Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 30 dicembre 2017

Cdp e Tesoro taglieggiano i comuni

Marco Bersani



Uno dei vincoli introdotti dal Trattato di Maastricht riguarda il divieto per i Paesi membri di ricorrere all’assistenza finanziaria dell’Unione, di altri Paesi membri o delle Banche centrali, obbligando gli Stati a rivolgersi ai mercati per il proprio fabbisogno di finanziamento.
Questo ha comportato il paradosso che, da quando, nel gennaio 2015, la Banca Centrale Europea di Mario Draghi ha adottato la politica del Qe (Quantitative Easing), ovvero una massiccia iniezione di liquidità attraverso acquisti programmati di titoli finanziari negoziati sul mercato, i beneficiari di questa enorme massa di denaro a tassi di interesse vicini allo zero siano state le banche, che, con quei soldi, hanno potuto finanziare gli investimenti pubblici, in particolare degli enti locali, ma a tassi di mercato, realizzando profitti da una mera «partita di giro».
Questa sorta di speculazione legalizzata, che dovrebbe di per sé suscitare un’indignazione generale da parte degli amministratori locali, diventa ancor più intollerabile se a praticarla è Cassa Depositi e Prestiti, che, per quanto azienda privatistica, vede il Ministero delle Finanze detenere oltre l’80% del capitale sociale.
Di fatto si tratta di un taglieggiamento dello Stato ai Comuni, che si somma alle forti riduzioni di trasferimenti agli stessi ( 9 miliardi in meno negli ultimi sette anni) e ai vincoli del patto di stabilità interno e del pareggio di bilancio ( -32% della spesa per investimenti).
Per tutte queste ragioni, va salutata con favore l’iniziativa del Comune di Brescia che ha deciso di fare causa a Cassa Depositi e Prestiti per gli elevatissimi tassi di interesse praticati su un mutuo contratto per la realizzazione della metropolitana: a fronte di valori di mercato pari al 2,5%, il Comune di Brescia ha dovuto pagare il 5,69% fino al 2016 e deve pagare, da quest’anno al 2045, il 5,27%. Non può neppure rescindere il contratto, perché, in tal caso, pagherebbe una penale tra i 65 e i 90 milioni. Di fatto, nei prossimi 28 anni, per un mutuo di 124 milioni, il Comune di Brescia pagherà 215 milioni di interessi.
La situazione del Comune di Brescia non è un caso isolato, ma riguarda la quasi totalità degli enti locali. Cassa Depositi e Prestiti si difende asserendo che i tassi applicati sono diretta conseguenza della normativa e delle condizioni fissate dal Ministero delle Finanze.
Da qualsiasi parte la si prenda, è evidente come servano almeno due provvedimenti normativi urgenti: da una parte una legge che socializzi Cassa Depositi e Prestiti, facendo uscire la parte di gestione del risparmio postale (250 miliardi) dal circuito della speculazione finanziaria per destinarlo a finanziare gli investimenti pubblici locali; dall’altra, un provvedimento normativo che fissi tassi di interesse agevolati per gli stessi.
Sono provvedimenti possibili solo se, dal basso, le comunità territoriali e gli enti locali riescono ad uscire dalla rassegnazione, rifiutandosi di assegnare la priorità al pagamento del debito e all’osservanza del pareggio di bilancio rispetto alla spesa per il welfare, la quale, garantendo diritti, servizi e beni comuni, non può mai essere inferiore al necessario, né pregiudicata da alcun vincolo finanziario.
Il Comune di Brescia ha aperto la via giudiziaria, ma occorre riaprire la strada della politica, quella dal basso e partecipata dalle comunità locali: proviamo a immaginare cosa succederebbe se 100 fra grandi città, comuni medi e piccoli sospendessero il pagamento degli interessi sui mutui contratti con Cdp fino a che il Parlamento non approvi una drastica riduzione dei tassi applicati?
Sono molte le strade per riappropriarsi di ciò che ci appartiene: occorre tuttavia aver chiaro come ciascuna di esse richieda conflitto e, di conseguenza, comunità territoriali consapevoli del proprio destino.
fonte il manifesto del 30/12

