Amer al-Fayyoumi, 30, Gaza City.
3. Baha’ Abu al-Leil, 35, Gaza City.
4. Asma’ Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
5. Sa’ad Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
6. Najla’ Mahmoud al-Hajj, Khan Younis.
7. Tareq Sa’ad al-Hajj, Khan Younis.
8. Omar al-Hajj, Khan Younis.
9. Amna al-Hajj, Khan Younis.
10. Ra’ed Shalat, 30, Nusseirat.
11. Ibrahim Khalil Qanan, 24, Khan Younis.
12. Mohammad Khalil Qanan, 25, Khan Younis.
13. Ibrahim Sawali, 33, Khan Younis.
14. Mohammad Sawali, 33, Khan Younis.
15. Salem al-Astal, 55, Khan Younis.
16. Mohammad al-‘Aqqad, 24, Khan Younis.
17. Unidentified, Khan Younis.
18. Unidentified, Khan Younis.
19. Unidentified.
20. Unidentified.
21. Unidentified.
Killed Wednesday 7/9:
1. Hamed Shihab, Journalist – Gaza.
2. Salmiyya al-‘Arja, 53, Rafah.
3. Nariman Abdul-Ghafour, Khan Younis.
4. Rafiq al-Kafarna, 30.
5. Nayfa Farajallah, 80.
6. Abdul-Nasser Abu Kweik, 60.
7. Khaled Abu Kweik, 31.
8. Mohammad Arif, 13.
9. Mohammad Malika, 18 months.
10. Amna Malika (Mohammad’s Mother), 27.
11. Hatem Abu Salem.
12. Mohammad Khaled an-Nimra, 22.
13. Sahar Hamdan (al-Masry), 40, Beit Hanoun.
14. Ibrahim al-Masry, 14, Beit Hanoun.
15. Amjad Hamdan, 23, Beit Hanoun.
16. Hani Saleh Hamad, 57, Beit Hanoun.
17. Ibrahim Hani Saleh Hamad, 20, Beit Hanoun.
18. Mohammad Khalaf Nawasra, 4, al-Maghazi.
19. Nidal Khalaf Nawasra, child, al-Maghazi.
20. Salah Awad Nawasra, al-Maghazi.
21. Somoud Nawasra, al-Maghazi.
22. Mahmoud Nahedh Nawasra, al-Maghazi.
23. Aisha Najm.
24. Amal Yousef Abdul-Ghafour.
25. Ranim Jouda Abdul-Ghafour.
26. Ibrahim Daoud al-Bal’aawy.
27. Abdul-Rahman Jamal az-Zamely.
28. Ibrahim Ahmad ‘Abdin.
29. Mustafa Abu Murr.
30. Khaled Abu Murr.
31. Mazin Al-Jarba.
32. Marwan Eslayyem.
33. Hatem Abu Salem, Gaza City.
34. Sami al-Arja, 65, Rafah.
2. Salmiyya al-‘Arja, 53, Rafah.
3. Nariman Abdul-Ghafour, Khan Younis.
4. Rafiq al-Kafarna, 30.
5. Nayfa Farajallah, 80.
6. Abdul-Nasser Abu Kweik, 60.
7. Khaled Abu Kweik, 31.
8. Mohammad Arif, 13.
9. Mohammad Malika, 18 months.
10. Amna Malika (Mohammad’s Mother), 27.
11. Hatem Abu Salem.
12. Mohammad Khaled an-Nimra, 22.
13. Sahar Hamdan (al-Masry), 40, Beit Hanoun.
14. Ibrahim al-Masry, 14, Beit Hanoun.
15. Amjad Hamdan, 23, Beit Hanoun.
16. Hani Saleh Hamad, 57, Beit Hanoun.
17. Ibrahim Hani Saleh Hamad, 20, Beit Hanoun.
18. Mohammad Khalaf Nawasra, 4, al-Maghazi.
19. Nidal Khalaf Nawasra, child, al-Maghazi.
20. Salah Awad Nawasra, al-Maghazi.
21. Somoud Nawasra, al-Maghazi.
22. Mahmoud Nahedh Nawasra, al-Maghazi.
23. Aisha Najm.
24. Amal Yousef Abdul-Ghafour.
25. Ranim Jouda Abdul-Ghafour.
26. Ibrahim Daoud al-Bal’aawy.
27. Abdul-Rahman Jamal az-Zamely.
28. Ibrahim Ahmad ‘Abdin.
29. Mustafa Abu Murr.
30. Khaled Abu Murr.
31. Mazin Al-Jarba.
32. Marwan Eslayyem.
33. Hatem Abu Salem, Gaza City.
34. Sami al-Arja, 65, Rafah.
Killed Tuesday 7/8:
