Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 30 ottobre 2019

Art Blakey, cent'anni di "Drummitudine"

Luciano Granieri





Ottobre è il mese del vino, o almeno una volta lo era, oggi in nome del Dio mercato  il succo d’uva fermentato si fa  tutto l’anno. Ma forse per la particolare vena di follia che porta il nettare di bacco, è fuori dubbio che  nel mese in cui l’inverno comincia a bussare alle porte   nascano dei geni creativi. 

Non è un caso che proprio in ottobre 100 anni fa nasceva uno dei più grandi musicisti  della storia del jazz. Era l’11 ottobre del 1919 quando a Pittsburgh Pennsylvania veniva alla luce  Art Blakey  uno dei più grandi batteristi,  e band leader della storia del jazz. 

Una vita tormenta, non conobbe mai il suo vero padre e perse la madre a soli 5 mesi, fu allevato da una cugina materna molto religiosa appartenete ad una famiglia avventista del settimo giorno. Operaio adolescente nelle acciaierie Carnagie di Pittspburgh, vittima, come tutti i suoi compagni neri dei più violenti episodi di razzismo. Nel 1942 un poliziotto gli sfonda a manganellate un’arcata sopraccigliare, sostituita dai medici con una piastra metallica. Unica colpa quella di aver reagito all’arresto perché sorpreso in macchina a chiacchierare con un bianco  musicista   suo compagno  nell’orchestra di Fletcher Henderson, formazione in cui allora militava. E si sa un nero se si mette  a parlare nella macchina di un bianco commette  un reato.  

Svezzato come operaio in fabbrica, maturato sotto le manganellate della polizia, non c’è che dire un eccellente back ground sociale , preciso per suonare jazz che è forse l’unica espressione culturale mondiale  nata dagli sfruttati. Blakey cresce a pianoforte e bibbia per poi dedicarsi interamente a  pelli e piatti.  

Se il jazz è patrimonio culturale dell’Unesco, Art Blakey è patrimonio incommensurabile del jazz. In mezzo secolo di carriera con i suoi Jazz Massengers, ha  percorso in lungo ed il largo la vie della musica afroamericana, cresciuto nel mito di batteristi come  Sidney Catlett e soprattutto di Chuck Web, swinga  mirabilmente nell’orchestra di Fletcher Henderson, uno che aveva tenuto a battesimo nei locali di New York, un’imberbe  Louis Armostrong. 

All’inizio degli anni ‘40 è in gestazione il fragore del Be Bop. I ragazzi usciti dall’orchestra del cantante Bill Eckstine, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, oltre che Sarha Vaughan, Dexter Gordon, Kenny Dorham, stanno mettendo a punto i loro voli pindarici dentro il Minton’s . Non è un caso che il batterista dell’orchestra di Eckstine sia proprio Art Blakey.

 Con Partker, Gillespie, Miles Davis, anima in "combo" le serate del Birdland.  Ma  è nel 1947 che con otto  transfughi dell’orchestra di Eckstine, entra in sala d’incisione per incidere il primo disco a nome "Art Blake’s Messangers", non un gran che invero, ma da allora la leggenda di Blakey e dei suoi Messangeri del Jazz entra nella storia, soprattutto quando nel 1952 incontra Horace Silver, un pianista il cui stile si sposa bene con le idee del batterista di Pittsburgh. 

E’ un periodo,quello dei ’50, in cui il Be Bop sta perdendo il suo smalto. Uno stile frenetico in cui nel breve arco di 3 -4 minuti un musicista deve esprimere tutta la sua vena creativa non è precisamente il massimo per l’industria discografica . 

Il nuovo stile “Hard Bop” di  cui Blakey è uno degli inventori , dilata temporalmente le esecuzioni, i pezzi diventano più lunghi, il blues torna, calmierando, per certi versi,  i bollenti spiriti delle infuocate improvvisazioni Be Bop. Ne scaturisce    una musica che, pur non prescindendo dalle corse sfrenate, rilascia  suggestioni emotive dall’elevata intesità. 

