È bastato che Silvio Berlusconi si riaffacciasse sugli schermi, col volto mal tirato in su – ci sono limiti, non fosse che d’età, al rifacimento dei tratti – perché l’Italia corresse a rifugiarsi sotto l’ala di Mario Monti. O l’uno o l’altro, tertium non datur. Non sono la stessa cosa, come suggerisce Alberto Burgio, anche se la rotta che indicano è sempre “a destra tutta”, ma da tempo gli italiani sembrano disabituati a pensare che la distinzione fra destra e sinistra abbia ancora senso. Oggi non ci sarebbe che “quella” rotta, indicata dalla prevalenza del finanzcapitalismo, come lo chiama Luciano Gallino, assai pudicamente corretta dal recente vertice europeo – ma la strizzatina d’occhio agli evasori fiscali, il primato agli interessi privati come metodo di governo e di vita, qualche battuta antieuropea e finto popolare – “lo spread? chi era costui? – un certo plebeismo considerato spiritoso si riconosce in Berlusconi come in Grillo e simili. Non hanno del tutto torto all’estero a vederci come una perpetua commedia dell’arte, Pulcinella o Arlecchino vincenti sulla stoltezza altrui. E quella metà della gente che non predilige la furbizia si rivolge a una figura che appare più frequentabile per costumi e decenza.
Stiamo perdendo troppo tempo. Tertium non datur perché non esiste una sinistra sufficientemente forte per darsi una politica convincente e diversa dal rigore. Eppure non è cadere dalla padella del cavaliere di industria nella brace del liberista tutto d’un pezzo. Sono ormai tante le voci degli esperti che avvertono: su questa strada l’Europa del sud sta cadendo in un buco sempre più profondo, in una crisi di società sempre meno agibile. Si ha un bel rosicchiare sulle spese pubbliche, anche con più energia ed equità di Monti, finché non ci sarà una svolta nell’economia l’impoverimento del novanta per cento della gente continuerà fino a limiti insostenibili. Già lo sono: la percentuale dei disoccupati nel continente, più che raddoppiata per i giovani in cerca di impiego, pesa come un macigno. Attorno ai quattro milioni dichiarati in Francia e più che presunti in Italia, con almeno altrettanti precari e lavoro al nero, specie di donne e stranieri, è meta delle forza di lavoro che vacilla o già si trova sotto il livello di povertà. La spugnosità dell’Italia degli anni ’70 e ’80 non esiste più, lo scarto fra redditi da lavoro e da patrimonio, mobiliare o immobiliare, svolazzante sui mercati mondiali, si è invertito a favore dei secondi e non c’è traccia della lucetta che Monti diceva di intravvedere già in fondo al tunnel. Gli indici di crescita dell’Europa, già assai bassi, non accennano che a diminuire e perfino il Fondo Monetario Internazionale avverte: attenti, se non crescete state andando nel baratro.
E non si tratta di piccoli raggiustamenti. Occorre mettere un freno alla caduta produttiva e conseguente impoverimento dei più per ricostituire una crescita – altro che lo schema argentino, il cui esile fiato sta finendo. In verità c’è dovunque un correggersi delle previsioni, anche la Cina cresce meno di alcuni anni fa, il volto economico del mondo è tutto un fremito di varianti. Ma non è pensabile di salvare l’Europa e la sua moneta attraverso alcune sagge manovre della Bce in presenza di un permanente calo delle merci da produrre e vendere fuori dal paese e dell’esercito salariato che le produce e le acquista: non occorre essere un economista per capirlo. Occorrerebbe tagliare qualche artiglio di più alla finanza, restaurare qualche controllo sul movimento di capitali (come ha spiegato Andrea Baranes), contrattare, possibilmente assieme agli altri paesi del sud in via di soffocamento, un ragionevole rinvio del debito, se non la sua quantificazione, e ristabilire un potere politico sulle politiche economiche. È insensato che l’Europa si sia privata di tutte le sue più importanti capacità produttive dell’acciaio (ed era un bene costruito con i soldi pubblici) per venderle al miliardario indiano Mittal, il quale adesso chiude alcuni altiforni conservando le produzioni di acciai ad alto valore aggiunto, senza che gli stati possano difendere i lavoratori messi per strada, la cui assistenza come disoccupati ricadrà su di loro. Il tutto in attesa che la mano invisibile del mercato, socialmente cieco, offra chissà quando e dove un impiego. Balorda l’idea che il continente potesse spogliarsi impunemente delle risorse strategiche – l’acciaio non è una merce optional. E chi rappresenta i lavoratori dell’acciaio o dell’automobile rimasti senza lavoro? Chi ha le possibilità di cambiarne le condizioni? Perfino la Germania comincia ad ansimare.
