Il governo non ha alcuna intenzione di impostare un
confronto di merito sulle riforme e convoca i “banchini” per la campagna di
ottobre. Il ministro Boschi ha scomodato casa Pound. E Renzi ne ha fatto una
pura questione di denaro: l’elettore deve decidere se accetta o no di ridurre
lo spreco tagliando il numero dei senatori.
Vincere cavalcando il motivetto dell’antipolitica non
dovrebbe servire molto a una classe dirigente autorevole. Chi aspira a un
dibattito serio dovrebbe valutare altre questioni.
È vero che il bicameralismo, con aule dalle funzioni
simili, è un caso alquanto isolato nel diritto costituzionale comparato. Il
bicameralismo però non è stato superato con la riforma.
Resta quindi una struttura bicamerale con in più una
complicazione dei processi decisionali e una restrizione del potere dei
cittadini. L’organo rimane, i suoi poteri variano, la sua composizione è
alquanto pittoresca, quello che tramonta è la sovranità popolare che viene
sospesa, come già accaduto per le province.
Tutto ciò rinvia ad una tendenza, non solo italiana, a
edificare sistemi politici “post-popolari” che ampliano lo spettro degli
istituti legislativi sottratti alla legittimazione diretta. Le riforme tendono
a estirpare la radice popolare degli organi, non a semplificare e organizzare
razionalmente le funzioni deliberative. Attribuire a senatori non elettivi (non
responsabili dell’indirizzo politico, sganciati dal vincolo di fiducia)
strumenti di garanzia come l’immunità è un non senso. Una protezione speciale
per compiti non rappresentativi e non di governo, come quelli richiesti per
consiglieri regionali e sindaci ospitati a Palazzo Madama, è priva di ogni
ragionevolezza. Da quali abusi di maggioranza devono essere protetti i nuovi
senatori se non svolgono funzioni politiche conflittuali degne di essere
riparate da soprusi?
Il bicameralismo, e la formula proporzionale, erano
nel dopoguerra degli strumenti di controllo e di raffreddamento previsti
nell’ordinamento, che molti dei riformatori ritengono ispirati a un canone
eccessivamente garantistico. Ora, con la correzione delle funzioni del senato e
con la cancellazione della proporzionale, l’impianto dei poteri che limitavano
appetiti di comando è saltato. C’è in vista una significativa restrizione del
profilo garantistico degli equilibri dei poteri costituzionali rispetto a
quelli contemplati nella carta.
Senza l’Italicum, quella varata dal governo è solo una
riforma pasticciata, con un sapere tecnico approssimativo, con un gusto per la
abnorme complicazione procedurale, con una eleganza linguistica dubbia. Con
l’arma contundente dell’Italicum, la riforma diventa una minaccia
all’equilibrio democratico dei poteri. In nessun altro regime democratico il
risultato dell’elezione degli organi di rappresentanza parlamentare dà un esito
certo: la metafisica della imputazione nitida del successo la sera stessa del
voto è una forzatura che estirpa il connotato peculiare del sistema
parlamentare, cioè una certa strutturale imprevedibilità dell’esito, e quindi
la convivenza con la clausola dell’incertezza.
Il senato viene toccato dal riformatore solo per una
questione spicciola, che nulla ha a che fare con un orizzonte di sistema. In
vent’anni di seconda repubblica si è presentata una regolarità spiacevole: una
maggioranza divisa tra camera e senato che ha costretto a misure furbesche (la
compravendita dei senatori) o a grandi coalizioni. Per eliminare questo
incidente di percorso, il governo conserva una variante del Porcellum (formula
elettorale che prefabbrica un vincitore, anche con un consenso esiguo) e
strapazza il ruolo del senato.
Ci sono dei pericoli in agguato? A quello che è già
accaduto sinora conviene riferirsi, perché meno opinabile del puramente
possibile o spauracchio di cavalieri neri. Un dispotismo di minoranza è già in
opera. Ha portato all’elezione del capo dello Stato con il sostegno di forze
che vantano una base elettorale pari al 38 per cento dei voti.
Per chi è in grado di cogliere il significato
evocativo dell’inizio, non dovrebbe restare silenziosa la vicenda della anomala
disciplina di partito che ha spinto il Pd alla sostituzione in blocco dei
senatori dissenzienti nella commissione affari costituzionali. Scolpisce parole
di pietra anche la decisione di approvare le riforme con l’aula per metà vuota,
per la diserzione delle opposizioni. Il 33 per cento (e con il contributo
decisivo dei 150 deputati attribuiti al Pd grazie al premio illegittimo del
Porcellum) che detta legge sulle materie costituzionali ed elettorali è una
forzatura che rischia di provocare lacerazioni profonde.
Si tratta di sistematiche strattonate che non sono
compatibili con un costituzionalismo maturo. Si evoca spesso, da parte
governativa, il caso tedesco come modello di riferimento per il nuovo sistema
istituzionale a camere differenziate. Ma in Germania le riforme costituzionali
esigono la maggioranza qualificata dei due terzi. Senza quella ampia
condivisione in un sistema come quello tedesco, peraltro basato sulla
proporzionale, non è ipotizzabile alcun percorso di riforma. In Italia, con una
formula elettorale dichiarata illegittima, si introducono riforme
costituzionali con la logica del dispotismo di minoranza.
Una considerazione metagiuridica dovrebbe ispirare una
grande preoccupazione in chi conserva una visione politica attenta al generale.
Negli ultimi tre anni, ben 252 parlamentari hanno cambiato raggruppamento. Non
è una semplice manifestazione della tara italica del trasformismo. È qualcosa
di unico, nei paesi con qualche tradizione democratica, e di ben più
preoccupante. È il segno inequivocabile della mancanza di soggetti politici
stabili in grado di esercitare la vitale funzione del controllo democratico e
del bilanciamento dei poteri.
Su queste scivolose basi, può crescere solo il potere
personale che impianta un meccanismo unico di comando, privo di argini e si
propone come un potere magico. Ne risente la qualità democratica del sistema.
Che Boschi passi dalle grane dei “pound” della banca Etruria alle fantasie di
sintonie tra il no alle riforme e casa Pound non stupisce. Che antichi dirigenti
della sinistra si contendano la presidenza dei comitati per il sì, questo è ben
più tragico.
(dal Manifesto del 10/05/2016)
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