Chi dirige decide perché conosce e giudica. Conosce?
Quando mi domandano gli amici com’è la mia scuola, se la consiglio per i loro figli, non so mai bene come rispondere. Dipende molto dagli insegnanti e cosa so esattamente dei miei colleghi?
Le relazioni con gli adolescenti non sono la stessa cosa di un discorso in consiglio o in collegio.
Nemmeno conta solo quanto sai delle tue discipline, conta quanto ami quello che sai, e sai farlo amare.
Quanto ti piace tutta la situazione, il set della classe.
E non è che le storie siano tutte uguali e piane. Sono storie, appunto.
Io entro in quinta sereno. Li conosco da cinque anni.
Si scherza, qualche battuta mentre il tablet ci mette una vita a registrare i presenti.
Tra i messaggi di saluto degli studenti anni fa uno mi fece molto piacere. Diceva io la ringrazio per quanto mi ha fatto ridere. È un po’ stupido, ma mi sono sentito così orgoglioso. Chissà se lo posso mettere nel curriculum.
Adesso siamo ad aprile, l’esame si avvicina, cresce l’ansia eppure anche una certa sensazione di libertà dalle scadenze ravvicinate. Conta come ci si presenta a giugno, in fondo. E comunque si sta bene. Loro seguono, domandano. Mi sembra che siamo complici di qualcosa di bello ed è come se fossimo già un po’ fuori dell’istituzione scolastica. Nella vita, diciamo, anche se asimmetricamente: io con molta roba alle spalle, loro davanti. Una mi fa leggere la poesia che le ha scritto un ragazzo, mi chiede che vuol dire: mi ama o no. Dice che ha scoperto Baudelaire, la foresta di simboli, le si è aperto un mondo, ma complicato.
Quando si fa storia e letteratura ci sono domande e prendono appunti – probabilmente pensano di sostituirli allo studio del manuale. Ma in ogni caso mi sembra che le cose vadano bene. Ci fosse qualcuno a vedere – immagino ogni tanto – sarei tranquillo. Mi farebbe quasi piacere.
In prima ce l’ho qualcuno che vede: c’è l’insegnante di sostegno.
E non mi fa piacere. Mi sembra di essere un disastro.
Quando entro c’è di tutto per terra e già mi girano. Tutte le volte faccio pulire e mi accorgo che a loro va benissimo: perdono un sacco di tempo con la scopa e la cassetta.
Si respira nell’aria un misto pessimo di apatia e arroganza. Le cose da scrivere non sono state scritte, l’ascolto di quello che dico è una richiesta pressoché assurda – il braccio sdraiato sul banco, la testa appoggiata mollemente. Il gruppetto cinese vive a parte, con i suoi cellulari. Non sono stato capace di inventarmi nulla per farli partecipare a qualcosa. Dopo anni in Italia, non parlano, quando scrivono usano il traduttore di Google e non si capisce niente – però arrivano parole raffinatissime. Mi sento in colpa e questo non aiuta, anzi aggrava il mio giramento. Degli altri, c’è chi ha dimenticato il quaderno, chi ha il quaderno ma alcuni testi “mancano” (non si sa come mai, destino), uno ha scritto sul foglio protocollo e adesso non ce l’ha perché Lei ha detto di portare i quaderni, profe.
Chi ha sbagliato materia, chi ha sbagliato giorno, chi ha sbagliato scuola. Città, mondo.
Chi ha un conflitto permanente con gli adulti e forse la vita stessa.
Qualche volta riesco a mantenere la pazienza e sono capace di spostarmi da quella situazione. Il più delle volte cado nel conflitto rabbioso e faccio banalmente parte della scena. Muro contro muro.
Loro mi restituiscono il peggio di se stessi, io pure do il peggio di me.
Tipo pagherete caro pagherete tutto. La collega che mi guarda mi mette ancora più in crisi.
Racconto questi disastri al consiglio e alla preside, la conosco da una vita e non ci sono problemi. Ma lavalutazione qui è un racconto. Una cosa narrativa. Si può stilare una classifica delle storie, una classificazione del mio lavoro, già incasinato di suo, e una graduatoria fra le storie degli insegnanti? Per di più al fine di mettere qualcuno sul podio e qualcun altro nella polvere…
La lettura del disegno di legge Renzi sulla scuola mi ha lasciato di stucco.
La prosa de La Buona Scuola era in puro format seduttivo renziano.
Anglicismi vari, promozione del prodotto, made in Italy, appello all’entusiasmo giovanile da conquistare all’azienda 2.0. Qui si torna alla prosa ministeriale. Si sarebbe tentati si dire di classica buropedagogia, ma in realtà di pedagogia c’è poco. C’è organizzazione.
