Spesso quando si discetta sulla genesi della musica jazz, si
identifica la nascita di questa
straordinaria espressione come il frutto di una contaminazione fra la
tradizione musicale africana, con qualche venatura di armonie arabe, e il composito patrimonio armonico occidentale,
melodramma,tradizione bandistica e altro ancora. E’ però un fatto che l’influsso non europeo, il blues, la
scala pentantonica e la metrica in 12 battute, siano state predominanti nell’evoluzione del
linguaggio jazz, e non solo, almeno fino allo spegnersi del secolo breve. Molti
addirittura tendono a trasformare la creativa e atossica contaminazione, in un
conflitto fra le due tradizioni, quella africano-araba e quella europea. Ciò è vero se allarghiamo la visione oltre il
progetto creativo e consideriamo le condizioni economiche e sociali in cui è cresciuta
e si è evoluta la musica jazz. E’ innegabile come , in ogni fase della
storia del jazz, ci sia stato il tentativo, spesso riuscito, di esproprio da
parte dei bianchi, a capo dell’industria
musicale, di ciò che veniva creato dai musicisti neri. Tale appropriazione
indebita, non si è esplicata solo in senso affaristico, ma anche nell’annacquamento
delle forme rivendicative della musica afroamericana , così da depotenziare il messaggio di
rivolta sociale che questa esprimeva. Da un lato hanno agito le mire di profitto delle case discografiche sulla musica dei
neri, dall’altro il tentativo di ridurre la proposta musicale afroamericana in semplice momento asettico di evasione e
spettacolo. Ripercorriamo in un rapido
excursus le varie tappe di tale appropriazione indebita, culturale, economica e
sociale.
Race Record
Il blues fu la prima
e più longeva fonte di tali
colonizzazioni. Lo sfruttamento del
linguaggio in 12 battute si è sviluppato
ed evoluto nel corso di tutto il’900 per cui l’intuizione creativa dei neri, provenienti
dall’africa, ha contribuito alla nascita del rock e all’arricchimento smisurato
di personaggi bianchi come Elvis Presley
o gruppi come i Beatles e i Rolling
Stones. Tutto iniziò quando al sorgere degli anni ’20 alcune case discografiche, cercando nuovi sbocchi commerciali scoprirono
la redditività del canale nero. Nacquero così collane discografiche chiamate “race record” (dischi di razza),
riservate al solo mercato dei neri. Sui solchi di questi dischi, fu fissato il ricchissimo
patrimonio musicale del blues vocale,ed orchestrale in particolare . Le Roi
Jones nel suo libro “Il popolo del
blues” scrisse:”…. se osserviamo il fenomeno dei race record da un punto di
vista più pratico, come dovettero
certamente fare i proprietari della Okeh, i dischi di Mamie Smith rivelarono
l’esistenza di un mercato ancora non sfruttato. Di Crazy Blues se ne vendettero
per mesi circa 8000 copie alla
settimana, del primo disco di Vittoria Spivey (Blake Snake blues), registrato
sei anni più tardi, se ne vendettero in una anno 150.000 copie: ciò dimostra,
se ce ne fosse bisogno, che la decisione delle case discografiche di estendere
e potenziare il repertorio dei race record non era dettata da motivi
altruistici o artistici. Ma
semplicemente dalla convinzione che si
trattasse di un ottimo affare”. Bessie Smith , ingaggiata dalla “Columbia”
grazie al fiuto del discografico Frank Walker, contribuì a far realizzare alla
casa discografica tali utili di vendita da risollevare il suo conto economico
prossimo al fallimento.
