Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 12 dicembre 2019

12 dicembre, basta lacrime di coccodrillo.

Luciano Granieri





Cinquant’anni  fa da esplodeva la bomba fascista nel salone centrale della Banca  dell’Agricoltura in Piazza a Fontana a Milano provocando 17 morti e 88 feriti. E’ dall’inizio della settimana che tirano avanti sui media trasmissioni, eventi, analisi, docufiction per commemorare la strage che dette l’inizio alla cosiddetta strategia della tensione. Oggi poi,  le  istituzioni, e la famigerata società civile, si rincorrono in cortei e commemorazioni ufficiali un po’ da tutte le parti. 

Francamente non se ne può più. Non se ne può più di tanta ipocrisia. La catena di responsabilità  che ha pianificato la strage, e tutto ciò che ne è seguito, è chiara. La NATO per paura di un’avanzata comunista, in un paese come l’Italia al confine della cortina di ferro e con  un Pci forte ,  ha incaricato il suo esercito clandestino “Gladio” di inaugurare un percorso eversivo di stragi fasciste  per giungere ad un colpo di Stato che avrebbe imposto una deriva totalitaria , come accadde  in Grecia. Il tutto con la complicità, compiacenza, quando non partecipazione attiva, di apparati dello Stato. Apparati nel pieno della loro funzione, non “Deviati”.

Già  un documento segreto  del National Security Council del 21 aprile 1950, firmato da Truman  dettava la linea. In esso si evidenziava come gli USA dovessero essere pronti ad utilizzare tutto il loro potere politico, economico e , se necessario, militare per fermare l’avanzata del Pci. Come al solito per portare avanti il progetto di destabilizzazione si è  usata manovalanza fascista utile a fare il lavoro sporco che una borghesia di potere,perbenista, ipocritamente cattolica non poteva svolgere. Proprio per questo  motivo i conti con i fascisti, non si sono mai voluti chiudere . 

Al di la di un sordido, quanto finto gioco delle parti, i cani da guardia degli interessi imperialisti e capitalisti, avrebbero dovuto restare al loro posto per sempre. Allora che senso ha rimestare nei depistaggi di Stato, dolersi delle angherie  inflitte agli anarchici accusati ingiustamente, dell’orrenda fine di Pinelli suicidato per mano delle istituzioni, se non si vuole cambiare una virgola  e si accetta la resa incondizionata all’imperialismo, evoluto in prassi liberiste, e allo squadrismo, istituzionalmente riconosciuto e abilitato dei Salvini  e delle Meloni. 

Teniamoceli i decreti sicurezza, teniamoci Caspound , il suo fiero e sbandierato status  di FASCISTI DEL TERZO MILLENNIO, tolleriamo, anzi, plaudiamo alla loro  occupazione abusiva di un immobile dello Stato, teniamoci le peggiori derive omofobe, l’intolleranza verso tutto ciò che è diverso dalla figura patriarcale dell’ homo borghese, bianco  tutto Patria Dio e Famiglia. Ma almeno risparmiamoci commemorazioni e lacrime di coccodrillo per ogni 12 dicembre, 28 maggio, 2 agosto, 4 agosto etc. etc. 

Risparmiamoci di sbandierare un antifascismo di maniera cantando a vanvera “Bella Ciao” in certe manifestazioni, per  poi costringere ad ammainare, nello stesso evento, una bandiera rossa, come hanno preteso gli organizzatori  della manifestazione delle sardine a Firenze . Quello era il colore della bandiera che i Partigiani impugnavano  l’11 agosto del 1944 quando liberarono il Capoluogo Toscano, magari cantando anche “Bella Ciao”. Quello era il colore della bandiera che i soldati dell’armata rossa impugnavano quando entrarono ad  Auschwitz il 27 gennaio del 1945. 

Risparmiamoci tanta ipocrisia! Il fascismo è un crimine, l’imperialismo è un crimine, le derive liberiste sono criminali, la disuguaglianza sociale è un crimine. Se non prendiamo coscienza di questo continueremo a piangere false lacrime ad ogni commemorazione di stragi. Ma forse ci sta bene così e allora :”Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre".


lunedì 9 dicembre 2019

Campania: la classe operaia c’è ed è combattiva: chi la frena?