1. Mohammad Sha’ban, 24, Gaza.
2. Amjad Sha’ban, 30, Gaza.
3. Khader al-Basheeleqety, 45, Gaza.
4. Rashad Yassin, 27, Nusseirat.
5. Mohammad Ayman ‘Ashour, 15, Khan Younis.
6. Riyadh Mohammad Kaware’, 50, Khan Younis.
7. Bakr Mohammad Joudeh, 50, Khan Younis.
8. Ammar Mohammad Joudeh, 26, Khan Younis.
9. Hussein Yousef Kaware’, 13, Khan Younis.
10. Bassem Salem Kaware’, 10, Khan Younis.
11. Mohammad Ibrahim Kaware’, 50, Khan Younis.
12. Mohammad Habib, 22, Gaza.
13. Mousa Habib, 16, Gaza.
14. Saqr ‘Aayesh al-‘Ajjoury, 22, Jabalia.
15. Ahmad Nael Mahdi, 16, Gaza.
16. Hafeth Mohammad Hamad, 26, Beit Hanoun.
17. Ibrahim Mohammad Hamad, 26, Beit Hanoun.
18. Mahdi Mohammad Hamad, 46, Beit Hanoun.
19. Fawziyya Khalil Hamad, 62, Beit Hanoun.
20. Donia Mahdi Hamad, 16, Beit Hanoun.
21. Soha Hamad, 25, Beit Hanoun.
22. Suleiman Salam Abu Sawaween, 22, Khan Younis.
23. Siraj Eyad Abdul-‘Aal, 8, Khan Younis.
24. Abdul-Hadi Soufi, 24, Rafah.
2. Amjad Sha’ban, 30, Gaza.
3. Khader al-Basheeleqety, 45, Gaza.
4. Rashad Yassin, 27, Nusseirat.
5. Mohammad Ayman ‘Ashour, 15, Khan Younis.
6. Riyadh Mohammad Kaware’, 50, Khan Younis.
7. Bakr Mohammad Joudeh, 50, Khan Younis.
8. Ammar Mohammad Joudeh, 26, Khan Younis.
9. Hussein Yousef Kaware’, 13, Khan Younis.
10. Bassem Salem Kaware’, 10, Khan Younis.
11. Mohammad Ibrahim Kaware’, 50, Khan Younis.
12. Mohammad Habib, 22, Gaza.
13. Mousa Habib, 16, Gaza.
14. Saqr ‘Aayesh al-‘Ajjoury, 22, Jabalia.
15. Ahmad Nael Mahdi, 16, Gaza.
16. Hafeth Mohammad Hamad, 26, Beit Hanoun.
17. Ibrahim Mohammad Hamad, 26, Beit Hanoun.
18. Mahdi Mohammad Hamad, 46, Beit Hanoun.
19. Fawziyya Khalil Hamad, 62, Beit Hanoun.
20. Donia Mahdi Hamad, 16, Beit Hanoun.
21. Soha Hamad, 25, Beit Hanoun.
22. Suleiman Salam Abu Sawaween, 22, Khan Younis.
23. Siraj Eyad Abdul-‘Aal, 8, Khan Younis.
24. Abdul-Hadi Soufi, 24, Rafah.
mercoledì 9 luglio 2014
AFFOLLATISSIMA ASSEMBLEA DELLA SCUOLA
Assemblea delle scuole
Assemblea delle scuole
L'Assemblea
delle scuole che si è svolta l'8 luglio presso l'Associazione “il
cielo sopra l'Esquilino” su proposta del Coordinamento Scuole Roma e dei
Lavoratori Autoconvocati, ha visto la partecipazione di moltissimi lavoratori e
lavoratrici e di alcuni genitori nonostante il periodo non favorevole e una
convocazione fatta in pochi giorni.
Oggetto dell'Assemblea erano le
proposte del governo Renzi: aumento sino a 36 ore dell'orario di lavoro per i
docenti; apertura delle scuole fino alle 22; eliminazione dell'ultimo anno
della scuola secondaria superiore; abolizione delle graduatorie di Istituto.
Le proposte del governo sulla
scuola, seppur ancora abbozzate, sono state quindi oggetto del dibattito e i 25
interventi le hanno concordemente giudicate come estremamente pericolose perché
indirizzate ad un preciso scopo: dividere il mondo della scuola mettendo in
conflitto docenti di ruolo malpagati e docenti precari, personale della scuola
e famiglie, e così via.
Si sono ribaditi i seguenti
punti:
Difesa del Contratto Collettivo
Nazionale di Lavoro di fronte al tentativo di emanare modifiche di orario,
competenze, retribuzioni per via legislativa;
Difesa della qualità del lavoro
docente contro ogni pretesa di orari incompatibili con una seria offerta
formativa;
Convinzione che la proposta
educativa delle scuole passa in primo luogo attraverso i suoi organi di
democrazia incompatibili con gestioni autoritarie di molti Dirigenti
Scolastici.