Swing Era
Se il fenomeno dei
race record fu solo sfruttamento
economico della creatività nera, limitando la sua azione al profitto senza intaccare il patrimonio
musicale del blues , completamente differente fu la devastante influenza
dell’era dello swing . La chiusura delle case di
piacere di Storyville, la militarizzazione del porto di New Orleans, in
concomitanza con gli eventi della prima guerra mondiale, costrinsero i musicisti neri, che sulla città del
Delta avevano costruito il linguaggio della nuova musica, a trasferirsi in
cerca di un ingaggio nelle grandi metropoli ed essere inglobati nelle grandi
orchestre bianche. Le sofferenze subite dopo le peripezie del ’29 orientarono
la borghesia americana del New Deal, verso un ideale di vita basato
sull’evasione. Il jazz, come al solito, non potè che essere espressione di quel
sentimento. Le orchestre furono le
indiscusse protagoniste della scena musicale, ma la spinta propensione verso le
sdolcinatezze proposte da alcune formazioni bianche non era del tutto
appropriate al musical business, che pretendeva anche quel pizzico di esoticità
presente nelle formazioni
neworleaniste. Ma New Orleans
significava nero e tutto le critiche implicazioni sociali che dietro questa
parola si nascondevano. L’ideale sarebbe stata un’orchestra bianca, o comunque
con esecutori ben pettinati in frak e papillon, che nel suo dna avesse quel
pizzico di esotismo nero tanto gradito. Nel quartiere nero di Harlem a New York,
sorsero un buon numero di locali, gestiti da bianchi, in cui lo strumentista
afroamericano, proveniente da New Orleans, da Kansas City o anche dalla Chicago
infestata da gangster, non era altro che l’attrazione esotica di un’orchestra
formata da musicisti bianchi. Nacque l’era dello swing, che al di la dell’esaltazione
della pura evasione, vide l’affermazione di orchestre anche di buon livello. Il
re della swing craze fu senza dubbio Benny Goodman. La chiave del successo di Goodman fu , riproporre, lui che era
bianco, musica nera. Il fatto che un
bianco suonasse una musica che leader
neri avevano creato prima di lui dava ad
essa una patina di rispettabilità mitigando certe ruvidezze africane. I musicisti neri nella
swing era furono costretti, per sopravvivere, a entrare come attrazione nelle
orchestre bianche. Teddy Wilson al piano e Lionel Hampton la vibrafono furono
le prime stelle di Goodman. Artie Shaw seguì l’esempio ingaggiando la
straordinaria Billie Holiday. Un’altra stella
assoluta fu quel Roy “Little” Eldridge che Gene Krupa convinse ad esibirsi con
lui offrendogli 150 dollari a sera
rispetto ai 50 che Eldridge già guadagnava in un'altra orchestra.
Dalla
frustrazione di questi artisti, costretti a esibire la loro maestria tecnica
come se fossero fenomeni da baraccone, e a subire umiliazioni come quella di
entrare dalla porta secondaria dei locali dove suonavano, nacque il vento che
portò ad una vera e propria rivincita nera. Il bebop, uno stile che espresse
un concetto musicale completamente
opposto a quanto narrato dalla swing craze, a cominciare dall'idea che
quella non era più musica da ballo o d’evasione. Intorno al 1940 solo pochi erano
ottimisti sul futuro del jazz che pareva aver concluso il suo ciclo
trasformandosi, nel giro di un trentina d’anni, o poco più, da musica folklorica
legata a un certo ambiente e a certe condizioni storiche e sociali, a musica di
svago destinata alle masse . La rivoluzione bebop fu la salvezza del jazz. Charlie
Parker, Dizzy Gillespie, Kenny Clarke e tutti gli altri grandi strumentisti
della bop era furono dei veri e propri rivoluzionari. Quei musicisti
neri, o non bianchi, intesero, creando la loro musica, rompere con i valori
consolidati, con la ferrea routine imposta nelle orchestre da ballo, che in
nome del musical business, chiedevano al
jim crow di turno, sia che
suonassero uno strumento, o cantassero , o ballassero , solo di divertire
il pubblico. Smaccato era Il rifiuto di ogni concessione
spettacolare, marcato era il
disprezzo per l’applauso,
molte esecuzioni erano irridenti verso la borghesia ricca. Un tale
atteggiamento,creativo, venne spazzato via dalle regole del
profitto musicale. Nonostante le straordinarie novità del linguaggio boppistico
, che posero la basi su cui poggerà tutto
il jazz futuro, il be bop fu ben
presto cancellato dal panorama musicale americano e molti musicisti, andarono a
cercare fortuna in Europa.
West Coast
In piena era bebop, dove il jazz stava mostrando una verve
rivoluzionaria, autenticamente nera, ma osteggiata dal pubblico e dal mercato
discografico, l’orchestra di Woody Herman parve una sorta di restaurazione conservatrice di valori artistici, ma anche
sociali e politici. L’operazione musicale di Herman consistette nel recuperare
il dixieland, esaltandone lo spirito blues. La sua orchestra suonava un blues
vestito di bianco. Dunque si ripropose l’ennesima appropriazione di caratteri
afroamericani assimilati e trasformati
ad uso e consumo del musical business.
