Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 12 giugno 2020

Maggioranza 5S blocca in Assemblea capitolina mozione su Acea

Coordinamento Romano Acqua Pubblica



Oggi l'assemblea capitolina ha bocciato una mozione, presentata da Sinistra per Roma sulla base delle campagne del coordinamento romano acqua pubblica, che avrebbe impegnato la giunta e la sindaca Raggi ad esercitare il suo ruolo di socio di maggioranza pubblica in Acea SpA: blocco dei dividendi, reinvestimento degli utili per la tutela della risorsa idrica, a partire dalle perdite sulla rete (oltre il 40% di acqua sprecata), e per fini sociali, come una tariffa di emergenza e il riallaccio di tutte le utenze idriche, garantendo a tutti l'accesso all'acqua. 

La maggioranza 5S si è astenuta, negando, di fatto, con 23 astenuti, 9 voti favorevoli e 1 contrario, un impegno della giunta e della maggioranza nell'indirizzare in tal senso l'operato di Acea. 

Lo ha fatto con una dichiarazione di voto che ha ricalcato in diversi punti la narrazione dei vertici aziendali, arrivando a negare che a Roma ci siano famiglie private del servizio idrico: lo si chieda alle centinaia di utenze distaccate che non sono state riallacciate grazie ad una presa di posizione troppo blanda dell'autorità di regolazione per l'energia e i servizi idrici (ARERA), alla immobilità della giunta e, naturalmente, alla contrarietà di Acea che nell'acqua vede solo una fonte di profitto. 

Naturalmente il percorso per l'acqua bene comune non si ferma, proprio in questi giorni l'anniversario della vittoria referendaria del 2011 sarà occasione per rilanciare le tante battaglie territoriali e nazionali con un evento online. Su Roma abbiamo il dovere di contrastare il folle progetto di un secondo potabilizzatore dell'acqua del Tevere, che proprio in questi giorni ci ha regalato le tristi immagini di centinaia di pesci morti, e di pretendere la riparazione delle reti idriche a tutela delle sorgenti del Lazio e dell'accesso all'acqua oggi e per le generazioni future.

Piano Rifiuti Regione Lazio, il Compound di Colleferro è una chimera.