Certo, una riforma questo deve fare, occuparsi del contenitore. Ma per creare le condizioni di, predisporre gli strumenti per. La qualità di processi che sono viventi, non meccanici e burocratici. E dunque occorrerebbe avere un’idea della scuola da organizzare. Un’idea del sapere, del modo e dello spazio in cui si costruisce. Delle relazioni che lo attraversano e della cura che richiedono.
Un formatore aziendale una volta ha spiegato che si dovrebbe insegnare a pensare con la propria testa, efarne venire il desiderio.
Qualcosa del genere farebbe bene a tutta la scuola: essere davvero autonoma, pensarsi e riconoscersi come luogo di ricerca e libertà. Ma bisogna dare voce e spazio, ricostruire un po’ di fiducia, un po’ di desiderio.
E invece non pare proprio.
Piano triennale di offerta formativa dai dirigenti delle scuole autonome.
Albo regionale degli insegnanti neo assunti o in mobilità.
Chiamata diretta del dirigente sui posti triennali.
Premio di merito agli insegnanti migliori. Un mare di scuola-lavoro nei trienni.
Naturalmente finanziamento delle scuole paritarie, visto che la qualità pubblica dello spazio in cui si apprende non si vede proprio.
Solo strutture para-aziendali che si misurano sui risultati raggiunti.
Con la chiamata diretta tutti i docenti diventano fiduciari del preside in un rapporto di lavoro non dipendente, subordinato. Sono la squadra del capo. Così anche la libertà di insegnamento scompare. Alla fine si ricostruisce l’unità del mondo del lavoro, dalle fabbriche alle scuole, ma nella cancellazione della democrazia, dei diritti e della dignità personale.
Tutto il potere al dirigente e al suo cerchio magico. Si dice, è un sistema per sveltire le decisioni. Non perdere tempo in oziose discussioni.
Mi sa che è una vera ossessione di Renzi. Il capo che decide. Che non permette di perdersi in tanti discorsi. Perché la collegialità, i collegi docenti – così come i parlamenti – sono inconcludenti e noiosi con i loro conflitti. La democrazia, che palle.
Ma è buffa questa storia dei collegi docenti che discutono all’infinito.
Perché che non decidono gran che è vero, dato che le decisioni significative non passano proprio dagli organi collegiali. Arrivano. Cominci a parlarne e ci sono già, definitive. Nei collegi, immersi in una depressione alimentata di rabbia impotente, la grande paura è che una discussione si apra. Che inizi qualcosa che può ritardare la chiusura, la liberazione.
C’è una bizzarra democrazia del voto, modello parlamento renziano: tu parli e dopo poco qualcuno alza la mano per dire, Si vota? Quando si vota?Non la tiriamo per le lunghe, l’importante è finire…
Come se per degli insegnanti fossero solo una perdita di tempo le parole. Come se una comunità intellettuale, e anche affettiva, non crescesse anche nello stile con cui si confronta, si racconta, argomenta. Va be’, non sono più i tempi.
E tuttavia la cosa più sorprendente del DDL è la storia della mobilità.
Della ex mobilità. Forse troppo stupida per essere vera.
Chiaro che per gli insegnanti neoassunti non c’è più il posto fisso a tempo indeterminato.
Che pretendono, entrano in ruolo, faranno quello che gli dicono di fare. Per quelli più vecchi, privilegiati, sembra di capire che il posto resta a condizione che non ti azzardi a chiedere trasferimenti, perché allora entri nel calderone dal quale chiamano i capi.
Ti danno l’incarico per tre anni, chissà dove, poi devi rinnovare il contratto o farti richiedere da qualche altra squadra del campionato regionale.
A regime tutte e tutti saranno nelle condizioni di una garantita precarietà.
In certe parti d’Italia verranno fuori scelte un po’ strane, che qualche intellettuale chiamerà clientelari o familistiche, ma tutto sommato avranno una qualche legittimità: se devi scegliere e assumerne la responsabilità che fai, ti fidi di quello che c’è nel curriculum o di una/o che conosci personalmente?
Ma mi domando che succede a quelli che non vengono chiamati, quelli non di prima scelta. Mica tornano a casa mogi, anche oggi non si lavora. Andranno nelle scuole più sfigate probabilmente.
Cioè dove ci sarebbe bisogno dei docenti bravi, più motivati eccetera.
Sembra quando si giocava a calcio al campetto, da ragazzi. Si faceva pari o dispari e poi i due capi squadra sceglievano. Prima i più forti, poi alla fine i ciccioni e gli imbranati. Adesso quali saranno i dirigenti che scelgono per primi non lo so.
Né che succede se tutti vogliono il campione.
Comunque la partita finiva ogni tanto quando il proprietario del pallone decideva di andare via.
Ma non mi pare dicesse sempre, Tanto ho vinto io, fatevene una ragione.