In questa fase tornò preponderante la forma dell’orchestra la scrittura
in luogo dell’improvvisazione . Gli stilemi boppistici divennero parte del
linguaggio Hermaniano, ma furono levigati e addolciti. Un dato emergeva incontrovertibile, la nuova
musica doveva contrapporsi alla rabbia dei boppers e soprattutto al loro
disprezzo e rifiuto del pubblico. Anzi
doveva presentarsi accettabile,
accattivante e magari un tantino ammiccante. In quel periodo la
California fu l’elemento naturale in cui crebbe il nuovo jazz. Questa era il
simbolo di un mondo privilegiato, Santa Monica, Long Beach, Hollywood vedevano
circolare masse di denaro ingentissime e locali come l’Hangover, il Down Beat,
il Tiffany, lo Zardis, offrivano sovente ospitalità ai musicisti di jazz, i
quali avevano l’obbligo oggettivo di offrire al ricco pubblico musica non
aggressiva, comprendente solo esecuzioni gradevoli, accettabili, niente
orchestrazioni dure o hot, urlate, ma sonorità aeree, climi eterei con il
rifiuto aprioristico di ogni violenza sonora e comportamentale. L’elemento
blues si sciolse negli arrangiamenti classici. I tempi erano ormai maturi
perché al pubblico americano si offrisse una musica più “accettabile”, e soprattutto
che fosse bianca, . Stan Kenton, con la sua orchestra, composta da soli elementi
bianchi, può essere assunto, senza forzature, a simbolo
del conservatorismo più smaccato tra i musicisti di jazz di ogni tempo. Nelle
sue formazioni ebbero fondamentale importanza “le sezioni” piuttosto che i
singoli solisti, comandava il leader, le improvvisazioni erano bandite. Esplicita
fu l’invettiva razzista che
Kenton mosse contro il bebop nero, considerato frenetico e alieno alla vera musica
che, ovviamente, era quella della sua orchestra. Non è da sottovalutare comunque
che molti esponenti bianchi delle orchestre di Herman di Kenton, ma anche di
Claude Thornill, e di altre formazioni, furono jazzisti di assoluto valore. Stan Getz, Gerry Mulligan, Paul Desmond, Dave Brubeck , Chet Baker, Lee Konitz, Art Pepper, Kay
Winding, per citarne solo alcuni, non
eliminarono o ridussero ai minimi termini la lezione bebop, ma l’integrarono e
arricchirono attraverso un utilizzo delle pause e dei fraseggi, più meditati,
meno istintivi. Nacque un nuovo stile, il
cool jazz dove cool sta per "calmo" e non, contrariamente a quanto si pensi “freddo”.
In realtà caposcuola della nuova forma jazzistica fu un nero, Miles Davis. Il trombettista proveniente da East Sanit Louis agli anni passati affianco di Charlie Parker sovrappose il tempo passato alla Juillard School of Music di New York. Ai fiammeggianti fraseggi di Parker
la poetica di Davis, mescolava le dinamiche armoniche della musica classica. Il
cool non era un processo di edulcoramento del linguaggio nero, ma consisteva in
una sorta di nobilitazione formale del
bebop. Il risultato fu assolutamente straordinario e divenne patrimonio di musicisti sia bianchi che neri.
Non è da trascurare il fatto che il nuovo stile si rese appetibile anche al
musical-business, il quale vendeva questo tipo di musica non come elemento
esclusivamente evasivo, ma come forma alta, da eseguirsi nelle sale da
concerto.
L’anomalia degli anni
’50 fra hard bop e R&B
Non fu un caso che preminenti esponenti del cool jazz
ospitarono nei propri gruppi, o furono essi stessi, gli animatori di un ritorno
alle spericolate evoluzioni bop. Fu la
rivincita della New York nera sulla Los Angeles bianca, o marrone, volendo
usare una forzatura. I primi
protagonisti del nuovo bop, come
il trombonista Jay Jay Johnson, il sassofonista Sonny Rollins, i batteristi
Philly Joe Jones e soprattutto Max Roach, provenivano tutti dal cool jazz.