Mario Avossa



C’è un luogo comune, quello che al Sud della Penisola non vi sia classe operaia e che i suoi (presunti) reliquati siano svogliati e assenti. Il che spiegherebbe capitolazioni e licenziamenti. Nulla di più falso. Il luogo comune è alimentato da fonti che hanno tutto l’interesse a disegnare uno scenario deprimente e grigio delle condizioni soggettive delle classi subalterne: borghesia, riformisti e alti funzionari dei sindacati maggiori. La prima perché tiene a demoralizzare la classe operaia: alcuni sostengono nientemeno che sia scomparsa, con vari artifici di vocabolario e storpie perifrasi. I secondi perché hanno bisogno di dissimulare le politiche opportuniste e compiacenti nei confronti della borghesia capitalista di cui si sono fatti promotori in questi anni. I terzi perché devono occultare le responsabilità delle loro direzioni nelle sconfitte a raffica subite dai lavoratori dagli anni Otanta ad oggi. E invece negli ultimi mesi si assiste a un incremento della combattività operaia nelle regioni meridionali della Penisola.
 
2019. Un nuovo autunno caldo agita la classe operaia in Campania. Portuali, Napoli
Msc e armatori danno il via a un attacco contro i portuali e contro i loro marittimi. Pretendono che la movimentazione dei carichi sia affibbiata ai marittimi imbarcati, cui non compete, e sottratta alle cooperative dei portuali, con conseguenze sui livelli occupazionali e sulla sicurezza del lavoro. Gli armatori la chiamano autoproduzione. È un ulteriore sfruttamento di lavoratori a mare e a terra, già sottopagati e ricattabili.
La lotta parte il 2 maggio da Napoli, dove i lavoratori fanno riferimento al SiCobas, con blocchi della produzione e assemblee nei piazzali. I lavoratori a Napoli sono intimiditi già dal 2015 con licenziamenti ritorsivi. Il responsabile dell’Autorità Portuale si astiene dall’intervenire nel confronto, in modo compiacente alla Msc. La lotta monta, i confederali sono costretti a inseguire, i portuali di Genova si associano, mentre la controparte si rifiuta di trattare per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, perché le compagnie sono riuscite a imporre contratti a tempo determinato, apprendistato, agenzie interinali e a loro vanno bene così. Si proclama lo sciopero nazionale di categoria di ventiquattro ore il 23 maggio.
L’appello dei portuali di Genova a quelli di Napoli riporta: «Rialziamo la testa! Solo uniti si vince!». Ma, mentre i lavoratori colgono lucidamente il ruolo delle controparti armatoriali e portuali, i dirigenti di Cgil, Cisl e Uil distolgono l’attenzione da queste e piagnucolano come la situazione sia «ignorata dal governo che elude ogni richiesta di confronto». Pur registrando una buona riuscita dello sciopero del 23 maggio, le compagnie e le autorità portuali fanno orecchie da mercante, per cui si proclama un nuovo sciopero generale il 24 luglio. I confederali dirigono le lotte distogliendo ulteriormente gli operai dalle controparti reali e invocano l’intervento del Mise per «richiamare il governo alle sue responsabilità rispetto al settore». L'Esecutivo nicchia.
Paradigmatica la tattica delle massime dirigenze Cgil Cisl Uil: al malcontento operaio che si rende concreto attraverso sigle sindacali combattive, segue la presa in carico delle lotte, la proclamazione di uno o più scioperi di sfogo e il deragliamento delle lotte operaie verso sponde istituzionali, anziché chiamare ad azioni di sciopero prolungato. Le istituzioni, a loro dire, sarebbero terze rispetto ai contendenti di classe: fingendo di ignorare che i governi borghesi rappresentano «il comitato d’affari della borghesia» in ogni luogo e in ogni tempo. Su questa falsificazione poggiano tutta la trattativa a perdere.
 