Ancora roba per grandi musicisti e dai Messengers di Blakey  ne sono passati tanti nel corso di decenni.   Dai trombettisti Kenny Dorham, Lee Morgan, Freddie Hubbard, fino agli ultimi Wynton Marsalis, Wallece Rooney, ad una pletora di sassofonisti, Jackie Mc Lean, Johnny Griffin, Wayne Shorter,  Branford Marsalis, e ancora pianisti del calibro di Bobby Timmons, Cedar Walton, Keith Jarret, l’elenco è sterminato, non vado oltre, fatto sta che   grazie alla perizia   nello scovare talenti  il contributo di Blakey è andato oltre l’apporto prettamente musicale   del grande batterista,  contribuendo ad arricchire  la  scena jazzistica  di  grandi musicisti. 

La massima dedizione ha sempre contraddistinto la sua vita artistica, non si risparmiava mai, era capace di suonare per ore con le sue bombe alla Philly Jo Jones che scaturivano da un drumming coinvolgente, affascinante, che spingeva anche chi non era addentro alla cose ritmiche a battere il piede.  

Ne rimasi impressionato quando verso la metà degli anni 80’ (era l’83 o l’84)  andai a vederlo in un concerto al Music Inn di Roma. Dovevano esibirsi con lui i fratelli Marsalis:  Wyton , tromba e Branford Sax, musicisti di cui allora si dicevano mirabilie. In realtà  apprezzammo altri giovani talentuosi musicisti che nel frattempo li avevano sostituiti . Erano Terence Blanchard alla tromba,  Billie Pierce al tenore, con loro  Donald Harrison al sax alto,  Johnny O’Neal al piano e Charles Fambrough al basso. Il set fu straordinario.  Dopo quasi tre ore di musica  i giovani jazzisti  che lo accompagnavano erano esausti, lui ,Blakey dall’alto del suo armamentario di pelli e cimbali continuava a deliziarci con una potenza ritmica inusitata. 

E’ proprio vero, ottobre è il mese degli effluvi  creativi  un po’ folli, e uno come Blakey non poteva che nascere in una giornata di ottobre di cento anni fa.

lunedì 28 ottobre 2019

Valle del Sacco e Frosinone le facce del degrado fra analisi e provocazioni.

Luciano Granieri


Domenica scorsa 27 ottobre 2019 si è svolto presso Piazza Garibaldi l’incontro dibattito  "Giornata per la Vita Terre Avvelenate”. Un evento, organizzato dall’associazione “Spazio Arte Rigenesi” di Fabiana Fattori e Riccardo Spaziani, in si è ragionato  sul degrado della Valle del Sacco e della città di Frosinone in particolare. Oltre ai relatori, appartenenti ad associazioni che si occupano delle problematiche socio-ambientali del territorio,  hanno fornito il loro decisivo, dissacrante e ironico contributo gli attori del teatro di strada Guglielmo Bartoli, Milena Frantellizzi, e il giovane maestro di giocoleria Elia Bartoli. A tutti loro va un grande ringraziamento, perché il grave problema dell’inquinamento nel nostro territorio va affrontato in modo sistematico. Svegliarsi  solo quando va a fuoco un’azienda di stoccaggio e smaltimento rifiuti, o quando compare la schiuma nel fiume Sacco o in concomitanza di mefitici  miasmi provenienti dalle discariche, per poi dimenticarsi del problema è riduttivo e nocivo . Di seguito il  contenuto  del mio intervento al dibattito al quale ho avuto l’onore di partecipare grazie all’invito di Riccardo  e Fabiana che ringrazio ancora.

L'attrice Milena Frantellizzi (alias Marianicola) insieme al moderatore Francesco Notarcola


Trasparenza e Competenza

La  piaga della Valle del Sacco, il  degrado globale della nostra provincia, in termini d’inquinamento, tutela della salute, qualità della vita   puntualmente, condannano  il nostro territorio   ad occupare i primi posti fra i luoghi in cui si vive peggio. Periodicamente il tema assurge all’onore delle cronache a seguito di qualche evento particolare, poi si ritorna nel limbo. C’è l’incendio della Mecoris? Per un po’ di tempo si parla delle emissioni nocive nell’aria della nostra città, poi tutto passa in cavalleria. Compare la schiuma nel fiume Sacco? S’intensificano le ricerche dell’untore della acque per non vedere che l’inquinamento dell’asta fluviale è cronico, sedimentato nel tempo, e  non basta perseguire, per quanto sia giusto, il lavagista che ha sversato sapone nell’acqua per risolvere il problema. Arrivano  i rifiuti da Roma,  odori mefitici di diffondono nell’aria? Per qualche settimana le pagine dei giornali e i  social media si riempiono del più che giustificato rifiuto del territorio  a diventare la discarica d’Italia, ma la possibilità di una diversa gestione della raccolta e dello smaltimento dell’immondizia  viene considerata in modo sommario.  