SCIOGLIMENTO DELLE CAMERE, ALFIERO GRANDI: «ARCHIVIATA UNA DELLE LEGISLATURE PEGGIORI. NON VOTARE I PARTITI CHE HANNO VOLUTO UNA PESSIMA LEGGE ELETTORALE»

Ufficio Stampa Coordinamento Democrazia Costituzionale



«Con lo scioglimento delle Camere si conclude una legislatura da archiviare come una delle peggiori. Questo parlamento, che avrebbe dovuto essere sciolto dopo la sentenza della Corte che ha dichiarato incostituzionale il porcellum, ha continuato perdendo due anni a rimorchio del governo Renzi con l'unico obiettivo di deformare la Costituzione». Alfiero Grandi, vicepresidente del Coordinamento per la democrazia costituzionale (ex Comitato per il no), commenta così l'annuncio dello scioglimento delle Camere da parte del presidente Mattarella. «I cittadini - prosegue Grandi - hanno votato no il 4 dicembre 2016 e il disegno è andato all'aria ma questo parlamento non è riuscito ad approvare neppure lo ius soli».

«Non rimpiangeremo questo parlamento - aggiunge Grandi - Purtroppo sul prossimo grava il peso di una pessima legge elettorale che di fatto impedisce agli elettori di eleggere, scegliendoli, i loro rappresentanti in parlamento. Avremo un altro parlamento nominato dai capi partito e non dagli elettori».

«Malgrado questo gravissimo limite - conclude Grandi - occorre andare a votare e per quanto ci riguarda ricorderemo agli elettori e alle elettrici chi sono i partiti che hanno voluto questa legge elettorale invitando a non votarli. Hanno forzato la mano con 8 voti di fiducia. A noi resta solo di non votarli».
 

giovedì 28 dicembre 2017

A proposito di Gerusalemme capitale

Agostino Spataro.