Retuvasa



Il nuovo Piano Rifiuti della Regione Lazio ha ripreso il suo corso dopo lo stop impresso dall’epidemia Covid-19 ed è entrato nel vivo delle audizioni post Valutazione Ambientale Strategica (VAS), durante la quale erano state presentate numerose osservazioni;  alcune sono state  accolte, altre che non hanno ottenuto risposta.
Da Colleferro le realtà associative  hanno messo in luce alcuni aspetti in particolare sugli inceneritori e il progetto di Compound industriale presentato da Lazio Ambiente SpA.
Le risposte alla VAS sugli inceneritori di Colleferro hanno confermato che il loro ciclo è definitivamente chiuso e che nell'area ove risiedevano non sarà ammessa alcuna costruzione di nuovo impianto rifiuti. Sul Compound industriale da 500.000 tonn/anno si sono ottenute riduzioni significative a 250.000 tonn/anno e come esplicitamente riportato la locazione dovrebbe essere a ridosso della discarica, dichiarando come papabile il terreno ove doveva sorgere il TMB del 2010.
In una delle nostre osservazioni abbiamo evidenziato il fatto che  che quel terreno è insufficiente per qualsiasi tipologia di impianto se non di dimensioni molto al di sotto di quelle indicate nel progetto di Lazio Ambiente SpA.
Il 19 maggio scorso abbiamo partecipato ad una audizione telematica ed espresso nuovamente le nostre perplessità sulla reale possibilità di poter costruire un Compound Industriale a Colleferro.
Le nostre osservazioni in sede di audizione hanno evidenziato anche altri aspetti riguardanti la valle del Sacco e zone adiacenti.
La discarica di Roccasecca ha ottenuto una recente autorizzazione per un V° invaso da 450.000mc quando il fabbisogno del frusinate in uno scenario a 6 anni è di 180.000mc, come lo stesso Piano Rifiuti riporta negli elaborati. Questa è da ritenersi una incongruenza di rilievo in quanto non è ammissibile vessare le province con una impiantistica il cui unico scopo è supplire alle mancanze progettuali e strutturali di Roma Capitale che non è in grado, oggi e nell'immediato futuro come Ambito Territoriale Ottimale (ATO),  di essere autosufficiente.
L'altra questione sollevata riguarda il territorio di Patrica perseguitato  da progetti di nuovi impianti di trattamento rifiuti di dimensioni mostruose, dagli inerti (300.000 tonn/anno) ai liquidi (355.000 tonn/anno).
In buona sostanza a cosa serve un piano rifiuti se permette di essere scavalcato poi dagli uffici che si occupano delle autorizzazioni amministrative?
Altri fattori negativi sono la modalità e la tempistica di coinvolgimento delle comunità che si trovano a dover contrastare quotidianamente il proliferare di impianti come quelli che abbiamo appena descritto.
Ma torniamo al Compound di Colleferro che da come viene presentato nel Piano Rifiuti sembra essere un punto cardine […il nuovo compound industriale diventa strategico nel passaggio dal vecchio sistema impiantistico ad un nuovo sistema che massimizzerà il recupero di rifiuti nell’ottica dell’economia circolare], ma viene liquidato in poche righe con una descrizione di flusso minimale e assolutamente insufficiente. Un impianto descritto come innovativo nel suo genere, risolutore per il flusso finale dei rifiuti indifferenziati, ma che nello stesso Piano Rifiuti non viene descritto nelle sue parti. Gli unici dati su cui ci si concentra è che deve essere realizzato a Colleferro e che da 500.000 tonn/anno si riduce a 250.000 tonn/anno. L’audizione del Presidente di Lazio Ambiente SpA, Daniele Fortini, necessaria dopo le numerose osservazioni sollevate, ha delineato altri scenari, ma non ha dato la risposta definitiva alle nostre puntualizzazioni, che si traducono in:
a Colleferro non c’è alcun luogo disponibile per impianti di tali dimensioni.
Abbiamo ribadito questo concetto più volte nei nostri incontri pubblici e sarebbe stato interessante riferire direttamente all’Assessore regionale Massimiliano Valeriani se avesse accettato i nostri ripetuti inviti.
Lo Studio Preliminare di Fattibilità (luglio 2019) del Compound di Lazio Ambiente SpA, richiamato nel Piano Rifiuti, riporta testualmente: “è pertanto stimabile, preliminarmente, una superficie complessiva dell’impianto pari a circa 20 ettari.”. Teniamoci su questa ipotesi prevista per un impianto da 500.000 tonn/anno, un impianto da 250.000 non dimezzerebbe l'area occupata. Colleferro avrebbe a disposizione urbanisticamente solo il terreno che era previsto per il TMB del 2010. Non è di poco conto che lo stesso è di proprietà del Comune di Colleferro che a nostro parere non ha alcuna intenzione di “devolverlo” a Lazio Ambiente, ma anche se si volesse “forzare” la mano il terreno ha una estensione di circa 1,9 ettari, un decimo del necessario, forse utile per farci un piazzale di sosta per i mezzi che dovrebbero giungere ad un impianto del genere.
Se per assurdo qualcuno  pensasse nuovamente di far transitare decine di camion in un quartiere densamente abitato come quello dello Scalo di Colleferro per farli giungere nell’area degli inceneritori -area inserita nel Sito di Interesse Nazionale e da bonificare per la presenza di cromo esavalente- dovrebbe tener presente che si avrebbero a disposizione circa 4ha (area inceneritori) e circa 1ha (area centrale elettrica annessa), tenendo conto che ciò colliderebbe con quanto riportato nelle risposte alle nostre osservazioni sul possibile utilizzo di quella area.
Ci viene il legittimo dubbio che si stia tirando in lungo questa manfrina per coprire il fallimento di Lazio Ambiente SpA, lo spreco di milioni di euro nel tentativo fallito di ristrutturare gli inceneritori di Colle Sughero, in attesa di trovare una conclusione a questa vicenda. L'ipotesi -espressa dall'amministratore delegato di Lazio ambiente  in una intervista- di sdoppiare l’impianto da 500.000 tonnellate in due da 250.000, apre alla possibilità di realizzarne uno in una località diversa da Colleferro. In ogni caso le audizioni rispetto ai molti interrogativi sollevati da questo  progetto -che avrebbe comunque un ruolo chiave dell'intero ciclo dei rifiuti del Lazio- non hanno dato risposte.
Per abbondare chiudiamo fornendo alcuni numeri che completano il quadro, ricavati dallo Studio Preliminare di Fattibilità di Lazio Ambiente SpA.
Il Bilancio di Massa di tale impianto indurrebbe a pensare che sia un produttore di rifiuti piuttosto che una risoluzione del problema. Su 500.000 tonn/anno in entrata ce ne sarebbero quasi 300.000 tonn/anno in uscita (scenario 1) tra Frazione Organica Stabilizzata (FOS), Combustibile Solido Secondario (CSS) e altro da destinarsi a discarica o termovalorizzazione. Poco più di 250.000 tonn/anno in uscita nello scenario 2.
Costo dell’operazione circa 80mln di euro, in pratica 1mln di euro a dipendente.
Detto ciòci attendiamo che i nostri dubbi vengano fugati e se ciò non dovesse avvenire in un modo esauriente di fronte all’opinione pubblica, la conclusione non può che essere una: il Compound Industriale dei Rifiuti previsto per Colleferro deve essere cancellato dal Piano Rifiuti della regione Lazio.