Whirlpool, Napoli
Il gruppo Whirlpool possiede marchi di prestigio (Indesit, Hotpoint, Bauknecht, KitchenAid) e ha sedi multiple (Pero, Cassinetta, Siena, Melano, Fabriano, Comunanza, Carinaro, Napoli) con 5.565 lavoratori impiegati. Il mercato va a gonfie vele. Il gruppo ha goduto di generose elargizioni pubbliche: accordi di programma con le Regioni e ammortizzatori sociali (2019/2020) in cambio della concessione che nessun licenziamento collettivo sarebbe stato previsto fino al 31 dicembre 2020. Ma il 31 maggio 2019 la multinazionale comunica ai sindacati la volontà di disimpegnarsi dal sito di Napoli perché comporterebbe una perdita di 20 milioni di euro l’anno. E annuncia 420 licenziamenti in tronco.
I funzionari Cgil Cisl Uil velocemente trasferiscono la vertenza al ministero. In sede ministeriale la Whirlpool ventila la cessione di ramo d’azienda a una società fantasma con sede in Svizzera; in cambio della rinuncia a tale opzione, chiede altri soldi pubblici (da intascare per poi fuggire col malloppo). Scavalcato il ministro Patuanelli, si arriva a Conte, ma senza risultati apprezzabili. I lavoratori scendono in lotta con cortei e manifestazioni combattive e partecipate. Si proclamano scioperi a ripetizione, che coinvolgono tutti i siti nazionali. A Napoli gli operai occupano e bloccano in massa l’autostrada. Di fronte alla pressione operaia, Whirlpool è costretta a recedere dalla minaccia di cessione di ramo d’azienda (un gioco al rialzo, e De Luca -presidente della Regione Campania- appare in scena con 20 mln di euro). Il 30 ottobre scorso la segretaria generale Fiom Francesca Re David sbandiera come una vittoria la revoca della cessione di ramo d’azienda, ma il macigno dei licenziamenti resta. A novembre riparte la lotta con lo sciopero generale dei metalmeccanici, in cui ancora una volta si fa notare la straordinaria combattività della base operaia, con manifestazioni nutrite, cortei e assemblee. Appare fra gli operai la parola d’ordine della nazionalizzazione.
La multinazionale riteneva di assestare un colpo facile alla classe operaia partendo dal Sud, eppure gli operai hanno reagito con vigore, ostacolando le intenzioni dei padroni. Anche in questo caso gli alti funzionari Cgil Cisl e Uil non hanno neanche fatto cenno all’eventuale occupazione della fabbrica né alla sua nazionalizzazione, pilotando immediatamente in sede istituzionale la vertenza, di fatto ignorando la controparte industriale e affidando al comitato d’affari della borghesia la contesa fra operai e padroni.
 
Jabil, Marcianise (Ce)
La Jabil Circuits Italia (ex Ericsson) lo scorso 24 giugno ha annunciato 350 licenziamenti per lo stabilimento di Marcianise (Caserta), che ne conta 706. Mandare a casa la metà dei dipendenti significa chiudere la fabbrica, che da tanti anni è in attivo e produce utili ingenti.
Molto reattivi, gli operai proclamano scioperi subentranti e assemblee di lotta. Tutti i 706 dipendenti chiedono il ritiro della procedura di licenziamento. I lavoratori scioperano fino al 18 luglio, data in cui i sindacati maggioritari hanno un incontro con la direzione Jabil alla sede di Confindustria Caserta. A giugno l’assessore regionale al lavoro della Campania Sonia Palmieri incontra i lavoratori rivendicando l’esodo facilitato di 150 licenziamenti nel 2018 ma restando nel vago in merito alla raffica di licenziamenti annunciati. Il 9 luglio i lavoratori scendono in piazza animando un combattivo corteo. S’insedia un presidio fisso dinanzi ai cancelli della fabbrica mentre la Cgil (Guglielmi) dichiara che «Da soli rappresentiamo una forza relativa, abbiamo bisogno delle istituzioni politiche a tutti i livelli. Urge gestire in modo serio ed efficace l’intera questione degli ammortizzatori sociali». Deludenti dichiarazioni accolte con dissimulata soddisfazione dalla Jabil.
Il 7 ottobre Cgil Cisl Uil emettono un comunicato in cui annunciano «un percorso condiviso anche con le istituzioni» e supplicano per un improbabile «piano di reimpiego con aziende in grado di garantire prospettive industriali». Altre buone notizie per la Jabil. Il 17 ottobre la Jabil concede alla Regione e ai sindacati un altro incontro, che si conclude con un nulla di fatto.
È notizia del 18 novembre il fallimento della trattativa con una sconfitta per la classe operaia, con i licenziamenti e la cassa integrazione. Anche in questo caso, alta combattività della classe operaia, lotte e scioperi egemonizzati dai funzionari Cgil Cisl Uil, deragliamento istituzionale, nessun disturbo alla multinazionale e 350 licenziamenti.
 