Un argomento che   viene poco affrontato, ma secondo me è di fondamentale importanza riguarda  l’urbanizzazione selvaggia.  Osserviamo attentamente  la nostra città. Frosinone è invasa da colate di cemento in continua espansione.  Nell’ultimo rapporto  Ispra, si rileva che nel 2018 a fronte di un consumo di suolo provinciale del 7%  e regionale dell, 8,1%   Frosinone spicca per un clamoroso e devastante 29%. Per consumo di suolo s’intende la concentrazione di insediamenti abitativi, di attività industriali,  produttive in aree definite. L’abnorme cessione di spazi verdi al cemento comporta l’aumento della velocità di scorrimento delle acque verso i fiumi,  l’annullamento dell’effetto filtro del terreno sugli inquinanti, la drastica diminuzione dell’effetto di assorbimento del particolato da parte degli alberi . Per contro   si genera un  incremento dei reflui nocivi, l’immissione in atmosfera di aria inquinata generata dagli scarichi delle autovetture, degli impianti di riscaldamento , dalle industrie , il tutto amplificato  se in queste aree gli  impianti di depurazione idrica e controllo delle emissioni sono insufficienti  e non si applicano le direttive di sicurezza sulle emissioni degli insediamenti industriali ad alto impatto ambientale. Il risultato di questo scempio si deve alla completa cessione della pianificazione urbanistica pubblica  agli interessi dei fondi di speculazione immobiliare  e all’urbanistica contrattata. 

Vi invito a fare un giro per la città.  Andate  a De Matthaeis  in Via Tiburtina.  Di  fronte all’ufficio postale è in costruzione una lottizzazione  di due stabili con offerta di appartamenti e locali adibiti a utilizzo commerciale. Se vi  girate dall’altro lato della strada  ci sono negozi che stanno chiudendo palazzi in cui su   quasi ogni balcone si legge la scritta “Vendesi o Affittasi” . Viene dunque da chiedersi che vantaggio c’è ad asfaltare   spazi verdi  per costruire alloggi e negozi quando la città si sta spopolando e  le attività commerciali stanno chiudendo?  Nessuno per i cittadini, ma ciò arreca molti vantaggi  per i detentori di patrimoni  nei fondi immobiliari i quali speculano sul fluttuare del valore degli immobili, sulle modificazioni delle destinazioni d’uso.  Per non parlare dell’edilizia contrattata per cui un Comune, impossibilitato a causa del  patto di stabilità interna, ad investire in opere utili alla cittadinanza. Per provvedere alla sistemazione di una piazza deve interessare l’edilizia privata  che, in cambio del lavoro, potrà disporre di  ampie parti di città dove costruire  palazzoni e mega strutture. 

La morale, come diceva una pubblicità di un tempo, è sempre quella. Quando l’interesse della speculazione privata prevale sul bene pubblico, i cittadini vanno inevitabilmente  incontro crollo della qualità della vita. Per tornare alle città, come Frosinone, ma anche gli altri insediamenti urbani della Valle del Sacco,  bisogna ricordare come rimanga critica la depurazione delle acque reflue. 58 Sono i depuratori mal funzionanti o per nulla funzionanti, guarda caso gestiti tutti da Acea che preferisce elargire dividendi milionari ai propri azionisti, anziché sistemare i depuratori urbani  ed impedire che gli scarichi fognari vadano direttamente nei fiumi. 