In merito all'apertura delle
scuole per un maggior numero di ore l'Assemblea ribadisce la propria
convinzione dell'importanza di una scuola aperta al territorio, ma denuncia la
demagogia delle proposte del governo visto che finora a tagliare il tempo
scuola (Tempo Pieno, Moduli, Materie, ecc) è stato proprio il Ministero. Una
proposta seria si dovrebbe basare in primo luogo su un aumento di personale.
In conclusione l'Assemblea
all'unanimità invita a partecipare a tutte le iniziative che verranno
indette contro le misure a partire da questi due primi appuntamenti:
- seminario organizzato dai lavoratori autoconvocati della scuola il 13 luglio dalle ore 9 al Cielo sopra l’Esquilino via Galilei 57.
- Assemblea nazionale Unicobas del 14 luglio alle ore 15,30 sotto al Ministero della pubblica istruzione.
CONVOCA
un sit-in a Montecitorio per il giorno 15 luglio alle
ore 9.00
Invita
tutte/i a dare la massima diffusione a questa iniziativa per dare una prima
visibilità al dissenso diffuso del mondo della scuola.
martedì 8 luglio 2014
Siti inquinati e bonifiche. "Chi ha avut' ha avut' chi ha dat' ha dat' scurdammc'o passat' con il Decreto “Inquinatore_protetto”.
Stop Biocidio Lazio e Abruzzo
Coordinamento Nazionale Siti Contaminati
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Non basta il caso dei poligoni equiparati ad aree industriali, il Decreto 91/2014 nasconde una sorpresa ancora più amara per le aree inquinate, da Taranto a Crotone, dal Sulcis a Bussi, da Falconara a Mantova, da Trieste alla Valle del Sacco ed altri migliaia di siti.
Comitati e movimenti: altro che semplificazione, si tratta della completa privatizzazione delle bonifiche e della salute delle persone. Appello ai Parlamentari: superare le criticità in sede di conversione in legge.
Il recente Decreto 91/2014 pubblicato il 25 giugno sulla Gazzetta Ufficiale, sarà ricordato come una delle più lucide operazioni di rimozione “sulla carta” dei problemi di contaminazione dei siti inquinati. Più che un decreto “Ambiente protetto”, come è stato incautamente definito dal Ministro, una norma “Inquinatore-protetto”.
Partito, secondo le dichiarazioni del Ministro Galletti, con il positivo intento di semplificare le farraginose procedure delineate dal Testo Unico dell'Ambiente (D.lgs.152/2006) si è trasformato in un vero e proprio invito a nascondere la polvere inquinata sotto il tappeto. Dopo il caso dei poligoni militari trasformati in aree industriali per alzare i limiti di legge per la contaminazione dei suoli, il Decreto contiene una norma ancora più grave che riguarda tutti i siti inquinati italiani, anche quelli ancora da scoprire.
In un paese dove le notizie sulla corruzione nel mondo dei rifiuti e delle bonifiche sono all'ordine del giorno, si demanda tutto al privato in un vero e proprio far west dove a rimetterci sono solo le comunità che vivono nelle migliaia di luoghi inquinati del paese.
La norma prevede che il primo passo sia fatto dall'inquinatore (o dal proprietario dell'area inquinata), che presenta direttamente un progetto di bonifica autocertificando la veridicità dei dati della contaminazione, senza alcun controllo, anche a campione, da parte dell'ente pubblico.
In questa fase emerge un primo problema: come farà l'ente pubblico a verificare l'esatta estensione della contaminazione, visto che è lecito attendersi dai privati una sottovalutazione del reale stato di inquinamento? Ad esempio: si seguirà tutto il corso di un fiume per scoprire l'area esatta interessata dall'inquinamento partito da una fabbrica posta a monte?.
A quel punto la procedura prevede una rapida approvazione da parte dell'ente pubblico del progetto di bonifica (90 giorni; ricordiamo che il Ministero dell'Ambiente per i Siti nazionali di Bonifica convoca le conferenze dei servizi se va bene con una media di una l'anno per sito!).
Approvato il progetto, il privato realizza la bonifica. Solo a quel punto presenta un programma di analisi (il cosiddetto Piano di caratterizzazione) delle aree su cui si è intanto intervenuti. Il Piano deve essere esaminato, prima della sua realizzazione, dagli enti pubblici in 45 giorni e vale il silenzio-assenso!