Treofan, Battipaglia (Sa)
La Treofan di Battipaglia produce da anni le migliori pellicole da imballaggi industriali sul mercato europeo (polipropilene bi-orientato), oberata di commesse cui fa fronte ricorrendo a straordinari ed extra. Il 24 ottobre 2018 la proprietà è ceduta al gruppo multinazionale Jindal: questa ne fa manifestamente un acquisto ostile, poiché ha già interessi analoghi in Germania e a Terni. I lavoratori comprendono immediatamente il pericolo e, infatti, la Jindal annuncia senza indugi il licenziamento in tronco di tutti gli operai e la chiusura della fabbrica. Le maestranze scendono in lotta con scioperi subentranti e un presidio fisso davanti ai cancelli (ma senza occupare la fabbrica); si susseguono battagliere manifestazioni, cortei e presidi di lotta, durante i quali i lavoratori indossano giubbotti gialli, e chiedono la nazionalizzazione.
Queste lotte, manco a dirlo, sono presto egemonizzate dagli alti papaveri di Cgil Cisl e Uil che le deviano nel binario morto istituzionale, in Regione Campania e a Roma, al Mise. Nel dicembre scorso si muove perfino Gigino Di Maio (allora vicepremier), che si reca al presidio davanti ai cancelli (la tornata elettorale è vicina), dove annuncia strabilianti future iniziative a favore degli operai di Battipaglia. Il risultato attuale è il sollievo della Jindal, che ha già intascato 12 mln euro. Il consorzio Asi revoca la concessione dei terreni Treofan alla Jindal, ma pende ancora lo spettro della chiusura della fabbrica e del licenziamento in tronco di tutti i 78 restanti operai.
 
Alla crisi del capitalismo i lavoratori reagiscono con la lotta
Di fronte alla crisi di sovrapproduzione e alla recessione internazionale, le grandi multinazionali non si fanno scrupolo di rovesciare sulla classe operaia le conseguenze della crisi da loro stesse creata. L’ossessiva ricerca di profitto dei capitalisti li induce ad assottigliare sempre di più i ranghi dei lavoratori da loro impiegati nei siti produttivi, aumentandone lo sfruttamento; e, ricorrendo alla ripartizione internazionale del lavoro, moltiplicano il tasso di sfruttamento perché la delocalizzazione sposta gli impianti produttivi laddove la classe operaia è più debole, povera e priva di diritti.
La capacità reattiva della classe è evidente: nonostante il timore di ritorsioni, i lavoratori scendono in lotta, danno vita a manifestazioni, cortei, presidi. Si stringono insieme in insediamenti di fortuna dinanzi alle fabbriche, affrontano disagi insieme, si rinforzano legami di solidarietà operaia, invocano la collaborazione degli altri operai e dei cittadini, scrivono appelli a chiunque, persino al Papa e al Presidente, popolano i social.
 