Alla faccia delle Costituzioni, chiamate in ballo soltanto per confermare il primato del mercato e dei conti i pubblici, tranquillamente disattese per quanto riguarda i diritti: Marchionne può riconoscere o disconoscere i sindacati, nulla succede, nessuno lo incrimina. In Francia, la Psa (Peugeot-Citroen) si libera di ottomila posti, cancellando un intero paese dell’Ile de France che le lavorava dentro o nell’indotto, e ha chiesto l’altra sera altri millecinquecento licenziamenti – fuori di sé, gli operai hanno demolito tutti i materiali della direzione mentre la gente e i sindacati perbene si sono scandalizzati: quale violenza! Mentre ridono del tentativo del governo di nazionalizzare, confusamente e pro-tempore. Ma dove si credono. E la concorrenza? E i trattati?
In Italia Mario Monti si tira fuori per vedere come se la caverà il paese senza di lui. Berlusconi spaventa gli avversari più di quanto incanti quelli di casa sua, dove regna la più grande confusione. Ha fatto un movimento verso la Lega e Maroni lo mandato a spasso, la sua sola risorsa essendo il mito di onestà che circondava i leghisti prima degli incidenti dei Bossi. Ha tentato un altro passo verso Monti, proponendogli (udite udite) di orchestrargli la campagna elettorale, e ne ha avuto lo sdegnoso invito ad andare a quel paese. E però Monti non è riuscito a dotarsi di un esercito. Ha dietro di sé tutti i vescovi, cosa mai vista – perché va in chiesa tutte le mattine – ma Andrea Riccardi e Luca di Montezemolo non hanno ampliato le file dei poteri e dei personaggi che dovrebbero formare con Casini l’invincibile centro. Neanche tutto il Vaticano e il papa bastano a rifare di colpo un’edizione aggiornata della democrazia cristiana.
E in questa situazione, che sarebbe la più favorevole a una mite sinistra, questa manda segnali che più vaghi non potrebbero essere. In rapporto alla svolta di cui sopra, nulla. Bersani si augura che Monti non si ripresenti, sottintendendo che montiano è già lui. Ma se si ripresenta, gli sarà un alleato fedele. Nichi Vendola scommette sulle difficoltà che avrà Bersani a tenere assieme metalmeccanici, disoccupati, precari e Casini, scommessa più che rischiosa. Berlusconi incassa rifiuti ma le sue risorse – i media, arma fatale – sono più estese di quelle altrui.
In Italia l’antieuropeismo – fuori dall’Europa, fuori dall’euro, fuori dalle palle gli immigrati, soli e autarchici – non ha la forza del Fronte nazionale francese, con il quale su questo tema flirta il Fronte delle sinistre di Melenchon (appena più prudente il Pcf), ma la comunanza degli obiettivi fa spavento e rafforza il pilatismo dei democratici per bene. Così, se una svolta seria sarebbe la salvezza di una sinistra, questa non si vede. Non ha votato senza aprir becco quel “Fiscal compact” che le preclude ogni possibilità di movimento? Arancioni e magistrati, Alba e Verdi, ora come ora, la minacciano più che non la sostituiscano. Così l’Italia si è scordata di come sono finiti gli anni venti del secolo scorso e, ignorando ogni avvertimento, propone un modesto cambio di persone per continuare a fare quel che finora ha fatto. Siamo al punto di un anno fa.
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