Qui si pone un secondo problema. Dice un detto “chi cerca, trova, chi non cerca, non trova”. Le sostanze tossiche sono centinaia e attualmente ci sono dei criteri minimi per cercare un certo numero di queste sostanze sulla base delle lavorazioni che hanno interessato il sito. Questo decreto invece da la massima libertà ai privati di scegliere quali sostanze cercare. Considerando che i costi di analisi e bonifiche sono strettamente collegati al tipo di sostanze, ci si può aspettare che i privati provino a presentare piani di caratterizzazione minimali con pochissime sostanze. Poiché queste scelte spostano decine di milioni di euro, si potrà immaginare la pressione per far decorrere inutilmente quei 45 giorni in modo tale da avere il silenzio-assenso, sollevando anche gli enti da qualsiasi responsabilità in caso di mancata risposta.
A questo punto si fanno le analisi vere e proprie per vedere se la bonifica è stata efficace e, finalmente, si prevedono le contro-analisi da parte dell'ARPA locale. Ma su cosa? Ovviamente solo sui parametri indicati dal privato! Inoltre attualmente le ARPA fanno le contro-analisi solo sul 10% dei campioni. Insomma, ci sarà un'altissima probabilità di avere bonifiche solo sulla carta.
La caratterizzazione a valle e non a monte porta con sé altri gravissimi problemi di carattere ambientale, sanitario e giudiziario. Infatti oggi la caratterizzazione realizzata dal privato in contraddittorio con gli enti fin dall'inizio della procedura permette di valutare l'esatta estensione della contaminazione, mentre con questo decreto il privato potrà presentare un progetto solo su piccole aree o, almeno, ci proverà. Sarà compito dell'ente pubblico in pochissimi giorni e su aree estremamente complesse, in cui di solito ci vogliono anni per capire bene la reale estensione della contaminazione, valutare se possono esistere altre aree limitrofe potenzialmente inquinate, senza avere strumenti reali per fare ipotesi in tal senso (ad esempio, l'accesso e la consultazione degli archivi sulle produzioni).
Dal punto di vista sanitario e giudiziario si perde la sicurezza sul reale stato di contaminazione a cui sono stati esposti magari per decenni i cittadini. La popolazione che vive in un'area inquinata (ma anche i ricercatori che devono valutare l'esposizione ad inquinanti e le eventuali conseguenze) dovranno basarsi sui dati dei privati per capire se sono stati esposti a pericoli per la salute!
Si arriva al paradosso che se un cittadino volesse chiedere i danni sanitari al privato inquinatore dovrebbe basarsi sui dati presentati proprio da chi ha devastato l'ambiente rendendolo pericoloso!Una volta avvenuta la bonifica faranno fede solo i dati dei privati, per carità, “autocertificati”. Ma viene spontaneo chiedersi: quale privato, quale multinazionale autocertificherà mai l'esistenza di uno stato di inquinamento per il quale potrebbe essere chiamata a rispondere per danni nelle aule dei tribunali?
Tra l'altro è incredibile che non vi sia alcun accenno ai doveri di trasparenza e pubblicazione di progetti e dati integrali, nonché della partecipazione dei cittadini ai procedimenti.
Singolare, infine, il fatto che la norma abbia la scadenza, il 2017, come se si trattasse di uno yogurt!
Questa previsione è però rivelatrice del reale intento del Governo. Sulle bonifiche appare evidente la volontà di mettere definitivamente sotto il tappeto le scorie di un passato in cui il sistema industriale italiano programmaticamente cercava di stare sul mercato sotterrando i rifiuti per non pagarne i costi. Ora che la realtà sta venendo a galla con manifestazioni e lutti, lo stesso sistema industriale chiede di non pagare i danni miliardari secondo il principio “Chi inquina paga”.
Per queste ragioni chiediamo ai parlamentari di intervenire in sede di conversione in legge del decreto al fine di superare le criticità che evidenziamo:
-sulla trasparenza e informazione dei cittadini durante il procedimento;
-sulla definizione di criteri minimi rispetto ai dati di partenza necessari per redigere il progetto di bonifica e il piano di caratterizzazione;
-sulla certificazione a campione di questi dati di contaminazione di partenza da parte delle agenzie regionali;
-sulla modifica del criterio del silenzio/assenso per l'approvazione dei piani di caratterizzazione.
Ciò che chiediamo, invece, al Governo è un Piano generale per la bonifiche, che preveda innanzitutto un potenziamento ed una riqualificazione delle strutture di indagine ambientale e di controllo (ISPRA e agenzie locali con organici adeguati e resi indipendenti dalla politica), un finanziamento consistente per i cosiddetti “siti orfani” a causa del fallimento delle imprese inquinatrici, un rafforzamento degli strumenti giuridici ed amministrativi per applicare con efficacia il principio “chi inquina paga” ed, infine, un sistema trasparente di informazione dei cittadini interessati che dia conto di tutti i dati.
Solo in questo contesto potrebbe giustificarsi un intervento per semplificare le procedure, intervento che così come configurato ad oggi nel Decreto 91/2014 si tradurrebbe in una potenziale sanatoria regalata agli inquinatori.
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