Franco Lattes Fortini (dal quotidiano il Manifesto del 05/11/2023)
Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana
contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo
significato, come vuole chi la guida.
Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla
cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel
medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele.
In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle
centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e
al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila
uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni
israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e
amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare.
Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo
in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o
mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa
solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta
complicità dei più.
Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre
percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che
dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con
abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e
bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei
libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta me ricordare.
QUELL’ASSEDIO PUÒ
vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le
pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e
disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp,
prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si
dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il
silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.
Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri
popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
GLI EBREI DELLA Diaspora sanno e sentono che un nuovo e
bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra
coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente
macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono
stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni
di fraternità.
Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che
agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di
politica israeliana.
L’USO CHE QUESTA ha fatto della diaspora ha rovesciato,
almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in
confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla
diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a
distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la
tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente
accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più
aiutato, quella distinzione, a mantenerla.
Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli.
Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto
silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici
degli ebrei italiani?
Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o
oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti
della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle
imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza,
scelgano una parte, portino un segno.
Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte
col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca;
o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne
bagna la terra, che contro di lui grida.
Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi
del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli
sapranno e giudicheranno.
E SE ORA MI SI CHIEDESSE con quale diritto e in nome di
quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo
faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre
e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore
degli uomini stia in quello che essi fanno da sé medesimi a partire dal proprio
codice genetico e storico, non in quel che con esso hanno ricevuto in destino.
Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del
sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e
presente; sì che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano
da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione
corrente.
IN MODO AFFATTO diverso da quello di tanti recenti, e magari
improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una
estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di
Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti
conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo
conosce fin troppo bene.
Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come
il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati
uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la
Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli
Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben
prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri,
una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e
volontà.
Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità
scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le
sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche
il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi.
È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera
israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un
edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi
della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di
un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?
LA DISTINZIONE fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a
ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata
rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha
permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene
alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei
conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri.
Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio
qualcosa che è dentro di noi.
OGNI CASA CHE gli israeliani distruggono, ogni vita che
quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai
ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di
sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle
generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e
attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.
Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato
che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere.
Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa
coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un
edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura
della nostra vita e patria.
Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che
danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza
e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle
dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non
vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
LA NOSTRA VITA non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione
palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un
tesoro comune.
Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non
biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di
compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della
sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
E ANCHE in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro
amici. Uno dei quali sono io.
Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei
soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei
palestinesi.
Parlino, dunque.
* «Il manifesto» ha pubblicato questo testo la prima
volta il 24/5/1989 e una seconda volta il 18 gennaio 2009. I problemi e le
domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai «solo» aggravati.
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