Covid-19 e lotta di classe: reagiamo, scioperiamo!

a cura del dipartimento sindacale Pdac



Mentre governo, regioni e padroni sono intenti nel mischiare le carte in gioco tra la fase 1 e la fase 2, ossia dall’emergenza sanitaria alla convivenza con il virus, appaiono sempre più evidenti le loro trame per far pagare la crisi economica, amplificata dal Covid-19, alle masse più povere, ai lavoratori salariati e ai lavoratori autonomi. Ora sono pronti per la fase 3 e per chi non se ne fosse accorto stiamo in piena lotta di classe!

Fase 1 – fase 2: lo sporco gioco del capitalismo
Per riassumere possiamo affermare che la fase 1 è stata caratterizzata dal tentativo del sistema, nel suo complesso, di mantenere aperto il più alto numero possibile di attività e fabbriche, che nulla c’entravano con i servizi essenziali. Sono stati migliaia i lavoratori che, fin dal principio, sono stati costretti a lavorare e per di più sprovvisti di Dpi adeguati alla tutela da contagio da Covid-19, generando una delle principali cause di diffusione del virus, al solo scopo di mandare avanti la produzione per preservare i lauti guadagni dei grandi imprenditori.
La fase 2 non è nient’altro che il proseguimento della prima: non è per nulla conclusa l’emergenza sanitaria – sono ancora centinaia i nuovi infettati e morti ogni settimana – ma al contempo rimangono serrate le file della classe dominante che, con il “tana libera tutti”, sta convincendo le masse popolari che ormai il peggio è passato. Tutto ciò avviene mentre ai padroni viene data la possibilità di spartirsi i miliardi caduti a pioggia dal governo, e ai lavoratori salariati, ai lavoratori autonomi, ai piccoli commercianti viene imposta la macabra scelta di morire di virus o morire di fame. Il tentativo di portare a compimento l’opera della prima fase (chiudere tutto per non chiudere niente) e l’ideologia della seconda (dobbiamo ripartire) è stato supportato dalla stessa borghesia, a partire dal suo governo, ma anche con la preziosa complicità dei suoi agenti all’interno del movimento operaio, nei mass media e nelle istituzioni in generale.