 La comunità internazionale ha respinto l’improvvida decisione del presidente USA, Donald Trump, di avallare la scelta adottata dai governanti israeliani, unilateralmente e in difformità delle deliberazioni dell’Onu, di proclamare Gerusalemme capitale dello stato d’Israele.
Tale scelta viene giudicata preoccupante, inopportuna sul terreno politico e della sicurezza per le conseguenze gravissime che può determinare (che sta già determinando) fra i popoli palestinese e israeliano e gli altri della regione e, soprattutto, perché  lede lo spirito e la lettera delle diverse risoluzioni dell’ONU a riguardo, introducendo un ulteriore elemento di destabilizzazione nella martoriata regione mediorientale e mediterranea.
Bene, dunque, hanno fatto i governi europei e, fra questi anche il governo italiano e il Vaticano, a manifestare contrarietà verso tale decisione e a ribadire il rispetto per i diritti nazionali del popolo palestinese e quelli delle altre due religioni (cristiana e islamica) che considerano “luogo santo” la città di Gerusalemme.
I sottostanti materiali (estratti da una pubblicazione ufficiale delle Nazioni Unite) evidenziano, con estrema chiarezza, lo status di “corpo separato”, sotto regime internazionale speciale, della città che non può essere alterato da alcuna decisione unilaterale e al di fuori dell’ambito ONU.
Tale assunto è sempre in vigore non essendo stato mai revocato dalle Nazioni Unite.
Purtroppo, non è questa la prima volta che vengono aggirate, violate le risoluzioni in materia.
In primo luogo da Israele  che, paradossalmente- come si potrà rilevare dalla sottostante lista- può vantare un doppio primato: quello di essere il primo Stato al mondo creato dalle Nazioni Unite ed il primo nella graduatoria degli Stati che più disattendono le decisioni dell’ONU.
Come dire: il figlio che non rispetta le decisioni della madre (Onu) che lo ha generato!
Non è superfluo ricordare che l’Onu, nonostante l’indebolimento provocato dall’unilateralismo israeliano e statunitense, praticato da vari presidenti Usa (da Reagan in poi), resta l’unica fonte, universalmente riconosciuta, della legalità internazionale.
Qualsiasi governo è tenuto a osservare le sue decisioni e raccomandazioni.
Chi non le osserva si mette fuori della legalità internazionale.
A maggior ragione dovrebbe osservarle Israele, uno Stato che è figlio diretto di una decisione dell’Onu. Ma, così non è stato e non è. Soprattutto nella gestione dei suoi difficili rapporti con i popoli e gli Stati vicini (Palestinesi, Siria, Libano, Giordania).
Per chi desidera documentarsi sulle principali violazioni israeliane in materia può consultare la vasta documentazione prodotta dalle Nazioni Unite e da altri organismi internazionali.
Per agevolarne l’approccio, segnaliamo i passaggi più significativi di un documento elaborato e diffuso dall’Onu (“Le statut de Jérusalem”, New York, 1997) che ricostruisce (fino all’anno della pubblicazione) l’exursus storico e politico della questione di Gerusalemme:
Pag. 1: Un regime internazionale speciale per Gerusalemme
“L’Onu, che tende a dare una soluzione permanente al conflitto (arabo-israeliano n.d.r.), adotta nel 1947 un piano di spartizione della Palestina che prevede la divisione della Palestina in uno Stato arabo e uno Stato ebraico e la costituzione della città di Gerusalemme in corpus separatum sotto regime internazionale speciale, amministrata dal consiglio di tutela dell’Onu.” 
Pag. 2: La comunità internazionale considera nulla l’annessione della “Città santa”
“Dopo la guerra del 1967, Israele s’impadronisce di Gerusalemme – est (settore arabo n.d.r.) e dei territori palestinesi e fa sparire la linea di demarcazione fra i settori est e ovest…Israele che ha già annesso Gerusalemme – est, proclama, nel 1980, “Gerusalemme intera e riunificata la capitale d’Israele”…
“Tuttavia, la pretesa israeliana su Gerusalemme non è riconosciuta dalla comunità internazionale che condanna l’acquisizione dei territori mediante la guerra e considera come nullo e non avvenuto ogni cambiamento sul terreno”.
Pag. 9: Gli arabi disposti ad accettare il regime internazionale su Gerusalemme
“La commissione di conciliazione (di cui alla risoluzione n. 194 adottata dall’Assemblea generale dell’Onu l’11 dicembre 1948) fa sapere che le delegazioni arabe erano, nell’insieme, pronte a accettare il principio di un regime internazionale per la regione di Gerusalemme a condizione che l’Onu ne garantisse la stabilità e la permanenza. Israele, dal suo lato, riconoscendo che la Commissione è legata alla risoluzione 914 dell’Assemblea generale, dichiara che non può accettare senza riserve che i Luoghi santi siano posti sotto un regime internazionale o sottomessi a un controllo internazionale.”
Pag. 11: Gerusalemme, corpus separatum
“…l’Assemblea generale (dell’Onu ndr) riafferma le disposizioni del piano di ripartizione secondo il quale Gerusalemme sarà un corpus separatum amministrato dalle Nazioni Unite, l’Assemblea invita il Consiglio di tutela a concludere la messa a punto dello Statuto di Gerusalemme…e chiede agli Stati interessati d’impegnarsi formalmente a conformarsi alle disposizioni della risoluzione…(n. 333)”
Pag. 12: Dayan, occupa Gerusalemme
Il generale Moshe Dayan, vincitore della guerra lampo detta dei “sei giorni” dichiara il 7 giugno 1967: “le forze armate israeliane hanno liberato Gerusalemme. Noi abbiamo riunificato questa città divisa, capitale d’Israele. Siamo rivenuti nella Città santa e non ce ne andremo più”
Pag. 13: le autorità d’occupazione sciolgono il consiglio municipale di Gerusalemme est
Secondo un rapporto di M. Thalmann, (rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per Gerusalemme) il 29 giugno 1967 un ordine della difesa militare (israeliana ndr) ha sciolto il Consiglio municipale composto di 12 membri che assicura la gestione di Gerusalemme – est sotto l’amministrazione giordana…Il Consiglio municipale di Gerusalemme – ovest, composto da 21 membri tutti israeliani, assorbe il vecchio consiglio, il personale tecnico arabo del municipio di Gerusalemme – est viene incorporato nei servizi corrispondenti della nuova amministrazione.”
Pag. 15: la Knesset proclama Gerusalemme riunificata capitale d’Israele
Il 29 luglio 1980, malgrado l’opposizione della comunità internazionale, la Knesset (parlamento israeliano ndr) adotta la “Legge fondamentale” su Gerusalemme che proclama Gerusalemme, intera e riunificata, capitale d’Israele, sede della presidenza, della Knesset, del governo e della Corte suprema.”
Pag. 20: nuove colonie ebraiche nelle terre dei palestinesi
“Si apprende che la gran parte dei beni palestinesi di Gerusalemme – est e dei dintorni è stata sottratta dalle autorità israeliane (mediante espropri e confische) in cinque tappe:
Gennaio 1968, circa 400 ettari nel quartiere Sheikh Jarrah dove vengono impiantate le prime colonie ebraiche per un totale di 20.000 persone;
Agosto 1970, circa 1.400 ettari in favore delle colonie di Ramat, Talpiot-est, Gilo e Neve Ya’acov dove vivono attualmente circa 101.000 ebrei;
Marzo 1980, circa 440 ettari destinati all’impianto della colonia di Pisgat Ze’ev destinata ad accogliere 50.000 ebrei;
Aprile 1991, circa 188 ettari per la realizzazione della colonia di Har Homa per un totale di 9.000 appartamenti;
Aprile 1992, circa 200 ettari sono destinati alla creazione della nuova colonia di Ramat Shu’fat per un totale di 2.100 nuovi appartamenti.
Pag. 27: il Consiglio di sicurezza dell’Onu esige il ritiro d’Israele dai territori occupati
“Nella famosa risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967, il Consiglio di sicurezza dell’Onu… sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori mediante la guerra e afferma che il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite esige il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati e il rispetto della sovranità, dell’integrità e dell’indipendenza politica di ogni Stato della regione.”
Pag. 28: Israele non applica la Convenzione di Ginevra
“Israele non ha riconosciuto l’applicabilità della Convenzione di Ginevra ai territori occupati dopo il 1967 col pretesto che non esiste alcuna sovranità legittima su questi territori dopo la fine del mandato britannico…”
“Il Consiglio di sicurezza nel 1979 ribadisce che la quarta Convenzione di Ginevra era applicabile ai territori arabi occupati da Israele dopo il 1967, compresa Gerusalemme…La decisione presa da Israele nel 1980 di promulgare una legge per l’annessione ufficiale di Gerusalemme est e che proclama la città unificata come capitale d’Israele è stata fermamente respinta non solo dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale dell’Onu, ma anche da diverse organizzazioni.
Pag. 30: l’Europa riconosce il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione
I Paesi europei hanno avanzato proposte che riconoscono il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; essi hanno sottolineato che non accettano “alcuna iniziativa unilaterale che ha lo scopo di mutare lo statuto di Gerusalemme” e che “ ogni accordo sullo statuto della città dovrà garantire il diritto di libero accesso per tutti ai Luoghi santi
(Dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1980 dei vertice dei Capi di stato e di governo della Cee)
Pag. 31: l’OLP, dichiara l’indipendenza della Palestina e riconosce lo stato d’Israele
Nel 1988, dopo la decisione della Giordania di rompere i suoi legami giuridici e amministrativi con la Cisgiordania, il Consiglio nazionale palestinese (Parlamento palestinese in esilio) ha adottato la Dichiarazione d’indipendenza e pubblicato un comunicato politico dove dichiara di accettare la risoluzione n.181 dell’Assemblea generale dell’Onu (sulla divisione del territorio ndr) e la risoluzione n. 242 (del 1967) del Consiglio di sicurezza e proclama “la nascita dello Stato di Palestina sulla terra palestinese, con capitale Gerusalemme”
Pag. 33: il consiglio di sicurezza chiede a Israele di smantellare le colonie
“La risoluzione n. 465 del 1 marzo 1980 contiene la dichiarazione più dura che il Consiglio disicurezza ha adottato sulla questione delle colonie di popolamento. In questa dichiarazione, il Consiglio deplora vivamente il fatto che Israele ha rigettato le sue risoluzioni precedenti e rifiutato di cooperare con la Commissione ( Onu)…
Il Consiglio qualifica la politica e le pratiche volte a impiantare nuove colonie di popolamento una “violazione flagrante” della quarta Convenzione di Ginevra e dice che sono “un grave ostacolo” all’instaurazione della pace in Medio Oriente; chiede al governo e al popolo israeliani di revocare le misure prese, di smantellare le colonie esistenti e di cessare subito ogni attività di colonizzazione. Chiede anche a tutti gli Stati di non fornire a Israele alcuna assistenza che sarà utilizzata specificamente per le colonie di popolamento dei territori occupati”.
agenzia di stampa Infopal