Alcuni di loro avevano partecipato all’incisione manifesto del ’49 “Birth of the cool” o avevano militato,
fra il ’54 e il ’59 nelle piccole formazioni di Miles Davis. Si replicò in
certa parte della comunità jazzistica nera, la stessa frustrazione che colse 10
anni prima i congiurati del Minton’s. Quella frustrazione nata dalla consuetudine di adagiarsi nella consunta routine imposta
dallo strapotere del” business world”, in un paese lacerato da mille e
pressanti problemi, la cui soluzione si
sarebbe potuta realizzare, o almeno così si riteneva, solo con rabbiosa decisione e con una
rinnovata determinazione nelle lotte civili. Il linguaggio musicale che ne
scaturì era saldamente legato al
passato, non solo a quello più recente di Parker e Monk, ma anche a quello più
remoto delle radici della musica afroamericana, il blues . Vennero riproposti gli stilemi
parkeriani inaspriti da una decisa determinazione esecutiva ,
talmente rocciosa, da far definire il bop che veniva suonato “duro”, hard. L’obbiettivo era scaldare, eccitare, aggredire
chi ascoltava, insomma farlo partecipe di un mondo che di dolce e lieve – non solo ad Harlem –
aveva ben poco. Il trombettista Clifford
Brown fu il faro attorno al quale si radunarono
i musicisti neri newyorkesi che
per anni avevano dovuto subire lo
strapotere bianco ed un emarginazione forzata. Proprio con Max Roach, Brown costituì un quintetto considerato la vera anima dell’hard bop. Disgraziatamente la
prematura scomparsa del trombettista di Wellington, a soli 26 anni, pose fine
alla vita di quell’esperimento, ma ormai il solco era tracciato. E in quel solco si inserirono molti altri
jazzisti che pure provenivano dalle formazioni dell’inventore del cool Miles
Davis, e che di li a poco avrebbero stravolto ogni convezione musicale con il
free jazz. Ci riferiamo, fra gli altri, a John Cotrane, allo stesso Max
Roach, a Freddie Hubbard. L’orgoglio nero si ripropose con forza non solo
nell’hard bop, ma anche in un ritorno preponderante del blues. Una forma però
diversa, più urlata rispetto a quella nata nel sud. Per le strade di Harlem risuonava una nuovo blues: il rhythm and blues, una straripante
forza comunicativa di rabbia per le condizioni di vita drammatiche quali erano costretti i neri dei ghetti. Si trattava di una derivazione più elementare ed epidermica
del blues classico. Nella nuova espressione alla filosofia della rinuncia, propria dello
stile d’origine, si sostituì un ben
diverso approccio alla realtà. Chi
ascoltava o suonava R&B voleva superare la lamentosa accettazione di una situazione
ritenuta immutabile . La voce urlante dei cantanti neri, necessaria a superare
in decibel il frastuono delle chitarre elettriche, era assimilabile all’urlo di
chi voleva ribellarsi ad una vita di stenti e sottomissione. Non fu un caso che
in quegli anni sorsero e si svilupparono case discografiche di proprietà dei
neri, le quali si incaricarono di far incidere e diffondere la nuova musica. Il
nuovo blues suonato e cantato da Muddy
Waters, Howlin’ Wolf, Mahalia Jackson, Etta James, e Chuck Berry, Ray Charles, Aretha Franklin dilagò ad Harlem e in tutti gli altri ghetti,
da Detroit, a Chicago, a Filadelfia, a Baltimora grazie anche alla storica etichetta
discografica Tama Motown. E’ doveroso
sottolineare come gli stessi combattenti neri del Black Panther Party e
di altre simili organizzazioni si riconoscevano proprio nella forza espressiva del R&B. La
semplicità esecutiva, la fragorosa forza
ritmica, erano caratteristiche che decretarono immediatamente il successo
economico della nuova musica . Una fonte
di guadagno che, dopo un primo momento di smarrimento, venne fagocitata dall’industria dello spettacolo per confluire nel mare sterminato del rock’n
roll . E fu proprio un bianco borghese a riempirsi le tasche di dollari,
sfruttando la vena creativa africana, Il
mito di Memphis, Elvis Presley. Quella stessa
vena creativa che in Europa arricchì i Rolling Stones, i Beatles e tutti gli
esponenti del rock’n roll espressione di pura evasione e fonte di guadagni
milionari. Si potè assistere, ancora una volta, all’ennesima appropriazione da parte
del musical business di un’espressione tipicamente nera.