Scioperi operai: difesa e contrattacco della borghesia
Era il 12 marzo quando gli operai, in diverse aziende su tutto il territorio italiano, hanno deciso di incrociare le braccia contro la decisione del governo di chiudere le attività commerciali lasciando aperte le fabbriche, i trasporti, le banche ecc. Ci trovavamo nel momento in cui le vittime e i morti da Covid-19 cominciavano ad essere migliaia e le grandi burocrazie sindacali (ma anche le direzioni del sindacalismo di base) non andarono oltre la rivendicazione di migliore sicurezza sui posti di lavoro.
“Non siamo carne da macello” era invece la parola d’ordine da cui è partita una serie di scioperi spontanei, per lo più autorganizzati, con cui gli operai chiedevano a gran voce la chiusura delle fabbriche come unica soluzione valida per evitare il contagio in fabbrica. In quei giorni, solo il Fronte di lotta no austerity, con comunicato del’11 marzo (1), aveva invocato e sostenuto lo sciopero del settore privato come mezzo necessario per imporre la chiusura delle fabbriche e dei servizi non essenziali.
Nonostante fossimo in una situazione tragica, in piena crisi sanitaria, quei giorni li ricordiamo per il grande insegnamento che ci hanno dato gli operai, soprattutto perché hanno smentito coloro che continuano a considerare morta la classe operaia. Quelle giornate di sciopero, prese ad esempio da molti operai a livello internazionale, sono un gran motivo di orgoglio: con la loro forza hanno imposto al governo e a Confindustria la chiusura, per diverse settimane, di centinaia di fabbriche, a partire dai grandi stabilimenti automobilistici.
La grande borghesia, nei fatti, fu costretta a un grande passo indietro dopo aver cercato in ogni modo di mantenere aperte tutte le attività per continuare a lucrare anche in piena pandemia. Ma nei giorni seguenti chiamò a corte il proprio governo, capeggiato da Conte, e i propri agenti nel movimento operaio, in primis Maurizio Landini, segretario generale della Cgil. Da lì, e per le settimane a seguire, la grande imprenditoria riuscì a portarsi a casa il protocollo sulla sicurezza (siglato il 14 marzo e poi ritoccato nelle settimane successive) con le maggiori burocrazie sindacali – Cgil, Cisl e Uil – e una lunga lista di attività non essenziali da far rimanere aperte durante l’emergenza, per poi riuscire a riaprire le fabbriche grazie anche al supporto di alcune trasmissioni televisive che ci mostravano in tv un inesistente mondo sicuro all’interno degli stabilimenti (2). Come si dice, l’appetito vien mangiando e dopo aver messo in sicurezza il lucro dei borghesi, e non certo gli operai in catena di montaggio, l’avvocato degli italiani (così si era presentato Conte) ricopre la borghesia di miliardi (500) mediante vari decreti, mentre per i lavoratori, i precari e i disoccupati distribuisce cassa integrazione e miseria.

Sciopero: prassi efficace contro burocrazie, governi e padroni
Puntando la lente di ingrandimento sulle disposizioni del governo, non passa inosservato il fatto che il primo intervento adottato, ancor prima del lockdown, sia stato il divieto di sciopero per i lavoratori dei servizi essenziali (3). Al contempo, se spostiamo la lente verso i lavoratori, vediamo che è stata proprio l’astensione dal lavoro l’unico strumento con il quale sono riusciti ad obbligare la chiusura delle fabbriche e con essa la salvaguardia di migliaia di vite tra gli operai e le proprie famiglie in piena emergenza sanitaria. Durante quelle giornate abbiamo visto organizzare scioperi spontanei in differenti territori lungo tutta la penisola e in diversi settori, da quello metalmeccanico, delle telecomunicazioni (call center) e in alcuni ambiti dei trasporti: tutti questi scioperi andavano contro la volontà delle burocrazie sindacali che hanno subito un vero e proprio ammutinamento da parte della loro base.
Lo sciopero è l’arma storica nelle mani del movimento operaio per conquistare diritti e salario attraverso il fermo della produzione e il relativo profitto di pochi sfruttatori. Ce l’hanno ricordato gli operai a marzo come lo sciopero sia il principale strumento da brandire in piena e brutale lotta di classe: oltretutto la sua prassi è l’unica che coniuga perfettamente la dura lotta con la piena tutela della salute dei lavoratori, tanto più in un momento di crisi sanitaria.
Continueremo a sostenere gli scioperi come principale ed efficace metodo di lotta da perseguire in ogni settore ed azienda, ponendoci anche l’obiettivo di unirli e rafforzarli con l'obiettivo di costruire a breve un reale sciopero generale. L’attacco della classe dominante è di dimensioni enormi e la giusta risposta dovrebbe essere l’astensione generale dal lavoro, che raccolga le rivendicazioni economiche, sociali e politiche anche delle masse non organizzate.
Ci daranno degli utopici, soprattutto coloro che temono che l’attivismo dei lavoratori possa mettere in discussione la tenuta dei propri apparati burocratici. Rivolgendoci ai lavoratori diciamo invece che l’unica dottrina utopica è quella che continua a considerare morta la classe operaia, per poi dividerla in micro lotte spesso rituali e simboliche, al solo scopo di mantenere in vita o rafforzare grandi o piccole burocrazie sindacali.