martedì 26 dicembre 2017

I palestinesi stanno vincendo la battaglia online per Gerusalemme

Yousef Alhelou * 

I citizen journalists palestinesi sono stati in grado di cambiare la percezione pubblica della Palestina in Occidente attraverso le attività di sensibilizzazione online.



L’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump su Gerusalemme, il 6 dicembre, ha scatenato l’indignazione in tutto il mondo, in particolare tra palestinesi, arabi, musulmani e sostenitori della Palestina.

Dimostrazioni popolari hanno avuto luogo dal Marocco all’Indonesia, tra una timida reazione dei politici di molti paesi arabi.
Mentre le proteste proseguono a Gaza e in Cisgiordania da due settimane con segnalazioni di proiettili artigianali sparati da Gaza senza nessuna rivendicazione da fazioni palestinesi, forze militari israeliane hanno usato forze sproporzionate. Sono venute alla luce scene scioccanti di bambini palestinesi arrestati, ammanettati e bendati, come nel caso dell’adolescente Fawzi al-Junadi, fotografato circondato da 22 soldati israeliani pesantemente armati nella città occupata di Hebron in Cisgiordania.

L’immagine iconica di Fawzi è diventata virale ed è diventata un simbolo delle proteste di Gerusalemme, con artisti e vignettisti internazionali che lo rappresentano nel loro lavoro.
Il 16 dicembre il ritratto del 29enne palestinese Ibrahim Abu Thuraya, costretto su una sedia a rotelle, è diventato virale, dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato alla testa uccidendolo, a Gaza est vicino alla recinzione del confine con Israele.

Abu Thurayya, che in precedenza aveva perso entrambe le gambe e la vista da un occhio a causa di un attacco aereo israeliano durante la guerra totale a Gaza nel 2008, è stato visto per l’ultima volta strisciare sulle sue mani attraverso prati pieni di fumo vicino alla recinzione, mentre tentava di appendere una bandiera palestinese.

Meno di 24 ore dopo la pubblicazione una video intervista fatta ad Abu Thurayya e filmata due giorni prima della sua uccisione era già stata vista 31.000 volte e condivisa per oltre 72.000.

Le piattaforme di social media come Facebook, Twitter e YouTube sono potenti strumenti nelle mani dei palestinesi e hanno cambiato il modo in cui vengono coperti gli eventi in Palestina. Grazie a questa tecnologia i palestinesi stanno facendo sentire la loro voce, mettendo in luce la sofferenza, le atrocità, la frustrazione e l’umiliazione di anni di occupazione militare israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e Gaza assediata.

Le riprese dal vivo sono state trasmesse in modo inedito e non censurato, trasmettendo il loro messaggio e facendo sentire la propria voce.

Muthanna al-Najjar, il fotoreporter palestinese locale che ha girato la breve intervista video con Abu Thurayya e l’ha condivisa sulla sua pagina Facebook, ha detto che il suo account è stato preso di mira più volte dagli hacker poco dopo aver postato la clip.
Nonostante ciò è stato travolto da quanto il suo video è stato ampiamente condiviso dalle news internazionali, dimostrando che i social media sono un ottimo strumento. Senza di essi, sa che il suo video non avrebbe raggiunto le decine di migliaia di utenti Facebook e il pubblico occidentale in tutto il mondo.

Muthanna al-Najjar ha affermato:
“Il fenomeno dei citizen journalist è cresciuto negli ultimi anni in tutta la Palestina, in particolare a Gaza, spesso bersaglio di attacchi aerei, marittimi e terrestri. La ragione è la consapevolezza del ruolo potente che i social media possono svolgere nell’attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla nostra situazione, soprattutto perché esiste una formazione offerta dai media centers e dalle istituzioni didattiche che forniscono consulenza agli utenti sull’importanza di essere credibili, utilizzando la terminologia corretta, postando notizie autentiche e tempestive”.
Dopo l’annuncio di Trump di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele e spostare l’Ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, le tensioni sono aumentate con dimostrazioni pacifiche quasi quotidiane.