L’arte della trattativa è l’arte della lotta
Ma accadono fatti strani. A fronte delle capacità combattive operaie, non si è vinta una sola lotta.
I responsabili locali di Cgil Cisl Uil impongono i temi di trattativa, pilotano le assemblee con i loro oratori e, di fatto, avocano quelle lotte all’apparato, ai dirigenti e ai funzionari centrali. Questi, anziché rilanciare la lotta, stornano le trattative dallo scontro con i capitalisti e le indirizzano invariabilmente sul binario morto dei tavoli di lavoro nelle sedi istituzionali. Gli interlocutori sono: pubblica amministrazione locale, Regione Campania, presso assessorato al lavoro, Mise; raramente più in alto. A tutti i livelli, i tavoli si ripropongono con sfiancanti lungaggini che dilatano i tempi di vertenza di mesi e mesi, intercalati da comunicati ufficiali.
Abbiamo imparato a memoria le dichiarazioni rituali e la fraseologia di circostanza adoperate dai funzionari sindacali e dai rappresentanti istituzionali ai tavoli. Questo dà agio ai capitalisti di organizzare i loro piani concreti in tutta tranquillità. Spesso i padroni ottengono nuovi incentivi economici a fondo perduto: li intascheranno a danno degli operai, differiranno di alcuni mesi i loro piani e poi licenzieranno egualmente. Si perviene alla capitolazione operaia con prepensionamenti, cassa integrazione, incentivi all’esodo (licenziati cui è corrisposto un premio in denaro), tutto finanziato con fondi pubblici.
Non abbiamo visto nessuna occupazione di fabbrica né di sito produttivo, non abbiamo visto nessun piantonamento dei magazzini né degli impianti; alle pressanti richieste di unità di classe, di chiamare alla lotta le fabbriche sorelle, di proclamare scioperi generali di durata seria, i funzionari sindacali centrali sono rimasti sordi e ciechi. I portuali di Genova e gli operai Treofan-Jindal di Terni hanno cercato di costruire da soli questa solidarietà. Le direzioni sindacali delle rispettive realtà produttive hanno fatto piccole concessioni formali alla platea operaia per non restare scavalcati e hanno consentito qualche sciopericchio di solidarietà puramente dimostrativo.
Non siamo con quegli ultrasinistri che demonizzano l’interlocuzione istituzionale. L’attività sindacale necessariamente attraversa anche momenti di confronto e scontro con le istituzioni, così come può associarsi a vertenze in tribunale, ma è un percorso che va sostenuto con le lotte e con l’unità di classe, non lasciato a sé stesso. Gli incontri istituzionali non vanno intesi come unica e sola strada di soluzione del confitto operaio. Occorre tenere ben presente che l’elemento più importante di ogni lotta non è tanto la vittoria, ancorché parziale, che (forse) si riuscirà a ottenere; questa vittoria operaia corrisponde a concessioni strappate alla resistenza dei padroni, i quali se le riprenderanno alla prima occasione utile; piuttosto, come diceva Lenin, la lotta operaia è una scuola di guerra: i lavoratori imparano a lottare contro il nemico di classe e così iniziano a comprendere la vera natura del sistema capitalistico che li sfrutta e opprime.
Le strutture sindacali appartengono ai lavoratori, non ai funzionari. Devono essere i lavoratori, rappresentati dai comitati di fabbrica, a produrre i temi di lotta nelle assemblee. Devono poter decidere le azioni di lotta più efficaci e chiamare alla lotta e all’unità di classe. Quest’ultima e la democrazia interna nei sindacati sono indispensabili ma non si ottengono per semplice domanda; i lavoratori hanno bisogno di strutture unitarie che possano raccoglierli intorno a un fronte comune di classe, indipendentemente se siano sindacalizzati o meno e indipendentemente dalla sigla sindacale cui sono iscritti. Questo pone nelle mani dei lavoratori il contrappeso più efficace alle pretese del padronato e le lotte possono assumere un andamento diverso. Uno strumento già esiste, è il Fronte di Lotta No Austerity, che si rivolge a tutti i lavoratori, iscritti o meno ai sindacati, di qualunque sindacato, perché i focolai di lotta operaia facciano rete e rendano la classe operaia, che è combattiva, protagonista e non spettatrice delle sue lotte.
 

domenica 8 dicembre 2019

Quel giorno di Chet a Frosinone

Luciano Granieri




 Annus horribils il 1980.  Iniziava il riflusso, la marcia di 40.000 alla Fiat segnava la definitiva sconfitta delle lotta operaie, aprendo la strada a quella che sarebbe stata l’annientamento delle classi subalterne da parte del capitalismo e della sua deriva neo liberista. 

Ma il fervore artistico, e in particolar modo musicale, diede vita ad una sorta di onda lunga che, proprio fra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80l si consolidò in modo consistente nel vecchio continente. Una marea di jazzisti americani, in particolar modo dell’avanguardia free, incrementò il proprio esodo, da un’America  lanciata a vele spiegate verso l’edonismo reaganiano, con tutto il suo devastante portato di macelleria sociale e culturale, verso l’Europa. Nel Vecchio Continente  l’epoca delle rivolte fra la fine degli anni ’60 e  tutti gli anni ’70 e la maturazione di notevoli  musicisti autoctoni aveva reso terreno fertile alla fruizione di espressioni  artistiche complesse, quanto ermetiche ed espressivamente di difficile comprensione.  