(1) http://www.frontedilottanoausterity.org/11/notizie/tuteliamo-la-salute-e-la-vita-delle-lavoratrici-e-dei-lavoratori/
(2) https://www.facebook.com/ReportRai3/videos/2883747994995223/?v=2883747994995223
(3) Trovate un articolo a tema su Progetto Comunista di aprile scaricabile dal sito 
https://www.partitodialternativacomunista.org/articoli/materiale/acquista-progetto-comunista-in-pdf

 

mercoledì 10 giugno 2020

Modello Frosinone, il cerchio si chiude

Luciano Granieri


In un precedente articolo MODELLO FROSINONE avevo sottolineato, come la città fosse stata investita da una devastante  e paradigmatica bufera  liberista. A  livello globale   il ripianamento di debito privato - provocato dalle pericolose scorribande finanziarie ordite senza controllo  da banche e fondi d’investimento - da parte degli Stati,  ha trasferito  una enorme massa debitoria dal privato al pubblico.   A Frosinone il mancato recupero di oneri di urbanizzazione dovuti  dalla lobby fondiaria privata locale, a seguito dell’approvazione del Fiscal Compact europeo, e conseguente obbligo del pareggio di bilancio imposto ai Comuni, si  è trasformato  pubblico.

A livello globale l’enorme esborso pubblico utilizzato  per coprire i "buffi" delle banche, in misura diversa, ha provocato nei bilanci degli Stati un debito enorme da cui le imposizioni del  Fiscal Compact impongono di rientrare attraverso tagli alla spesa sociale e privatizzazioni di bene e servizi pubblici.

 In egual misura la Corte dei Conti nel 2013 certificava per il Comune di Frosinone una situazione debitoria eccessiva,  provocata dai costruttori privati, da ripianare secondo le regole del patto di stabilità interna, imponendo al neo eletto sindaco Nicola Ottaviani la scelta fra una procedura di dissesto, o di piano di riequilibrio economico e finanziario. La prima, di fatto, cede l’amministrazione dell’ente direttamente ai giudici contabili, la seconda lascia al sindaco la facoltà di pianificare un piano di rientro  da sottoporre all’approvazione   della  Corte stessa,  chiamata anche al controllo del corretto espletamento del percorso di risanamento concordato.

 Ottaviani scelse la seconda opzione. Nel precedente articolo sopra richiamato manca però il finale. Come la storia ha dimostrato, le dinamiche del Fiscal Compact, sono tali che nessuno Stato, in particolare quelli del sud  Europa, riesce, nè riuscirà mai a rientrare del suo debito.  Ciò per il fatto  che gli aberranti regolamenti della UE,  costruiti sotto dettatura  delle lobby liberiste , sono concepiti  affinchè il debito  si trasformi, da fattore  puramente finanziario, a forma di dominio politico. In altri termini,   non conviene a chi comanda rientrare dei propri crediti.