La frustrazione ha spinto i palestinesi a pubblicare su Twitter, usando molti hashtag sia in inglese che in arabo come #HandsOffJerusalem, #Jerusalem, #FreePalestine, #SaveAlQuds e #JerusalemIsTheCapitalOfPalestine.

Molti hanno sottolineato che Gerusalemme è una città occupata nel 1967 e esortato gli arabi, i musulmani e i sostenitori della giustizia a intervenire.

L’immagine iconica di Fawzi è diventata virale e simbolo delle proteste di Gerusalemme.

Attivisti palestinesi e citizen journalists hanno preso l’iniziativa trovando spazio nei social media, che hanno permesso loro di esprimere le loro delusioni. Le riprese dal vivo sono state trasmesse in modo inedito e non censurato, trasmettendo il loro messaggio e facendo sentire la propria voce.


Il professor Kamel Hawwash, un accademico palestinese britannico che insegna all’Università di Birmingham, afferma che le nuove piattaforme mediatiche hanno un ruolo da svolgere per mostrare al mondo cosa sta accadendo in loco. “I social media consentono alle persone di condividere notizie, diffondere foto e video che riflettono la vita quotidiana sotto occupazione, tutto ciò che serve è uno smartphone con connessione a Internet”, ha detto.

In un’intervista televisiva con Maan TV, il giornalista e analista palestinese Nasser al-Lahham, direttore dell’agenzia di stampa Maan in Palestina, ha descritto ciò che sta avvenendo come una rivoluzione contro l’imperialismo americano, il colonialismo, i coloni israeliani e l’oppressione contro il popolo palestinese che combatte per la libertà.

“Non dobbiamo sottovalutare il potere delle immagini e dei filmati che emergono dall’interno dei territori occupati e da tutto il mondo: le forme di resistenza si sono evolute alla luce dei social media rispetto a 17 anni fa, prima dell’avvento di Internet”.


I palestinesi stanno vincendo la battaglia online e Israele non può impedire la diffusione delle immagini strazianti delle ingiustizie israeliane contro i palestinesi, alcune delle quali sono diventate simboli iconici della resilienza e della sfida. Mentre il divieto israeliano di utilizzare le tecnologie 3G per le sole due compagnie di telecomunicazioni e mobili palestinesi ha causato problemi, alcuni giornalisti palestinesi e attivisti dei social media utilizzano le sim israeliane Orange – una rete molto più veloce – per poter trasmettere, pubblicare e condividere contenuti in tempo reale.

L’accademica e scrittrice palestinese-britannica Ghada Karmi ha detto che “non c’è dubbio che i social media hanno un ruolo importante, sono il miglior mezzo e la principale fonte di informazione che le persone usano, poiché i palestinesi sono spesso sotto l’influenza della narrativa israeliana che sta cercando di sopprimere il ruolo palestinese della storia”.

Negli ultimi anni, le autorità israeliane hanno monitorato gli account Facebook dei palestinesi, arrestandone centinaia in tutta la Cisgiordania e Gerusalemme Est insieme a cittadini palestinesi con cittadinanza israeliana, accusati di incitamento alla violenza.

Mentre i palestinesi considerano i loro post un’espressione essenziale della situazione, le autorità israeliane spesso li classificano, compresi quelli musicali, come un crimine punibile con la legge israeliana. Le autorità stanno imponendo una forma di repressione digitale, una pratica che ostacola la libertà di espressione. Questa idea è ripresa da Issa Amro, un difensore dei diritti umani palestinese e attivista nella città di Hebron in Cisgiordania , che ha condiviso filmati.

“Lo streaming live consente agli attivisti dei social media di diffondere il materiale come fonte di notizie per il pubblico occidentale alla luce dei non equilibrati media occidentali, per presentare la loro versione dei fatti: Israele ha paura del potere dei social media e usa una legge che criminalizza gli attivisti che usano questo efficace strumento per sfidare la macchina della propaganda israeliana”.
La battaglia online per segnalare eventi sul campo continua, mentre i citizen journalists trovano modi innovativi per distribuire materiale.

Mentre le proteste di Gerusalemme sono state un buon esempio, non è la prima volta e non sarà l’ultima che tali tecniche vengono utilizzate.

