IL PALOMBARO LUNGO
Matera, scavata in un millennio nella pietra non presenta nelle due “caldere” dei sassi “barisano” e “caveoso”, sorgenti d'acqua.
Ogni casa liberata e scaturita dalla pietra, aveva i suoi pluviali di raccolta dell'acqua piovana.
All'inizio del sedicesimo secolo, quando la città al contrario, la città dell'architettura in negativo che creava i vuoti, era fiorente e la vita piacevole come è tornata ad essere oggi; quando nella pietra abitavano popolo e signori.
Prima che l'equilibrio sociale ed ambientale si rompesse.
Prima che il Regno d'Italia assegnasse ai galantuomini – per censo, naturalmente – le terre demaniali ed anche quelle confiscate al clero, rendendo contadini e piccoli artigiani miserabili.
Prima, insomma, che si realizzassero le bolge infernali che ha disceso Carlo Levi, sollevando il sudario sulle condizioni del popolo meridionale.
All'inizio del sedicesimo secolo i materani hanno iniziato la costruzione della loro cattedrale, che non è quella dedicata alla Madonna della Bruna e a Sant'Eustacchio, quella che spicca sul bordo comune dei due sassi.
E' un'altra ed è una costruzione in negativo, realizzata cioè togliendo materia e non affastellandola.
E' sotto piazza Vittorio Veneto, nel cuore pulsante della vita cittadina, riportata alla luce da poco più di vent'anni, dopo quasi un secolo di damnatio memoriae che ne aveva cancellato ogni traccia.
Una cattedrale che ha richiesto tre secoli di lavoro a colpi di piccone e con l'uso sapiente di una malta a base di cocci di ceramica tritati, necessaria a compensare la porosità del tufo svardato, un'arenaria di origine marina.
Una cattedrale che ha richiesto il lavoro di generazioni e generazioni di materani, che ha una profondità di sedici metri ed una capacita di cinquemila metri cubi.
E' il Palombaro lungo, una cisterna di raccolta delle acque piovane e delle acque sorgive del piano, con un sistema di canalizzazioni per l'immissione dell'acqua e per il decantamento del “troppo pieno” in modo che nulla si sprecasse..
A Matera ce ne sono altri quattro di palombari (u palummero in dialetto, ma sempre dal latino palumbarius, cioé colui che si immerge per giungere alla meta), più piccoli, e questo è detto “lungo” perché sulla superficie dove oggi c'è la fontana di piazza Vittorio Veneto si aprivano sei pozzetti con cui sei donne – che l'incombenza era a loro riservata – potevano calare in conteporanea i propri secchi per rifornirsi del necessario chiacchierando.
Tre secoli di lavoro per completare una meravigliosa cattedrale dell'acqua, in cui ciascuno contribuiva col suo lavoro alla sua realizzazione e a cui ciascuno faceva ricorso per le proprie necessità, senza dover chiedere il permesso ad alcuno e senza che alcuno chiedesse il soldo.
Il Palombaro lungo, come gli altri palombari di Matera, non erano né dell'autorità civile,né di quella religiosa (anche se l'arcivescovado ebbe un ruolo propulsivo nella realizzazione dell'opera).
Il Palombaro lungo era un bene comune, come l'acqua preziosa che dispensava.
Come ha fatto questo paese a finire nelle mani di Renzi e nel cappio di Acea?
Ogni casa liberata e scaturita dalla pietra, aveva i suoi pluviali di raccolta dell'acqua piovana.
All'inizio del sedicesimo secolo, quando la città al contrario, la città dell'architettura in negativo che creava i vuoti, era fiorente e la vita piacevole come è tornata ad essere oggi; quando nella pietra abitavano popolo e signori.
Prima che l'equilibrio sociale ed ambientale si rompesse.
Prima che il Regno d'Italia assegnasse ai galantuomini – per censo, naturalmente – le terre demaniali ed anche quelle confiscate al clero, rendendo contadini e piccoli artigiani miserabili.
Prima, insomma, che si realizzassero le bolge infernali che ha disceso Carlo Levi, sollevando il sudario sulle condizioni del popolo meridionale.
All'inizio del sedicesimo secolo i materani hanno iniziato la costruzione della loro cattedrale, che non è quella dedicata alla Madonna della Bruna e a Sant'Eustacchio, quella che spicca sul bordo comune dei due sassi.
E' un'altra ed è una costruzione in negativo, realizzata cioè togliendo materia e non affastellandola.
E' sotto piazza Vittorio Veneto, nel cuore pulsante della vita cittadina, riportata alla luce da poco più di vent'anni, dopo quasi un secolo di damnatio memoriae che ne aveva cancellato ogni traccia.
Una cattedrale che ha richiesto tre secoli di lavoro a colpi di piccone e con l'uso sapiente di una malta a base di cocci di ceramica tritati, necessaria a compensare la porosità del tufo svardato, un'arenaria di origine marina.
Una cattedrale che ha richiesto il lavoro di generazioni e generazioni di materani, che ha una profondità di sedici metri ed una capacita di cinquemila metri cubi.
E' il Palombaro lungo, una cisterna di raccolta delle acque piovane e delle acque sorgive del piano, con un sistema di canalizzazioni per l'immissione dell'acqua e per il decantamento del “troppo pieno” in modo che nulla si sprecasse..
A Matera ce ne sono altri quattro di palombari (u palummero in dialetto, ma sempre dal latino palumbarius, cioé colui che si immerge per giungere alla meta), più piccoli, e questo è detto “lungo” perché sulla superficie dove oggi c'è la fontana di piazza Vittorio Veneto si aprivano sei pozzetti con cui sei donne – che l'incombenza era a loro riservata – potevano calare in conteporanea i propri secchi per rifornirsi del necessario chiacchierando.
Tre secoli di lavoro per completare una meravigliosa cattedrale dell'acqua, in cui ciascuno contribuiva col suo lavoro alla sua realizzazione e a cui ciascuno faceva ricorso per le proprie necessità, senza dover chiedere il permesso ad alcuno e senza che alcuno chiedesse il soldo.
Il Palombaro lungo, come gli altri palombari di Matera, non erano né dell'autorità civile,né di quella religiosa (anche se l'arcivescovado ebbe un ruolo propulsivo nella realizzazione dell'opera).
Il Palombaro lungo era un bene comune, come l'acqua preziosa che dispensava.
Come ha fatto questo paese a finire nelle mani di Renzi e nel cappio di Acea?
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