L’invendibile free
L’evoluzione jazzistica che si sviluppò attraversò parte degli anni ’60 e i successivi
’70, non corse mai il pericolo di
essere edulcorata, o diventare oggetto
di attenzione da parte del musical business. Ci riferiamo al free jazz. Qui la
rivoluzione nera si espresse, non con
l’adozione di ritmi martellanti e voci urlanti, ma con la destrutturazione
sistematica degli elementi musicali: melodia, armonia, tonalità.
Un’operazione di abbattimento degli
steccati sonori, possibile solo
attraverso lo studio approfondito della musica, che
riverberandosi nella società, acquisiva il significato di abbattimento della
segregazione, dell’ingiustizia sociale, dell’arroganza imperialista, veri e
propri steccati al dispiegamento di una
vita dignitosa e libera. Free appunto. Lo straordinario disco del
sassofonista Ornette Coleman, icona del
nuovo linguaggio, si intitolava semplicemente “free jazz” e sulla copertina era ben descritto cosa si sarebbe
ascoltato “A collective impovvisation by
the Ornette Coleman double quartet” Un’improvvisazione collettiva dunque,
senza leader e tracce guida. Cosa fu e
cosa volle essere il free jazz è Archie
Shepp, uno dei maggiori esponenti della
New Thing, a descriverlo” E’ finita per i figli dei bianchi: non
balleranno più con la musica del
pagliaccio nero. E’ finita con i battelli del Mississippi e le sale da ballo di Chicago o di Manhattan,
con lo sfruttamento, con l’alcool, con la fame, con la morte. E’ durato
cinquant’anni il viaggio del nero verso il Nord. I figli del battelliere e dell’emigrante hanno valicato i confini
folkloristici dl jazz” E’ utile
ricordare comunque che notevoli esponenti del free furono anche musicisti
bianchi, i quali attraverso la completa libertà esecutiva ed improvvisativa
esprimevano il rifiuto della società borghese e dell’imperialismo americano. Nonostante il
free rappresenti nella storia del jazz uno dei capitoli più carichi di
significato, in virtù degli avvenimenti che, nel periodo in cui si sviluppò, segnarono la storia, non solo degli Stati
Uniti, ma di tutto il mondo, questo movimento subì un notevole riflusso,
soprattutto nella terra dove era nato.Qui il rifiuto del pubblico fu eclatante,
per cui molti musicisti , furono costretti o a cercare fortuna in Europa o,
addirittura, ad abbandonare l’attività musicale per dedicarsi ad altre
professioni. Una musica così smaccatamente “contro” negli Stati Uniti naturalmente venne cancellata
dai circuiti musicali, costringendo i suoi interpreti a trasferirsi in
Europa. Qui a differenza degli Stati Uniti il movimento giovanile studentesco
del ’68, in particolare in Francia, si riconosceva pienamente negli stilemi
anticonformisti e dissacratori del free. Non solo in Francia il nuovo jazz
trovò diritto di cittadinanza. In Danimarca il Jazhus Montmatre di Copenaghen
sarebbe diventato un punto nevralgico per la diffusione della musica
d’avanguardia. Stesso successo si ebbe in Germania dove l’etichetta
discografica ECM, si incaricò di dare
spazio in sala d’incisione, a tanti
freeman. Anche in Italia la nuova musica trovò molti adepti ed
eccellenti esecutori. Gli anni ’70, con l’avvento del jazz-rock, l’ennesima trovata di Miles Davis, portarono verso il dissolvimento
di un confine ben definito fra stili invisi al mercato e musica commerciale. E’ indubbio
che il jazz-rock fu musica commerciale, ma è sufficiente ascoltare Bitches Brew
di Miles Davis per capire come la qualità rimanesse sempre molto elevata. Oggi
il jazz basato sul blues è un linguaggio entrato nella storia della musica. L’evoluzione
post moderna identifica un espressione improvvisata colta che spazia in altre aree oltre il blues. Sperimenta forme tonali ancora più rivoluzionarie senza però addentrarsi in messaggi politici.
Rimane comunque un espressione di nicchia. Ciò che resta, è comunque preda del
mercato, del profitto, anche se fenomeni come il progressive rock hanno regalato pagine di grande musica. Possiamo dunque
affermare che questa storia degli espropri musicali finisce con il finire degli
anni ’70. Da qui in poi sarà sempre il
mercato a decidere, anche sulle sorti di nuove espressione nere come l’hip hop
o il rap.
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