Durante le tre devastanti guerre israeliane su Gaza alla fine del 2008, 2012 e metà 2014, gli attivisti dei social media palestinesi hanno vinto la guerra cibernetica contrastando la narrativa tradizionale del loro territorio assediato. Nonostante un soffocante blocco fisico e digitale imposto nel 2007 hanno raggiunto un vasto numero di persone in tutto il mondo.

Khalid Safi, blogger palestinese e consulente su social media, ha dichiarato a The New Arab che, alla luce della copertura dei media occidentali, i citizen journalists palestinesi sono stati in grado di cambiare la percezione pubblica della Palestina in Occidente attraverso le attività di sensibilizzazione online.

“Le informazioni inedite e non divulgate diffuse dai citizen journalists hanno indebolito definitivamente la narrativa israeliana, dal momento che i palestinesi sono in grado di connettersi direttamente con il pubblico straniero e raccontare le loro storie, a differenza del contenuto delle grandi corporation che devono essere filtrate attraverso una programmazione occidentale, e io posso dirvi che gli attivisti online non si fanno intimidire dalle pratiche in corso dell’esercito israeliano attraverso la sistematica campagna di arresti”.

(*)Yousef Alhelou è un giornalista palestinese e analista politico di Gaza, con sede a Londra, ha lavorato come giornalista presso la Reuters University of Oxford.
( Fonte: Invictapalestina.org )


Colono israeliano uccide un contadino ma vengono accusati dei palestinesi

Maureen Clare Murphy



Un palestinese – ma ancora nessun israeliano – deve rispondere di gravi accuse in merito a uno scontro tra coloni e abitanti di un villaggio della Cisgiordania, che lo scorso mese ha lasciato un bilancio di un contadino palestinese ucciso.

Muhammad Wadi è stato accusato di tentato omicidio da un tribunale militare israeliano.

Il quotidiano israeliano Haaretz informa che l’atto di accusa sull’incidente del 30 novembre nel villaggio di Qusra sostiene che Wadi è entrato in una grotta in cui un gruppo di bambini e un adulto si erano rifugiati ed ha lanciato grosse pietre contro di loro da distanza ravvicinata, ferendo l’adulto alla testa.

Il giornale aggiunge che altri diciannove palestinesi sono stati arrestati perché sospettati di essere coinvolti [nell’episodio].
Lo scontro mortale è avvenuto quando un gruppo di bambini sono stati portati a fare un’escursione nei pressi del villaggio palestinese come parte di una festa di bar mitzvah [rito ebraico che celebra l’ingresso a pieno titolo nella comunità dei bambini maschi di 13 anni, ndt.].

I coloni sostengono che gli abitanti di Qusra li hanno attaccati e che uno degli accompagnatori dell’escursione ha sparato con il suo fucile per difendersi, uccidendo Mahmoud Zaal Odeh, di 48 anni.

Lo sparatore è stato interrogato dalla polizia in quanto sospettato di omicidio colposo e successivamente rilasciato.

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha affermato che l’israeliano ha agito “per legittima difesa”, sostenendo che un gruppo di palestinesi ha tentato di “linciare” i bambini.

“I miei ringraziamenti e il mio apprezzamento alla scorta armata che ha salvato gli escursionisti da un pericolo evidente ed immediato per le loro vite,” ha aggiunto.

Gli abitanti di Qusra, tuttavia, hanno detto ai mezzi di comunicazione che Odeh stava lavorando la propria terra quando è stato colpito.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Adalah” a insaputa e senza il permesso della sua famiglia l’esercito israeliano ha portato il corpo di Odeh a Tel Aviv per l’autopsia, prima che venisse restituito ai suoi cari per il funerale.

Una settimana dopo, decine di coloni sono tornati a Qusra per continuare l’escursione con una massiccia scorta militare e insieme al vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely ed al ministro dell’Agricoltura Uri Ariel:

“Circa 100 coloni arrivano fuori da Qusra per terminare il percorso del bar mitzvah che era finito in scontri con palestinesi la scorsa settimana. Ad accompagnare il ragazzino del bar mitzvah è il ministro Uri Ariel.

Alla domanda se fosse proprio il caso di portare così tanti bambini in una zona che si sta ancora tranquillizzando dopo la violenza della scorsa settimana, Ariel ha detto: “Abbiamo un forte esercito e ci sentiamo sicuri ovunque andiamo sulla nostra terra.”