Fatto sta che artisti del calibro degli Art Ensemble of Chicago, Steve Lacy, Ornette Coleman, Don Cherry, solo per citarne alcuni, ma anche Miles Davis , Chet Baker, due jazzisti non proprio consoni al free-anche se Miles aveva avvicinato la sperimentazione con implicazioni elettriche in Bitches Brew - erano di casa in Europa. In Francia, in Scandinavia, ma anche in Italia. A  Roma , Milano nei jazz club,   nei teatri, nei festival, Umbria jazz su tutti,  era frequente imbattersi in musicisti che probabilmente nel loro paese d’origine, l’America, non si sentivano capiti e neanche sicuri. Non a caso Roscoe Mitchell, sassofonista degli Art Ensemble of Chicago, ebbe a dire che almeno in Europa potevano girare senza il fucile in macchina visto che non correvano rischi di subire aggressioni razziste. 

In quei fatidici anni ’80 un po’ di quel ben di Dio jazzistico passò anche da Frosinone. In un contesto di crescente passione per il jazz che si concretizzò  con l’organizzazione di concerti dei migliori jazzisti italiani, presenti nel territorio anche grazie alla fama del conservatorio - da Enrico Pieranunzi a Maurizio Giammarco, a Patrizia Scascitelli,   solo per citarne alcuni - capitarono a Frosinone proprio gli Art Ensemble of Chicago e Chet Baker.  Lester Bowie e compagni offrirono   una memorabile performance  al teatro Nestor.  Chet,  invece,    tenne un concerto presso il mitico auditorium Edera, sito sotto l’omonimo grattacielo. 

Un fecondo  fervore culturale aveva pervaso tutta la città grazie anche all’attività di un gruppo di giovani, radunati nella  cooperativa culturale “La Luna”, che con la loro ostinazione  e pervicacia riuscì a sensibilizzare l’amministrazione comunale   a dare una mano affinchè nel capoluogo della Ciociaria sorgesse un piccolo Birdland.  Sicuramente gli amministratori di allora, pur con tutti i loro difetti, avevano molto più a cuore il livello culturale dei cittadini e ne avevano anche un giudizio migliore, rispetto a chi guida la città oggi. 

 L'attuale   sindaco persegue l'unico scopo   di assicurare una sarabanda tutta luci ed effetti speciali da dare in pasto ad un popolo considerato di scarsa levatura culturale. Il popolo della "sbicchierate" a cui   la posticcia piana di plastica e terra incolta  del parco Matusa ,caciarona e greve, è sufficiente a dichiarare imperitura fedeltà al suo conducador. Fatto salve il festival dei conservatori , che pure presenta limiti organizzativi e costi spropositati,   l’immondizia culturale è tutto ciò che questa amministrazione è in grado di offrire con una tendenza al peggioramento visto che i prossimi tagli dell’ente ridurranno a mero deposito il museo archeologico. Ma questa è un’altra storia. 

Tornando a quegli incredibili concerti ricordo con particolare emozione quel clima. Poco più che diciannovenne, insieme ad altri amici con cui nel garage di casa strimpellando su una chitarra, un sax ,un basso, e una batteria cercavamo di ispirarci a quei mostri sacri, mi adoperai a dare una mano ai ragazzi della “Luna”. Bassa manovalanza in cambio dell’ascolto  dei nostri eroi in carne ed ossa.  

In particolare la performance di Chet Baker fu entusiasmante. Contornato da straordinari musicisti, Enrico Pieranunzi al pianoforte, Nicola Stilo al flauto, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, e Roberto Gatto alla batteria, Chet ci ammaliò con il fraseggio morbido, drammaticamente rilassato della sua tromba,  con la sua voce così particolare ed ipnotica. I suoi compagni di avventura non furono da meno ricordo un Nicola Stilo particolarmente ispirato in grado di fornire delle suggestioni timbriche coinvolgenti  insieme alla tromba di Baker. 

Proprio in quel periodo usciva per la Edi-Pan Record il disco  Soft Journey  inciso da Chet e Pieranunzi  con la stessa formazione del concerto di Frosinone tranne Nicola Stilo sostituito in sala di registrazione da Maurizio Giammarco al sax. Un vinile che ho consumato a furia di ascoltarlo, perché ogni nota di quelle tracce   da Funny Valentine a Night Bird, ad Animali diurni,   è preziosa per la sua esecuzione ma soprattutto perché mi riporta alle meravigliose sensazioni di quel concerto all’Auditorium di Frosinone. 

Ringrazio Maurizio Barnaba che su Fb ha pubblicato lo foto scattate all’epoca di Rino Zangrilli durante quella incredibile esibizione. Foto straordinarie  ma che solo marginalmente riescono a descrivere l’incredibile magia di ciò che stavamo vivendo.