Continuiamo a stupirci per i provvedimenti razzisti adottati
dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, tale stupore segue allo
sbigottimento provocato dall’elezione stessa di Trump, giudicato dai più,
inadatto alla presidenza della più grande potenza mondiale. In realtà non c’è nulla da stupirsi perché l’America che ha
scelto Trump ha una tradizione razzista secolare. In un quadro di nichilismo e sfiducia, determinato
dalla delusione per le politiche sociali promesse da Obama, solo parzialmente realizzate,
e dal fallimento generale del partito democratico , la scelta di Trump era nelle cose.
L’aspetto
profondamente reazionario, classista e razzista americano emerge con forza nella
storia della musica jazz. La discriminazione non riguarda solo il colore
della pelle, ma anche la disponibilità economica, il credo politico. Il jazzista nero povero, e magari comunista, era l’icona del nemico numero uno per la
società statunitense. Talmente radicato era l’odio della società ortodossa
americana per i neri, che gli strali razzisti colpirono anche colui il quale,
senza tema di smentita, è da considerarsi uno dei più famosi, se non il più
famoso, jazzista del mondo, Miles Davis.
Miles proveniva da una famiglia
borghese, il padre era un dentista. A differenza di altri musicisti della sua
età, che faticavano a sbarcare il lunario, Davis percepiva dai genitori una somma mensile che gli consentì dal ’45 al ‘47
di vivere a New York, comodamente
nonostante la sporadicità dei primi ingaggi. Egli non aveva particolari propensione alla
rivendicazione politica, se non l’atteggiamento supponente ed irridente verso
il pubblico, retaggio ereditato dalle esibizioni sostenute affianco dei boppers. Un artista
, dunque, dotato di tutte quelle caratteristiche indispensabili per essere accettato dalla società borghese americana,
tranne il colore della pelle.
Probabilmente fu il primo jazzista la cui notorietà travalicò l’ambito musicale.
Nel 1958 la rivista Time pubblicò un
servizio dedicato alla sua carriera. Life
International lo inserì in un elenco di quattordici personalità di colore che avevano “recato un significativo contributo nel campo della scienza, della legge, degli affari, dello sport, del divertimento,
dell’arte, della letteratura, del mantenimento della pace fra gli uomini”.
Nel marzo del 1959, Esquire, una
sofisticata rivista dedicata ad una platea d’èlite, pubblicò un lungo articolo su di lui a firma
di Nat Hentoff. Il suo sestetto era il più richiesto ed il più pagato. Miles
era diventato una vera star, paragonabile alle più grandi stelle del rock. La
gente lo venerava, quando suonava Miles non si andava ad un concerto di jazz ma
ad un concerto di Miles Davis. Il trombettista
di Alton poteva permettersi vestiti firmati e girare in Ferrari.
Nonostante ciò
la furia razzista della polizia americana si abbattè anche su di lui. Nell’agosto
del 1959 era di scena con il suo sestetto
al Birdland a Brodway. Era una serata afosa e durante una pausa dell’esibizione
accompagnò una ragazza fuori dal locale per chiamale un taxi. Disgraziatamente
per lui la ragazza era bianca e un nero che accompagnava una bianca, per la polizia, era un fatto poco
ortodosso. Il taxi fece accomodare la passeggera e Miles rimase fuori dal locale a
prendere una boccata d’aria. Un poliziotto di ronda lo avvicinò minaccioso gli
intimò di andarsene: “Lavoro qui” replicò Miles aggiungendo che voleva semplicemente prendere un po’ di
fresco e presto sarebbe tornato nel locale. Il poliziotto, non credendo a ciò che il
presuntuoso negro gli stava dicendo, domandò a Miles se si riteneva “un tipo intelligente” e insistette: “se non ti muovi ti caccio dentro”. “Avanti cacciami dentro” fu la risposta
di Miles.
Mentre i due stavano discutendo un secondo poliziotto piombò alle
spalle di Davis e iniziò a picchiarlo selvaggiamente alla testa con il
manganello. Coperto di sangue Miles fu portato in prigione e gli venne
sequestrata la tessera temporanea di lavoro. A New York non si poteva lavorare
senza quella tessera. Una piccola folla aveva assistito alla scena arrivando a
bloccare il traffico. Più tardi la gente si raccolse davanti al 54mo distretto
dove era stato condotto l’arrestato. Miles fu rilasciato il giorno dopo dietro
il pagamento di una cauzione di mille dollari. Le contusioni gli costarono
cinque punti di sutura in testa. “Mi
hanno picchiato come un tamburo” osservò. Un testimone oculare commentò: “E’ stata la più orribile e brutale scena che
mai mi sia capitanato di vedere. La gente gridava al poliziotto di non
ammazzare Miles”.
L’incidente ebbe vasta eco sulla stampa newyorkese
ovunque si lessero commenti indignati e si dimostrò grande simpatia per il
trombettista. L’Amsterdam News, diffusissimo giornale della comunità nera, diede
risalto alla vicenda osservando che Davis aveva subito una violenza di “stampo sudista”. Miles fu accusato di
condotta turbolenta e di aggressione. I due poliziotti sostennero che era stato
lui a fare la prima mossa violenta: “Davis aveva impugnato un bastone e si
accingeva ad aggredire il mio collega,
per quello sono stato costretto a colpirlo sulla testa ” fu la versione del
secondo poliziotto. Miles si difese dicendo di aver cercato di proteggere la
sua bocca dalle percosse per non riportare danni alle labbra e quel movimento forse aveva dato l’impressione
che egli volesse prendere un bastone.
A seguito di un telegramma inviato dalla
sezione 802 della Federazione musicisti d’America al commissariato di polizia,
nel quale si chiedeva un’indagine esauriente, a Miles Davis fu restituita la
tessera del lavoro. Solo nell'ottobre del 1960 Miles Davis fu scagionato dall’accusa
di aver tenuto un comportamento turbolento, ma rimase imputato del reato di aggressione. Qualche tempo dopo
cadde anche quest’ultima imputazione. Emblematiche la parole del giudice che
emise la sentenza: “Sarebbe una falsa
giustizia quella che considerasse la vittima di un arresto illegale colpevole
di aggressione nei confronti di chi procede all’arresto”.
Questo aneddoto,
dalla notevole rilevanza perché capitato ad uno dei più famosi musicisti d’America
e mondiale, dimostra che la violenza verso i neri e l’odioso humus razzista,
non ha mai abbandonato buona parte della società americana. Con l’avvento
di Trump la lotta per i diritti civili diventa più difficile e aspra. Speriamo che
movimenti come “black lives matter”, grazie all’appoggio di altre
organizzazioni sociali e di una
consistente parte di società non
imbarbarita possano continuare la loro battaglia per una convivenza più civile
non solo in America ma in tutto il mondo. E’ una lotta difficile e dura perché combatte
un pregiudizio, ma non continuare a lottare anche con l’aiuto dei musicisti e
del mondo della cultura sarebbe delittuoso.
Good vibrations.
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