E si parte. Si uniscono alla festa anche il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely e Itamar Ben Gvir” [citazione di una cronaca twittata da Jacob Magid, giornalista del quotidiano indipendente israeliano “Times of Israel”, ndt.]

Con loro c’era anche Itamar Ben Gvir, un colono, militante di estrema di destra e avvocato che è considerato “un amico a cui rivolgersi” per gli israeliani che hanno commesso atti di violenza contro i palestinesi, compresi due adolescenti sospettati di essere coinvolti in un attacco incendiario che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese in un villaggio della Cisgiordania [a Duma, nei pressi di Nablus, in cui morì anche un bambino di 18 mesi, ndt.] nel 2015.
Sarit Michaeli, responsabile internazionale del gruppo israeliano per i diritti umani “B’Tselem”, ha definito l’escursione una “sfilata provocatoria dei coloni”.
La gita si è conclusa con una foto di gruppo e un raduno alla grotta in cui i coloni accusano i palestinesi di aver assediato il gruppo di bambini.

Violenza dei coloni.

Gli abitanti di Qusra sono da molto tempo vittime di violenze, danni alle proprietà e vessazioni da parte dei coloni.

Nel settembre 2011 la moschea del villaggio è stata devastata e bruciata con gomme incendiate come atto di “price tag” [lett. “pagare il prezzo”; indica le azioni di rappresaglia dei coloni contro i palestinesi, ndt.] o vendetta dopo che la polizia ha demolito tre strutture dell’avamposto non autorizzato dei coloni “Migron”.

Quello stesso mese l’abitante di Qusra Issam Badran è stato ucciso dai soldati durante scontri che sono scoppiati dopo che i coloni sono entrati nelle terre del villaggio.

Un’inchiesta dell’esercito riguardo all’uccisione di Badran è stata chiusa senza che venisse presentato un atto d’accusa. Nel gennaio 2014 gli abitanti di Qusra hanno bloccato più di dodici coloni che avevano fatto incursione nel villaggio e avevano tentato di sradicare ulivi.

Gli abitanti di Qusra sono stati anche sottoposti a incursioni notturne nelle loro case da parte delle forze israeliane come parte delle loro “procedure di mappatura” per censire tutta la popolazione civile palestinese.

Invece un minore israeliano della vicina colonia di Itamar che aveva aggredito un attivista dei diritti umani e lo aveva minacciato con un coltello è stato condannato a svolgere un lavoro socialmente utile per l’incidente dell’ottobre 2015.

L’adolescente aveva attaccato Arik Ascherman, allora capo di Rabbis for Human Rights [gruppo di rabbini che si oppone all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.], mentre quest’ultimo stava aiutando un contadino palestinese a raccogliere le olive.

Haaretz ha informato che la giudice che ha emesso la sentenza contro il giovane “ha scritto di aver optato per i lavori socialmente utili perché una detenzione avrebbe potuto danneggiare le possibilità per il ragazzo di essere arruolato nell’esercito israeliano, e perché era convinta che avesse buone possibilità di essere rieducato.”

L’adolescente era rappresentato in giudizio da Itamar Ben-Gvir.

Bambini palestinesi arrestati da Israele per imputazioni come aver tirato pietre ai soldati non godono di una simile indulgenza.

Un crescente numero di parlamentari statunitensi sta appoggiando una legge che imporrebbe al Segretario di Stato [il ministro degli Esteri USA, ndt.] di attestare ogni anno che nessuno dei fondi USA destinati ad Israele venga utilizzato per “finanziare la detenzione militare, gli interrogatori, gli abusi o i maltrattamenti contro i bambini palestinesi.”

La legge condanna i procedimenti giudiziari israeliani contro i minori palestinesi nei tribunali militari, mentre nello stesso territorio i coloni israeliani sono sottoposti alle leggi civili.

Nella Cisgiordania occupata Israele mette in atto un sistema giuridico a due livelli: i palestinesi sono sottoposti ai tribunali militari, in cui viene loro negato un processo minimamente equo e si trovano a dover affrontare una detenzione quasi certa, mentre i coloni israeliani sono soggetti alla giurisdizione della polizia e dei tribunali civili israeliani.
( Fonte: zeitun.info )


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