Un Paese sempre sotto scacco per debito, deve pagare ogni anno quote sempre più elevate d’interessi e cedere progressivamente ai privati creditori, spazi, insediamenti e servizi pubblici, oltre che tagliare ogni tipo di spesa sociale con grave depauperamento di settori indispensabile coma la sanità. 

Lo smantellamento della sanità pubblica e di ogni servizio di cura imposto dalle politiche di rientro, ha reso evidente l’enorme vulnerabilità della collettività in occasione di eventi tragici quale  il Coronavirus. Dunque, nonostante tagli ai servizi e privatizzazioni, il debito italiano è ancora interamente sul tavolo e imporrà ulteriori immani  sacrifici, una volta ripristinato il patto di stabilità sospeso per pandemia.

Per la città  di Frosinone è in atto la stessa dinamica. La sezione regionale della Corte dei Conti del Lazio con la deliberazione n.7/2020 del 18 dicembre 2019 certifica che dal 2013, anno dell’inizio del piano di riequilibrio economico e finanziario, fino al 2018, la situazione debitoria del Comune di Frosinone è peggiorata. 

Nonostante il sindaco Ottaviani, con una solerzia liberista implacabile per la tenuta sociale della città, abbia licenziato i lavoratori dei servizi, conseguentemente   affidati ai  privati, tagliato scuola, servizi sociali in genere, aumentato al massimo  tutte le tariffe, abbia cioè massacrato i cittadini, l’ente da lui guidato si trova peggio di come era nel 2013 avendo prodotto un ulteriore debito di 27 milioni  da ripianare in 30 anni alla modica cifra di 900mila euro l’anno.

 La risposta del sindaco all’imposizione dei giudici contabili di rientrare degli squilibri è stata  sempre la stessa. La giunta ha proposto  ulteriori tagli per 5.375.000, fra riduzione del personale,  riduzione spese per scuolabus, biblioteca, impianti sportivi ed asili nido. Una accelerazione verso il Comune a servizi zero vero obiettivo  dell’attuale sindaco, perfetto curatore fallimentare degli interessi sociali, ma valente consulente e promotore degli interessi privati

  Un atteggiamento a cui per fino la Corte dei Conti ha mostrato avversione, imponendo alla giunta di trovare un’altra via di risanamento, basata su una programmazione più puntuale anziché scaricare tutto come al solito sulle spalle dei cittadini quelli presenti e quelli futuri, visto che il debito di 27 milioni graverà anche sulle spalle di chi ancora deve nascere.  


Noi cittadini di  Frosinone non pagheremo interessi  finanziari ingenti ,  come lo Stato nazionale, ma un sistema debitorio che toglie dignità  ai  cittadini e li lascia impotenti in piena balia perpetua  del più bieco potere lobbistico speculativo locale e globale è degno dei peggiori cravattari.


Qui si chiude il cerchio di una  terribile narrazione in cui, sia a livello globale che locale, il debito diventa puro dispotismo e tirannia. Per la cronaca nella richiamata deliberazione n. 7/2020 della sezione regionale della Corte dei Conti si esige dalla giunta la correzione del piano di rientro proposto dal Comune nelle modalità e nelle cifre.  Se  ciò non avverrà entro 60 giorni dalla data di avvenuta notifica (fine aprile) , avrà attuazione  l’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 149 del 2011, in base al quale il prefetto avvierà le pratiche per l’apertura del dissesto

Il che vuol dire commissariare l’ente.   Mettere  le sorti di noi cittadini direttamente  nelle mani della Corte dei Conti che per 5 anni agirà da commissario imponendo ulteriori tagli e privazioni sociali. Come accadde al governo nazionale alla fine  del 2011 quando  all’esecutivo Berlusconi subentrò il governo Monti, tanto per capirci. 

Ecco dunque che per evitare il disastro sociale , almeno in  una visione a medio termine , considerato che sarà difficile evitare  che  il prossimo sindaco della città sia   un giudice contabile, è necessario inserire la lotta per il ritorno al controllo dei cittadini sul proprio ente locale -attraverso forme di democrazia partecipativa - all’interno del contrasto al sistema capitalistico globale , e alla dittatura del debito. 

