John Coltrane, affermava che: “ La musica (il jazz) rispecchia quello
che accade….esprime tutta l’esperienza umana nel momento stesso in cui è
vissuta” L’esperienza umana del giovane,
nuovo Stato americano è stata, nel
secolo breve, così complessa,
tumultuosa, incalzante, sotto la spinta di nuovi e sempre più mutanti
avvenimenti , che il jazz non avrebbe potuto, anche volendolo, non esserne
profondamente condizionato. E i musicisti protagonisti di questa musica, nata dalla
più grande contaminazione fra culture musicali, non potevano che essere i
più fedeli narratori di una storia fatta di repressioni, rivolte, sconfitte, vittorie, pulsioni vitali appunto. Pulsioni
i che saranno oggetto di un percorso strutturato
in quattro appuntamenti: venerdì 31
maggio, venerdì 7 giugno , venerdì 14 giugno e venerdì 21 giugno a partire
dalle ore 18,00. Negli incontri condivideremo
con chi vorrà entrare in sintonia con noi
le suggestioni di un racconto narrato da musicisti straordinari e coraggiosi.
Le rovine
"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"
Buenaventura Durruti
sabato 11 maggio 2019
Storia in jazz
Luciano Granieri
Regionalizzazione dell’istruzione e altre nefandezze
Fabiana Stefanoni
Con Bussetti la “Buona scuola” rimane… e peggiora!
(1) Ricordiamo che il ministro dell’Istruzione Bussetti ha partecipato al Congresso mondiale della famiglia di Verona insieme con l’ultra-destra reazionaria e bigotta.
Con Bussetti la “Buona scuola” rimane… e peggiora!
Fabiana Stefanoni
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile le burocrazie di Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno deciso di revocare lo sciopero della scuola del 17 maggio dopo aver firmato un accordo con il governo Conte: una decisione vergognosa, tanto più che l’accordo prevede solo vaghi e generici impegni del governo ad aumentare gli stipendi degli insegnanti (per ora non sono previste coperture economiche) e a “salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale d’istruzione”. Il principale tema all’ordine del giorno dello sciopero era – e resta, visto che lo sciopero è ancora in campo per decisione dei sindacati di base - l’opposizione ai piani di regionalizzazione dell’istruzione di cui si sta discutendo in Parlamento. Il nuovo governo “giallo-verde”, esattamente come quelli che lo hanno preceduto, sta accelerando sul terreno della privatizzazione dell’istruzione pubblica: la regionalizzazione rientra in questo processo.
Promesse elettorali tradite
Ci sono due nomi che restano ben stampati nella memoria delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola (e degli studenti): “riforma” Gelmini (governo Berlusconi) e “Buona scuola” (governo Renzi). La Gelmini, ministro dell’Istruzione del quarto governo Berlusconi (2008-2011), ha dato il nome a uno dei più pesanti attacchi all’istruzione pubblica degli ultimi decenni: 8 miliardi di tagli, con ridimensionamento degli insegnamenti (dalla primaria alle scuole superiori) e conseguenti licenziamenti di massa di personale precario. La “Buona scuola” (Legge 107 del 2015) porta invece il nome della ministra dell’Istruzione Giannini, ma è stata soprattutto uno dei cavalli di battaglia dell’allora premier Matteo Renzi: è una “riforma”, se così si può chiamare, che ha drasticamente accelerato i processi di aziendalizzazione della scuola pubblica, con ricadute pesanti sulla didattica e sulle condizioni di lavoro del personale docente e non docente (l’alternanza scuola-lavoro, tanto voluta da Confindustria, ne è l’emblema).
Ora, un altro nome rischia di imprimersi per sempre nei ricordi degli insegnanti e degli studenti: quello del ministro leghista Bussetti. Dopo aver cavalcato il malcontento dei lavoratori della scuola in campagna elettorale, Lega e M5S hanno fatto tutto il contrario di quello che avevano promesso. Avevano espresso appoggio alla lotta delle maestre diplomate contro il licenziamento di massa (150 mila posti a rischio) garantendo che avrebbero salvato i loro posti di lavoro. Una volta al governo, hanno sancito la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato, organizzando un concorso-truffa che, nella migliore delle ipotesi, stravolgerà le vite di decine di migliaia di maestre: un concorso su base regionale col quale verranno stilate nuove graduatorie di precari. Solo una piccola parte di chi partecipa al concorso potrà sperare di essere, un giorno, assunto in ruolo: sono in ballo 12 mila posti, ma gli aspiranti sono cinque volte tanto. Tra l’altro, anche “i fortunati” che riusciranno ad avere un posto, saranno probabilmente costretti ad accettare un lavoro a centinaia di km da casa senza nessuna possibilità di trasferirsi per tre anni (ricordiamo che la maggioranza di queste maestre ha una media di 40 anni, tante di loro sono madri con bimbi piccoli: alla faccia della retorica sulla “famiglia” di cui si sciacqua la bocca il ministro Bussetti!). (1)
In secondo luogo, in campagna elettorale avevano promesso l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, che tanto ha pesato, in questi anni, sulle vite di centinaia di migliaia di studenti (costretti a lavorare gratuitamente in azienda, con rischi per la sicurezza personale), degli insegnanti (che hanno visto un aumento del carico di lavoro a parità di stipendio), oltre che sulla qualità della didattica (chi riesce più a portare a compimento i programmi di storia o di matematica con tutte quelle ore di alternanza?). Anche questa promessa è stata disattesa: l’alternanza scuola-lavoro non è stata abolita ma solo, parzialmente, ridimensionata, con la possibilità per le scuole di continuare a svolgerla esattamente come prima. Gli industriali chiedono ai dirigenti scolastici di mantenere lo stesso monte ore: Federmeccanica, come strombazza sulle prime pagine il Sole24ore, ha lanciato una petizione a sostegno dell’alternanza scuola-lavoro (“Più alternanza. Più formazione” il titolo della petizione). C’è da immaginarsi che questo appello non resterà inascoltato: saranno molti i dirigenti che cercheranno di mantenere invariato (o comunque di ridurre solo in minima parte) il numero delle ore di alternanza. Le recenti modifiche alla normativa scolastica lo consentono. Come garantiva il ministro Bussetti in un’intervista a Il Giornodel 24/11/2018, “nessun passo indietro e nessuna intenzione di abolirla (…) puntiamo a rilanciarla”: l’alternanza resta, cambia solo nome (“Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”) e sarà articolata diversamente scuola per scuola (sappiamo bene, per esperienza, che tutto, alla fine, dipenderà dalle pressioni delle aziende e delle industrie locali).
Infine, se in campagna elettorale avevano promesso il tempo pieno e tuonato contro la “Buona scuola”, una cosa finora è certa: il tempo pieno non è stato potenziato e l’impianto della “Buona scuola” resta e, per certi versi, si aggrava: nessuna messa in discussione dei super-poteri dei dirigenti scolastici (che hanno, anzi, ricevuto un cospicuo aumento stipendiale di più di 500 euro al mese!) né dell’organizzazione del personale secondo modalità aziendali (staff, pochi premi per pochi “meritevoli”, ecc).
Ora, un altro nome rischia di imprimersi per sempre nei ricordi degli insegnanti e degli studenti: quello del ministro leghista Bussetti. Dopo aver cavalcato il malcontento dei lavoratori della scuola in campagna elettorale, Lega e M5S hanno fatto tutto il contrario di quello che avevano promesso. Avevano espresso appoggio alla lotta delle maestre diplomate contro il licenziamento di massa (150 mila posti a rischio) garantendo che avrebbero salvato i loro posti di lavoro. Una volta al governo, hanno sancito la trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in contratti a tempo determinato, organizzando un concorso-truffa che, nella migliore delle ipotesi, stravolgerà le vite di decine di migliaia di maestre: un concorso su base regionale col quale verranno stilate nuove graduatorie di precari. Solo una piccola parte di chi partecipa al concorso potrà sperare di essere, un giorno, assunto in ruolo: sono in ballo 12 mila posti, ma gli aspiranti sono cinque volte tanto. Tra l’altro, anche “i fortunati” che riusciranno ad avere un posto, saranno probabilmente costretti ad accettare un lavoro a centinaia di km da casa senza nessuna possibilità di trasferirsi per tre anni (ricordiamo che la maggioranza di queste maestre ha una media di 40 anni, tante di loro sono madri con bimbi piccoli: alla faccia della retorica sulla “famiglia” di cui si sciacqua la bocca il ministro Bussetti!). (1)
In secondo luogo, in campagna elettorale avevano promesso l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, che tanto ha pesato, in questi anni, sulle vite di centinaia di migliaia di studenti (costretti a lavorare gratuitamente in azienda, con rischi per la sicurezza personale), degli insegnanti (che hanno visto un aumento del carico di lavoro a parità di stipendio), oltre che sulla qualità della didattica (chi riesce più a portare a compimento i programmi di storia o di matematica con tutte quelle ore di alternanza?). Anche questa promessa è stata disattesa: l’alternanza scuola-lavoro non è stata abolita ma solo, parzialmente, ridimensionata, con la possibilità per le scuole di continuare a svolgerla esattamente come prima. Gli industriali chiedono ai dirigenti scolastici di mantenere lo stesso monte ore: Federmeccanica, come strombazza sulle prime pagine il Sole24ore, ha lanciato una petizione a sostegno dell’alternanza scuola-lavoro (“Più alternanza. Più formazione” il titolo della petizione). C’è da immaginarsi che questo appello non resterà inascoltato: saranno molti i dirigenti che cercheranno di mantenere invariato (o comunque di ridurre solo in minima parte) il numero delle ore di alternanza. Le recenti modifiche alla normativa scolastica lo consentono. Come garantiva il ministro Bussetti in un’intervista a Il Giornodel 24/11/2018, “nessun passo indietro e nessuna intenzione di abolirla (…) puntiamo a rilanciarla”: l’alternanza resta, cambia solo nome (“Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”) e sarà articolata diversamente scuola per scuola (sappiamo bene, per esperienza, che tutto, alla fine, dipenderà dalle pressioni delle aziende e delle industrie locali).
Infine, se in campagna elettorale avevano promesso il tempo pieno e tuonato contro la “Buona scuola”, una cosa finora è certa: il tempo pieno non è stato potenziato e l’impianto della “Buona scuola” resta e, per certi versi, si aggrava: nessuna messa in discussione dei super-poteri dei dirigenti scolastici (che hanno, anzi, ricevuto un cospicuo aumento stipendiale di più di 500 euro al mese!) né dell’organizzazione del personale secondo modalità aziendali (staff, pochi premi per pochi “meritevoli”, ecc).
Regionalizzazione: la ciliegina sulla torta
Oggi è in corso un nuovo, pesante attacco alla scuola pubblica. Su pressione delle Regioni più ricche del Nord – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – governo e Parlamento stanno procedendo spediti con l’accelerazione dell’autonomia regionale in materia di istruzione (“Autonomia differenziata”). Lo scopo è quello di rendere possibili percorsi educativi, modalità di reclutamento del personale, sistemi di valutazione e retribuzione del personale differenti da regione a regione. E’ chiaro che si viene incontro, ancora una volta, all’esigenza di azionisti e industriali: quanta più autonomia avrà l’istruzione a livello territoriale, tanto maggiori saranno le opportunità per i capitalisti di condizionarla a loro piacimento. Se in una regione si avrà interesse a potenziare le ore di alternanza per venire incontro alle richieste dell’industria meccanica, non si dovrà aspettare una legislazione nazionale: basterà imporre a livello regionale un aumento delle ore di alternanza (comunque esse si chiamino), magari a scapito degli “inutili” programmi delle singole materie. Gli insegnanti potranno avere carichi di lavoro e trattamenti economici differenti da regione a regione e si potrà persino valutare di finanziare ulteriormente le scuole private (come se non godessero già di abbondanti risorse pubbliche!). Le più penalizzate saranno le scuole del sud: la regionalizzazione diventerà il pretesto per ridurre ulteriormente i finanziamenti statali e a rimetterci saranno anzitutto gli istituti delle zone più povere e meno industrializzate del Paese.
Nell’intesa firmata dai sindacati col governo non esiste nessuna messa in discussione né ritiro dei progetti di “Autonomia differenziata”, né è previsto il ritiro dei progetti presentati da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna: ci si limita a dire che il contratto nazionale non verrà (per ora) smantellato (grazie tante…) e che il sistema di reclutamento sarà “uniforme” sul territorio nazionale (uniforme è diverso da unico).
Non ci stupisce che le direzioni di Cgil, Cisl, Uil e compagnia abbiano alla fine deciso di rinunciare persino alla battaglia contro il progetto di regionalizzazione. E’ bene ricordare, infatti, che tale progetto non nasce, originariamente, da un’idea dei “sovranisti” ora al governo. E’ stato per la prima volta presentato nel 2017 e ha avuto ufficialmente il via nel febbraio 2018 con la firma di accordi preliminari tra le Regioni e il governo allora in carica (Gentiloni). Nelle stesse settimane, mentre cresceva nelle scuole la mobilitazione delle maestre diplomate e si discuteva del rinnovo contrattuale, le burocrazie di Cgil, Cisl e Uil (poi seguite da Snals e Gilda) hanno firmato un vergognoso rinnovo contrattuale (senza nemmeno un’ora di sciopero!) accettando tutto l’impianto della “Buona scuola” con anche qualche aspetto peggiorativo (blocchi dei trasferimenti, inasprimento del codice disciplinare, ecc), in cambio di un risibile aumento stipendiale di meno di 40 euro al mese.
Gli effetti di quella decisione nefasta sono oggi sotto gli occhi di tutti nella scuola: la lotta delle maestre non ha potuto saldarsi con quella degli altri lavoratori della scuola per il rinnovo contrattuale ed è rimasta isolata e debole; il personale della scuola continua a ricevere stipendi molto bassi (tra i più bassi d’Europa); i processi di regionalizzazione sono proseguiti indisturbati, prima all’ombra del governo Gentiloni e ora del governo Conte.
La giornata del 17 maggio deve restare una giornata di sciopero e mobilitazione del mondo della scuola: le sigle del sindacalismo di base hanno deciso di mantenere lo sciopero; settori di base della Cgil, insieme con diverse associazioni di lavoratori della scuola, hanno fatto appello ai sindacati ad annullare l’intesa col governo e a confermare lo sciopero.
La scuola pubblica si difende solo costruendo un ampio movimento di lotta, che veda uniti lavoratori della scuola, degli altri settori del pubblico impiego e dei servizi, operai, studenti. Abbiamo tutti un nemico comune: il governo e i padroni che vogliono smantellare l’istruzione statale per finanziare i privati e le banche. Le burocrazie hanno già dato prova di stare dall’altra parte della barricata: tutto sta, ora, nella nostra capacità di costruire una mobilitazione al di fuori del loro controllo.
Nell’intesa firmata dai sindacati col governo non esiste nessuna messa in discussione né ritiro dei progetti di “Autonomia differenziata”, né è previsto il ritiro dei progetti presentati da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna: ci si limita a dire che il contratto nazionale non verrà (per ora) smantellato (grazie tante…) e che il sistema di reclutamento sarà “uniforme” sul territorio nazionale (uniforme è diverso da unico).
Non ci stupisce che le direzioni di Cgil, Cisl, Uil e compagnia abbiano alla fine deciso di rinunciare persino alla battaglia contro il progetto di regionalizzazione. E’ bene ricordare, infatti, che tale progetto non nasce, originariamente, da un’idea dei “sovranisti” ora al governo. E’ stato per la prima volta presentato nel 2017 e ha avuto ufficialmente il via nel febbraio 2018 con la firma di accordi preliminari tra le Regioni e il governo allora in carica (Gentiloni). Nelle stesse settimane, mentre cresceva nelle scuole la mobilitazione delle maestre diplomate e si discuteva del rinnovo contrattuale, le burocrazie di Cgil, Cisl e Uil (poi seguite da Snals e Gilda) hanno firmato un vergognoso rinnovo contrattuale (senza nemmeno un’ora di sciopero!) accettando tutto l’impianto della “Buona scuola” con anche qualche aspetto peggiorativo (blocchi dei trasferimenti, inasprimento del codice disciplinare, ecc), in cambio di un risibile aumento stipendiale di meno di 40 euro al mese.
Gli effetti di quella decisione nefasta sono oggi sotto gli occhi di tutti nella scuola: la lotta delle maestre non ha potuto saldarsi con quella degli altri lavoratori della scuola per il rinnovo contrattuale ed è rimasta isolata e debole; il personale della scuola continua a ricevere stipendi molto bassi (tra i più bassi d’Europa); i processi di regionalizzazione sono proseguiti indisturbati, prima all’ombra del governo Gentiloni e ora del governo Conte.
La giornata del 17 maggio deve restare una giornata di sciopero e mobilitazione del mondo della scuola: le sigle del sindacalismo di base hanno deciso di mantenere lo sciopero; settori di base della Cgil, insieme con diverse associazioni di lavoratori della scuola, hanno fatto appello ai sindacati ad annullare l’intesa col governo e a confermare lo sciopero.
La scuola pubblica si difende solo costruendo un ampio movimento di lotta, che veda uniti lavoratori della scuola, degli altri settori del pubblico impiego e dei servizi, operai, studenti. Abbiamo tutti un nemico comune: il governo e i padroni che vogliono smantellare l’istruzione statale per finanziare i privati e le banche. Le burocrazie hanno già dato prova di stare dall’altra parte della barricata: tutto sta, ora, nella nostra capacità di costruire una mobilitazione al di fuori del loro controllo.
(1) Ricordiamo che il ministro dell’Istruzione Bussetti ha partecipato al Congresso mondiale della famiglia di Verona insieme con l’ultra-destra reazionaria e bigotta.
domenica 5 maggio 2019
UNA DOMANDA A LANDINI: QUALE UNITA' SINDACALE DAL BASSO?
Umberto Franchi
Conosco Landini dalla fine degli anni 90 quando lui era segretario della
FIOM di Reggio Emilia ed io segretario della FIOM di Lucca e entrambi facevamo
parte del comitato Centrale della FIOM Nazionale di cui era segretario Claudio
Sabbatini.
Maurizio Landini sa benissimo come l'unità dal basso la FIOM l'abbia sempre
ricercata...e che già dall'inizio degli anni 2000, c'e' stata una deriva della
FIM CISL, UILM UIL, ed anche dei sindacati Confederali CISL e UIL , sul merito
dei contenuti rivendicativi contrattuali e della democrazia rappresentativa
sindacale.
Landini ricorderà come già nel 2002, fu firmato da FIM e UILM un contratto
che all'epoca consideravamo "bidone" sia per le concessioni che
venivano fatte alle imprese in materia di flessibilità, straordinari,
precariato... che in termini di contenuti inconsistenti sul piano salariale e
normativo , ma che la Fim e Uilm fecero applicare senza fare votare tutti i
lavoratori se accettare "il bidone" o respingerlo.
Una situazione che come FIOM affrontammo continuando la lotta azienda per
azienda sui "precontratti" fino ad ottenere il recepimento in ogni
azienda ( almeno nella provincia di Lucca ) della piattaforma rivendicativa
contrattuale Nazionale predisposta dalla Fiom.
la situazione di allora, anche oggi non e' molto cambiata... Salvo la
parentesi dell'ultimo contratto fatto con ancora Landini segretario nazionale
Fiom , che non brilla per i suoi contenuti, persistono tutte le divisioni di
allora . Divisioni che hanno avuto uno sbocco deleterio nel contratto di
Pomigliano, imposto da Marchionne ma sempre condiviso dalla FIM e UILM e che
continua ad essere applicato alla FCA senza alcuna parvenza di
democrazia.
Quindi cosa significa puntiamo ad una NUOVA unità dal basso quando i gruppi
Dirigenti, sia di categoria che confederali della CISL e UIL , sono contrari a
fare decidere liberamente a tutti i lavoratori sia nella predisposizione delle
piattaforme rivendicative , che l' obbligo di firmare il CCNL solo dopo
l'approvazione di tutti i lavoratori ?
Come non capire che oggi il vero problema sono : la democrazia sindacale e la
rappresentanza reale che i sindacati hanno in base alla certificazione degli
iscritti? e come non capire che su questo tema non c'e' solo un problema di
mancanza di una legge adeguata , ma anche una reale divisione tra Cgil, Cisl,
Uil su quale legge fare ?
Allora come non capire che se non si risolve il problema della democrazia e
della rappresentanza non ci può essere nessuna unità dal basso ma solo
mediazione tra i vertici che sicuramente sarebbe deleteria perché di basso
contenuto ?
Credo che la speranza di una nuova unità che parta dal basso possa
esserci solo se nelle fabbriche, nei territori e a livello generale si sviluppa
un movimento di lotta sui contenuti rivendicativi economici , normativi,
sulla riduzione e governo degli orari, sulla prevenzione e sicurezza e
sui diritti del lavoro prima fra tutti il diritto alla democrazia sindacale. !
Umberto Franchi
DEBITI IN COMUNE
Marco Bersani
Quando si dice “il pubblico non funziona”, occorrerebbe argomentare l'affermazione. Facendolo, si scoprirebbe che non siamo di fronte ad un dato oggettivo, bensì all'esito di scelte ben precise, finalizzate a mettere sul mercato tutto ciò che sino a due decenni fa ne era escluso, in quanto garanzia di diritti fondamentali.
Il rapporto IFEL 2018 sulla finanza comunale evidenzia chiaramente la metamorfosi intervenuta con le politiche di austerità, imposte dalla teologia della stabilità finanzairia e dalla trappola del debito.
Se prendiamo i dati 2010-2017, scopriamo che il saldo netto di bilancio conseguito dai Comuni cresce di circa 8 miliardi di euro, per effetto di un aumento delle entrate (+1,3 mld), ma soprattutto di una drastica riduzione delle spese (-6,3 mld).
Scomponendo il dato delle entrate, si nota un sensibile aumento delle entrate proprie (+34,7%) a fronte di una netta riduzione dei trasferimenti correnti dallo Stato (-36,8%); netta riduzione che si riscontra anche sul versante delle entrate in conto capitale (-33,6%), effetto della crisi economica, ma anche del crollo della contribuzione statale agli investimenti degli enti locali.
Analoghe indicazioni si ricavano sul fronte delle spese, che, nel periodo considerato, vedono una riduzione complessiva del 15,2%, ma con un -33,4% sulle spese per investimenti, effetto chiarissimo dei vincoli finanziari posti in carico ai Comuni.
Entrate tutte finalizzate alla stabilità dei conti, spese ridotte all'osso sia sul fronte dei servizi sia sul fronte degli investimenti: ecco come è stato reso concreto il luogo comune “il pubblico non funziona”. Una matrioska di vincoli che ha ingabbiato i Comuni, minandone la storica funzione pubblica e sociale.
Senza neppure conseguire la famosa stabilità, come si evince dando un occhio alla situazione dell'indebitamento, che appare veramente paradossale: da una parte, infatti, il contributo complessivo dei Comuni all'indebitamento è irrisorio, non superando l'1,7% del debito pubblico complessivo, con una netta riduzione (-19%) nel periodo considerato; dall'altra, quel debito, per quanto basso in valori assoluti, sta letteralmente strangolando, grazie ad interessi da usura, moltissimi enti locali, in particolare i più piccoli.
In media, l’onere complessivo del debito raggiunge il 10% delle spese correnti comunali. Considerando gli Enti fino a 10 mila abitanti ed escludendo i territori delle Regioni speciali del Nord, circa 2.130 Comuni (30%) registrano un onere complessivo del debito superiore al 12% della spesa corrente; di questi, 727 enti (10%) superano un’incidenza del 18% sulle rispettive spese correnti.
Risulta chiara da questi dati la drastica espropriazione di democrazia operata in questi anni dalle politiche liberiste, che hanno trasformato i Comuni da luoghi primari della democrazia di prossimità in terreni di penetrazione degli interessi finanziari dentro le comunità.
Forse è venuto il tempo di una ribellione collettiva da parte delle comunità locali e di quelle amministrazioni (in netta diminuzione) ancora legate all'idea di Comune come garante dei diritti fondamentali ed erogatore dei servizi necessari a renderli fruibili.
Forse è giunto il momento di rivendicare una finanza locale che preveda risorse adeguate e incomprimibili per la funzione sociale degli enti locali, e un finanziamento delle opere pubbliche (do you remember Cassa Depositi e Prestiti?) che preveda interessi zero, non essendo le stesse finalizzate ad alcun profitto, bensì all'interesse generale (collettivamente deciso).
L'alternativa è l'attuale Far West della solitudine competitiva e del rancore sociale.
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