Quali le soluzioni? Restituire la città ai loro veri padroni, i cittadini. Eliminare il patto di stabilità interna, odiosa conseguenza del fiscal compact, velenoso lascito dei trattati imposti dalla Ue, in modo che ogni  Municipio possa disporre di  finanze  proprie o, al limite, ricorrere a finanziamenti  da banche pubbliche d’investimento – altra istituzione che manca e Dio sa quanto sarebbe benedetta -per gestire direttamente i servizi alla città in primis quelli destinati alla tutela ambientale.  La quota    dei Comuni sul debito pubblico, che è ormai arrivato a 2400 miliardi, è pari all 1,8% e allora perché questi devono subire tagli draconiani per  ammanchi che non hanno prodotto, se non in minima parte?  

Inoltre  i soldi gestiti dalle amministrazioni comunali , in collaborazione  con associazioni di cittadini, aggiungo io,  sarebbero anche spesi meglio.  Riporto un esempio del  clamoroso spreco di denaro pubblico  stanziato a favore dell’incremento di energia verde.  Per la diffusione delle energie rinnovabili   lo Stato Italiano stanziò  degli incentivi a favore di  chi avesse voluto installare un sistema fotovoltaico. Il “conto energia” così si chiamava l’agevolazione partita nel 2006 e interrotta  nel 2013.  Prevedeva una quota di contributo   per ogni kw di energia prodotta con sistemi fotovoltaici, per la  durata  del  ciclo di vita di un impianto, che mediamente è di  25 anni. Di fatto gli  ultimi utenti che hanno usufruito di questi incentivi , installando impianti nel 2013, acquisiranno il bonus fino al 2038.  Il problema vero è che essendo l’agevolazione legata  all’energia prodotta, più grande era l’impianto, più alta era la somma ricevuta,  hanno usufruito quindi di questi sgravi,  solo banche e grandi aziende, le prime perché hanno finanziato importanti  strutture in cambio della cessione dell’incentivo, le  seconde perché hanno costruito vere e proprie centrali, talmente imponenti , da consentire di vendere l’energia prodotta ricavandone profitto, ed avere un rendimento finanziario sicuro per 25 anni. Il tutto dal 2006 ad oggi, ed anche in futuro, ha   e avrà un costo per  le finanze pubbliche di 6,7 miliardi l’anno. 

Se da allora e fino alla scadenza degli incentivi  quei 6,7 miliardi l’anno fossero stati dati ai Comuni  , si sarebbero potuti  pianificare programmi di riqualificazione energetica urbana   pubblica  attraverso il finanziamento totale o parziale (da definire in base al reddito)  di impianti fotovoltaici a favore degli alloggi residenziali ,  o edifici di proprietà comunale, le scuole ad esempio. Oppure si sarebbero potuti finanziare piani di riconversione elettrica della mobilità urbana. 

Ecco perché, tornando alla Valle del Sacco, mi preoccupa  il destino di quei 53 milioni destinati alla bonifica, visto che la loro gestione, affidata alla Regione  Lazio, vedrà incarichi importanti di coordinamento attribuiti  ad   enti esterni ed  aziende private, come la Pricewaterhouse Cooper Advisor Spa, o la Ecoter Srl  per carenza di personale regionale  dedicato, queste le motivazioni dell’ente. 

Non vi è stato  alcun  coinvolgimento del Coordinamento dei Sindaci della Valle del Sacco ,  del resto questo organismo, creato ad hoc, si è disgregato visto che ad alcuni sindaci non interessa granchè della salute dei propri cittadini a cominciare da quello di Frosinone . Fortunatamente il commissario incaricato all’attuazione delle azioni di bonifica ha convocato le associazioni di cittadini  come Retuvasa, che da tempo si occupano  della Valle del Sacco, per coinvolgerle ed informarle sui piani di azione.  

Visti i precedenti   sembra una discreta apertura. Allora facciamo appello a loro e a tutti i cittadini , affinchè controllino scrupolosamente il destino   di questi  53 milioni di euro.  E’ fondamentale perché   troppe volte soldi investiti per  la collettività hanno finito per arricchire qualcuno, peggiorando, anziché migliorarle,  le condizioni di vita dei cittadini. E noi cittadini della Valle del Sacco saremmo anche stanchi di subire il  degrado della nostra salute e dalla qualità della vita in genere, dopo aver visto passare milioni e milioni di euro sprecati o spesi per ingrassare i soliti potentati politico-finanziari.