Mi auguro che questa consapevolezza possa ripartire in modo forte ed inequivocabile proprio dalla nostra città così tanto provata da devastanti  politiche antisociali.

martedì 9 giugno 2020

Ci avete rotto il bilancio

Rigenerare Frosinone



Giovedì 11 giugno alle ore 18,00, in  Piazza Garibaldi  a Frosinone, si terrà un’assemblea pubblica sulla  crisi degli enti locali oggi  resa ancora più grave dall’emergenza sanitaria. 

L’incontro intitolato :”Ci avete rotto…… il bilancio!” vedrà la partecipazione,  in video conferenza, di Marco Bersani, economista, esponente dell’Associazione Attac Italia

La grave pandemia abbattutasi in tutto il mondo ha reso difficile, se non impossibile,  le capacità di tutela dei cittadini  garantita dai Comuni. Istituzioni locali strette  nei tentacoli del patto di stabilità interna, che limita -quando non sterilizza- la spesa sociale, e la diminuzione del gettito fiscale imposto  del taglio delle tasse determinato dall’emergenza Coronavirus. 

L’alienazione di  spazi, beni e servizi pubblici, o la loro cessione ad imprese private, rende i cittadini sempre più privi di una decente tutela  pubblica,  consentendo un accesso a servizi sempre meno efficienti e sempre più costosi. Una situazione che l’emergere della crisi sanitaria ha reso insostenibile. 

In questo scenario alcuni sindaci si battono in difesa dei loro concittadini,  non applicando le regole del patto di stabilità, richiamando la preminenza dei diritti inviolabili dell’uomo e della collettività sulle ragioni degli equilibri di bilancio, così come sancito dalla Costituzione.  Altri si adeguano,  svendendo a privati   pezzi di città  pur salvaguardando  qualche piccolo spazio utile alla collettività.  Altri ancora sono dei veri e proprio curatori fallimentari. Decidono insindacabilmente a quale soggetto privato, e a quali condizioni,  cedere il tal servizio, quanti e quali asili nido chiudere, magari con relativa diminuzione degli scuolabus , come aumentare le tariffe al massimo del consentito. 

Spesso però la solerzia di tali curatori fallimentari non garantisce gli equilibri di bilancio.  Anzi li aggrava. E’ il caso dell’attuale sindaco di Frosinone. Il quale, dovendo rientrare di un debito, accumulato dalle precedenti consiliature, accertato dalla Corte dei Conti,  concordò, nel 2013, con i giudici contabili  un piano di rientro  per la durata di 10 anni, secondo quanto stabilito dall’art 243 del TUEL.  La ratio del piano era quella di alienare la spesa sociale attraverso privatizzazioni e cessioni a privati impoverendo i cittadini.

Dopo otto anni di questa cura da cavallo -passata attraverso la riduzione per la spesa del personale, con blocco delle assunzioni e licenziamento di lavoratori, affidamento a privati dei servizi comunali, tagli a scuola e servizi sociali,  aumento sproporzionato della tariffa sulla raccolta e smaltimento dei rifiuti, e dei servizi a domanda individuale - la Corte dei Conti accerta che la condizione debitoria è rimasta la stessa identica del 2013. Anzi è anche peggiorata. 

Infatti nel 2015 il riaccertamento dei residui attivi e passivi evidenzia  un buco di 27 milioni di euro. Un debito che il Comune provvede a spalmare in un piano  di rientro trentennale , trasferendo  un ammanco provocato per propria incapacità, su amministrazioni e generazioni future  assolutamente incolpevoli. Una procedura che già la Consulta, attraverso diverse sentenze,  ha definito incostituzionale. 

Sulla  estrema difficoltà in cui versa la nostra città, stretta fra le ferree regole del pareggio di bilancio e la sconsideratezza di un’amministrazione, quantomeno approssimativa, ,chiamiamo i cittadini a riflettere e ad esprimere la propria opinione. 

Ci vediamo in piazza giovedì 11. Sarà possibile, per chi lo vorrà seguire l’evento in video conferenza accedendo al  seguente link: