Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 12 dicembre 2014

Soldatesse israeliane sparano su persone disarmate

Samantha Comizzoli


Qaryout, Nablus. Soldati e soldatesse israeliani/e sparano su gurppo di persone disarmate. Due soffocati gravi da gas, uno in fin di vita per soffocamento, due feriti da proiettili veri e un ferito da rubber bullet. Il gruppo palestinese voleva solo piantare due ulivi.

Nosocomio di Anagni fra fantasia e realtà

COORDINAMENTO PROVINCIALE PER  LA SANITA' FROSINONE
Illustrazione di Luciano Granieri


A seguito delle notizie inerenti il consiglio comunale di Anagni del 09.12.14, il Coordinamento Provinciale per la Sanità ritiene doveroso rappresentare le proprie opinioni.
L'unico punto all'ordine del giorno recitava: ”Situazione del Nosocomio di Anagni alla luce dell’atto aziendale approvato”.
E' già da questo punto che nascono le nostre osservazioni.
Il nosocomio di Anagni, purtroppo, è stato cancellato dall'elenco degli ospedali della regione Lazio da martedì 4 novembre 2014. In tale giorno è stato pubblicato il Decreto della Regione Lazio numero 368, avente ad oggetto la riorganizzazione della rete ospedaliera nel Lazio. Nell'allegato n. 1 del decreto, consistente nell'elenco degli istituti di ricovero giuridicamente esistenti nella rete ospedaliera del Lazio, non viene più inserito l'Ospedale di Anagni; per cui non è corretto, in quanto fuorviante, parlare di Nosocomio, ma soltanto di presidio sanitario, cioè di una struttura poliambulatoriale con alcuni servizi. Fino a quel giorno, ancorchè derubricato ad ospedale distrettuale, l'ospedale di Anagni era presente nell'elenco regionale degli ospedali, con codice numero 120218.
Con altrettanta chiarezza è doveroso precisare poi che nelle sette righe e mezza dedicate al presidio di Anagni nelle 122 pagine dell'atto aziendale del 13 novembre 2014, nulla altro è riportato se non un sommario piano intelocutorio di riorganizzazione di attività e prestazioni, recintate nel semplice livello del poliambulatorio, e peraltro per la gran pare già presenti.
Significhiamo tutto questo perchè, da parte di chi ha responsabilità istituzionali e politiche, se si vogliono spiegare le cose ai Cittadini, lo si deve fare documenti e riscontri oggettivi alla mano, evitando di confondere il reale con l'immaginario, e lo si deve fare compiendo delle azioni che siano serie, sensate e che abbiano un fondamento logico; e non praticando, purtroppo, un indecoroso arroccamento su posizioni indifendibili.
Il Coordinamento si aspettava ben altro invece da chi ha funzioni pubbliche, e gli strumenti e le vie serie per rilanciare l'ospedale di Anagni ci sarebbero tutte, ma abbiamo il triste sospetto che manchi la cosa più importante: la volontà di farlo.
Il Coordinamento rappresenta tutto questo con grande sconforto perchè un territorio di altissima e antichissima civiltà come Anagni questo doppio affronto non lo meritava proprio. Doppio perchè al danno della perdita dell'ospedale, si aggiunge la beffa di una improponibile, se non surreale, rappresentazione dei fatti, quasi che i cittadini di Anagni e dell'intera provincia di Frosinone, non avessero l'intelligenza per distinguere le rappresentazioni fantasiose dalla realtà.

Il Fiscal compact è una scelta scellerata

Anna Maria Merlo   fonte: http://sbilanciamoci.info/

Le decisioni del direttorio Merkel-Sarkozy hanno impedito alla Ue di uscire dalla recessione. È la sola zona al mondo a non esserci riuscita. Intervista a Benjamin Coriat dell'Università Parigi XIII, membro degli Economistes atterrés

PARIGI. Sciopero generale in Italia oggi, il 15 sciopero nazionale in Belgio. In Europa, qualcosa si muove. Ma i governi dei paesi Ue, in particolare nella zona euro, restano sordi, si aggrappano soltanto all’applicazione del Fiscal Compact come Tina (there is no alternative). Il lavoro è diventata la variabile di aggiustamento in Europa. Per capire cosa succede – e cosa potrebbe succedere – parliamo con Benjamin Coriat, professore di scienze economiche all’Università di Paris XIII e membro del collettivo di animazione degli Economistes atterrés.
L’economia europea è bloccata, la disoccupazione schiaccia le vite, ma ci sono alcuni segnali di protesta. Come vede la situazione?
“Per capire cosa succede bisogna partire dalla crisi del 2008 e dalle risposte date dalla Ue, con il trattato del Fiscal Compact. L’Ue ha scelto una via particolarmente catastrofica di fronte alla crisi. Le basi di questo approccio difettoso sono istituzionali: impossibilità per la Bce di comprare debito di stato, economia nella mani dei mercati finanziari, assenza di coordinamento sociale e fiscale nella Ue. E invece di affrontare la crisi e di approfittarne per trovare una soluzione, l’Europa ha solo irrigidito il Fiscal Compact, ha trasformato la clausola del 3% di deficit in quella dello 0%, ha imposto scadenza infernali per il rientro nei parametri. In altri termini, ha tolto l’intelligenza dalle deliberazioni politiche per imporre dei meccanismi automatici. Siamo stati presi in ostaggio dalla crisi del 2008: i deficit pubblici sono esplosi, mentre nel 2007 solo la Grecia era sotto procedura per deficit eccessivo. La crisi, invece di condizionare azioni contro la finanza, è servita per attaccare il lavoro e trasformarlo in variabile di aggiustamento”.
Perché?
“È stata la scelta folle dell’accordo tra Merkel e Sarkozy. Ha impedito alla Ue di uscire dalla recessione, sola zona al mondo a non esserci riuscita, mentre Usa, Giappone, emergenti almeno hanno evitato di uscire a pezzi. Con la scelta assurda del Fiscal Compact come risposta alla crisi, la Ue ha creato una situazione impossibile, dove la sola via d’uscita è l’attacco al lavoro. Non si tocca la concorrenza fiscale, quella sociale, il potere finanziario, quello delle banche”.
Il problema è che questo non funziona, con una disoccupazione e un precariato che stanno minando le basi della società.
“In Germania, in Francia, anche in Italia sono passate solo delle parti di questo programma, c’è una resistenza. Mentre in Grecia, Spagna e Portogallo il piano è stato portato a termine. Il problema è che non funziona: non assicura la ripresa economica per uscire dalla crisi e l’Europa rischia di affondare nella deflazione. Persino Draghi ha capito che è una scelta catastrofica. Il presidente della Bce ha esaurito le possibilità di politica monetaria. Adesso tocca alle scelte politiche. Ci parlano di trappola di liquidità, nozione di Keynes che spiega che anche tassi di interesse bassi non permettono di rilanciare la crescita. In realtà siamo di fronte a una trappola della finanza: tutti i soldi – che ci sono – servono alla finanza, sono utilizzati per continuare i giochi speculativi. Non è possibile investire, perché nessun investimento darà un rendimento comparabile a quello finanziario. Siamo di fronte a una falla istituzionale e a una trappola della finanza, che in realtà sono convergenti: bisogna rompere questo circolo vizioso.
Come?
“Per cominciare, cambiando le regole della finanza. L’Europa non ha osato farlo. In questo, la Francia ha una grande responsabilità: qui l’industria finanziaria è molto potente, la Francia è bloccata su questo fronte, al servizio delle banche. Non c’è altra soluzione che il rilancio dell’investimento pubblico: liberazione dal vincolo del debito, la Bce deve comprare debito pubblico; i deficit pubblici non devono più essere la priorità, ma al primo posto devono essere poste disoccupazione, povertà, recessione. L’alternativa tra politica dell’offerta e della domanda è un falso problema: non ci puo’ essere una politica a favore delle imprese senza un rilancio degli investimenti pubblici. In Francia c’è stato un trasferimento di 40 miliardi alle imprese, ma gli imprenditori sono scesi in piazza. Per la piccola e media impresa, l’effetto di questi trasferimenti sui margini è piccolo, visto che non c’è domanda”.
Bisognerebbe anche definire quale crescita, non solo un aumento dei consumi generalizzato.
“Certo, il progetto esiste: la transizione energetica, ecologica, l’industria delle energie rinnovabili, la diminuzione di Co2. Su questo fronte, l’Europa è in ritardo. La Germania, addirittura, ha rimesso il carbone al posto del nucleare. Ci sono investimenti anche nel digitale e nell’economia collaborativa, di condivisione, più economa in risorse”.
C’è una crescente dicotomia nord-sud in Europa. A che cosa porta?
“Dalla Germania è arrivato un colpo di freno. Nell’ultimo decennio, i salari sono aumentati del 12%, mentre la media europea è stata un aumento del 70%. C’è stata una crescita di competitività anche grazie ai salari. Ma contemporaneamente i salari nell’ex Germania est sono aumentati dell’80%. Si dimentica sempre questo: la Germania ovest ha fatto concessioni per l’est, che adesso rifiuta di fare verso l’Europa. La Germania è pero’ obbligata a muoversi un po’, come per esempio il salario minimo previsto per il 2016”.
L’estrema destra, che propone l’uscita dall’euro, ha successo, soprattutto nella classi popolari. Cosa proporre in alternativa?
“La grande questione economica è la concorrenza fiscale e sociale. Si puo’ progredire restando nell’euro o uscendo? Ci sono passi avanti, come per esempio il Lussemburgo, obbligato a fare concessioni sui paradisi fiscali. Uscendo dall’euro non arriveremo a nulla. L’ipotesi è la creazione di un serpente fiscale europeo, come c’era stato il serpente monetario, cioè una tassa sulle società intorno al 28-30%, con una divergenza del 4-5%. La stessa cosa sarebbe possibile sul salario minimo. Non solo del tutto pessimista. La soluzione neo-liberista sta fallendo. Nel 2008, c’era una finestra di possibilità che non è stata sfruttata. Ce ne sarà un’altra, perché l’attacco contro il lavoro non sta funzionando. Ci sarà un secondo tempo in Europa. Il vulcano esploderà, anche sul piano elettorale. In Grecia e Spagna è esploso, ma dalla nostra parte. In Francia, c’è il rischio Fronte nazionale. La soluzione neo-liberista sembra vittoriosa, ma sta fallendo nei fatti, persino la Gran Bretagna si è resa conto che con salari cosi’ bassi il deficit aumenta e quindi ha deciso di tassare multinazionali e banche”.

giovedì 11 dicembre 2014

Chi non sciopera il 12 dicembre non è un crumiro

Unione Sindacale di Base

Lo sciopero del 12 dicembre indetto da Cgil, Uil e Ugl non è soltanto uno sciopero inutile: è  addirittura dannoso. Non solo arriva a giochi fatti, dopo che la legge sul Jobs Act è stata approvata, ma l'obiettivo fondamentale che sostiene, la riconquista della “concertazione”, è peggio del male che vorrebbe combattere.  E' proprio la concertazione, poi trasformatasi in “collaborazione”, che ha determinato il disarmo unilaterale del mondo del lavoro e la resa incondizionata al “dio mercato” e ai suoi “sacerdoti” che governano l'Italia, l'Europa ed i maggiori Istituti finanziari ed economici mondiali.
Perché la Cgil non ha scioperato il 24 ottobre quando lo ha fatto USB? Poteva addirittura anticipare il nostro sindacato, stupirci con effetti speciali e tentare di bloccare o almeno ostacolare l'approvazione dei provvedimenti del governo Renzi portando nelle strade italiane migliaia di persone ogni giorno! Perché non lo ha fatto?

Scioperare contro una legge già approvata evitando con cura di tentare di bloccarla prima è un sacrilegio, ma farlo in presenza di una “legge delega” è un peccato mortale perché coscienti di aver lasciato al Governo carta bianca almeno per i prossimi sei mesi.
Il governo ha  infatti fatto approvare un provvedimento che assegna una delega piena a Renzi, Poletti e Padoan per realizzare la distruzione completa del diritto del lavoro, dei diritti e delle condizioni di milioni di donne e uomini di questo Paese.

Ed è paradossale che il Parlamento abbia approvato questa legge anche con il voto di Epifani, di Damiano e delle decine di altri senatori e deputati provenienti dalla Cgil e in molti casi ancora iscritti a questo sindacato, senza neanche una “scomunica” formale della Camusso.
La Cgil entra nella lotta interna del Partito Democratico e nella sua crisi e dialettica interna e ne riceve in cambio schiaffi anche dai suoi ex rappresentanti e dal suo ex Segretario Generale.

Questo si chiama masochismo...... o freddo calcolo per mantenere rapporti di potere con il maggior partito italiano e allo stesso tempo cercare di far sfogare con uno sciopero inutile milioni di lavoratori che giustamente non ce la fanno più a sentire chiacchiere e prendere schiaffoni senza neanche potersi difendere.

Ciò che poi ci fa inorridire è il comportamento di certa sinistra politica, sociale e sindacale che pur condividendo questa nostra analisi non riesce a staccarsi dalla sottana di “mamma Cgil” (o non vuole per altri motivi) e invece di contribuire a costruire un'alternativa sindacale credibile, continua a portare acqua ed energie a chi le usa per altri scopi e non per la difesa del mondo del lavoro.
Pur rispettando la sacrosanta voglia di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori di protestare e di invadere le strade di questo benedetto e spesso incomprensibile Paese, USB ritiene indispensabile smascherare politicamente chi ha deciso questo sciopero inutile e dannoso!

Oggi diventa invece sempre più necessario costruire una vera alternativa sindacale a Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Non è sufficiente scioperare un giorno o scendere in piazza per una grande manifestazione, non basta più pensare a lotte sui singoli posti di lavoro o alla semplice resistenza giorno per giorno: è necessario volare alti e lavorare per demolire queste organizzazioni sindacali e realizzare l'alternativa con intelligenza e pazienza, ma anche con forza e determinazione.
Il 12 chi non sciopera non è un crumiro …. se ha in testa veramente la voglia di cambiare!

Chi risponde al numero telefonico degli esattori di Acea ?

Luciano Granieri

Come me, come  ogni cittadino di Frosinone, il mio genitore, novantenne, ha ricevuto la bolletta Acea con l’addebito dei conguagli relativi ai consumi 2006-2011. E’ ormai noto , anche  per pubblica denuncia   dall’autorità per l’energia elettrica per il gas e il servizio idrico, che  tali conguagli sono illegittimi perché stabiliti dal gestore senza comunicarli alla stessa AEEGSI come previsto dall’art. 31 comma 31.1 dell’allegato A della deliberazione AEEGSI n.643/2013. 

Nella stessa bolletta compare l’addebito del deposito cauzionale, anche questo illegittimo perché non indicato  nella carta dei servizi. Un documento che, definendo il rapporto fra gestore e utente, dovrebbe riportare l’adozione di un deposito cauzionale per chi non ha la domiciliazione bancaria delle fatture, così come prescritto   dall’allegato A titolo 1 della deliberazione AEEGSI 586/2012. 

Inoltre sempre nella  suddetta bolletta figurano gli  addebiti relativi alla depurazione. Un servizio non erogato perché reso indisponibile dai sigilli della procura. 

Per questi motivi anche mio padre, come il sottoscritto, ha impugnato la fattura e ha inviato un contenzioso per iscritto,  a mezzo  raccomandata ricevuta di ritorno,  ad Acea Ato5, e per informazione all’AEEGSI,  allo STO del’Ato5, al Garante per il servizio idrico integrato. Di quella bolletta, sono stati pagati esclusivamente i consumi. 

Per quanto riguarda il mio ricorso non ho avuto comunicazioni particolare . Mio padre invece, ripeto novantenne, è stato tempestato di telefonate, nella quale si richiedeva:  Prima la motivazione del parziale pagamento, poi il fax del ricorso e del bollettino, di seguito ancora la ripetizione del fax,  perché poco chiaro, ed infine un ulteriore pagamento di 11 euro in quanto l’importo della bolletta determinato, togliendo gli addebiti illegittimi era mancante di questa cifra. 

Ovviamente il vecchio genitore ad ogni telefonata si rivolgeva a me preoccupato, mi ha pregato di fare i fax, nonostante lo avessi avvertito che l’unica richiesta o risposta legittima  al ricorso dovesse essere inviata  per iscritto da Acea, non da altri, e  non per telefono . 

Non potendo sopportare che papà stesse così in ansia l’ho pregato di rispondere all’ennesima telefonata che avesse ricevuto dicendo  di non voler essere più  importunato  e di coinvolgere il figlio  al posto suo. 

Stamattina dopo un ulteriore  avviso, mio padre mi passa un foglietto con un numero telefonico, dicendo che i suoi persecutori aspettano una telefonata da me. Il numero era il seguente: 06 45606186. A  chi corrisponde questo recapito?  A nessuno.  Se si fa la ricerca sulle pagine bianche il numero risulta sconosciuto  ,  provando a telefonare risponde una segreteria telefonica la quale indica i numeri interni per mettersi in contatto con gli operatori, ma non cita il nome dell’agenzia a cui ci si sta rivolgendo, e  una volta ottenuto il contatto con l’operatore questi non indica il nome della società per la quale sta rispondendo. 

A chi si rivolge dunque Acea per intimidire utenti particolarmente sensibili e indifesi? E’ legale che un tizio non possa sapere chi lo stia  perseguitando? E’ semplicemente scandaloso. Ovviamente ho chiamato Acea intimando di non chiamare e non far chiamare più i miei anziani genitori per il contenzioso in atto e  che qualsiasi comunicazione in merito sarebbe dovuta arrivare per iscritto.  Ho anche fornito una mia valutazione personale sulla legittimità di incaricare agenzie di recupero credito dal nome ignoto. 

Per la cronaca rivolgendo la stessa intimazione a  non disturbare  ulteriormente,  pena una denuncia per molestie, all’agenzia di recupero crediti, l'operatrice mi ha informato    che il n. 06 45606186 corrisponde alla Telcom Intel Credit.  Una notizia che potrebbe tornare utile a chi come mio padre sta ricevendo comunicazioni indebite da questi signori.  Anzi a seguito di questi fatti invito tutti coloro che stanno subendo questi soprusi a ribellarsi con il gestore  e con queste innominate agenzie di recupero crediti. La misura è colma e per questo vanno ringraziati i nostri sindaci conniventi con Acea e con i loro ignoti esattori.


  

VERSO LO SCIOPERO DEL 12 DICEMBRE

Franco Turigliatto   fonte: Sinistra Anticapitalista


Renzi è riuscito a far approvare ai due rami del Parlamento la legge della vergogna (Jobs Act) che cancella definitivamente l’articolo 18, dà ai padroni la piena libertà di licenziamento, autorizza il demansionamento e lo spionaggio dei dipendenti per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori e garantire i profitti e le rendite finanziarie.
Un Parlamento a disposizione dei sogni di Squinzi
E’ un Parlamento che ha mostrato la sua totale sottomissione alle richieste della Confindustria e ai sogni di Squinzi (e di Marchionne), un organismo servo dei padroni, incapace di rappresentare il paese ed avverso ai bisogni e agli interessi della grande maggioranza dei cittadini. Mentre dentro l’aula del Senato si compiva il misfatto della cancellazione di diritti fondamentali dei lavoratori e si stracciava lo Statuto dei lavoratori del 1970, frutto di tante lotte e segno di civiltà politica e sociale, all’esterno le solerti forze repressive di Renzi/Alfano, provvedevano a caricare e manganellare duramente i manifestanti per non lasciare alcun dubbio sulla natura di classe (quella borghese) di questo governo.
I voti a favore del provvedimento sia alla Camera (316 su 630) che al Senato (166 su 322), dove il governo ha posto la fiducia, non sono stati travolgenti, ma per il governo non ci sono stati particolari problemi perché solo il M5stelle e Sel hanno fatto seriamente la battaglia per respingere il provvedimento. Non lo poteva certo fare Forza Italia che condivide queste misure antioperaie portate avanti dalla “sinistra” che fa la destra e nemmeno la cosiddetta sinistra del PD che si è sciolta come neve al sole.
Una vergogna particolare va rimarcata per quest’ultima: alla Camera si è divisa (qualcuno non ha partecipato al voto, pochissimi hanno votato contro, tanti hanno risposto si all’appello di Renzi); al Senato dove la sinistra PD dispone di numeri assai più favorevoli e decisivi per far saltare il banco, ha votato direttamente la fiducia con pochissime eccezioni (il solo Mineo ha votato contro e qualche altro si è assentato). Questi senatori, è bene rimarcarlo, hanno votato il Jobs Act, cioè la cancellazione dei diritti dei lavoratori, dopo che per settimane si erano sciacquati la bocca sulla difesa dell’articolo 18. Non avevamo molti dubbi sul politicismo e sulla qualità e coerenza politica di questi personaggi, ma il loro ripiegamento totale dovrebbe far riflettere coloro che pensano si possa costruire qualcosa di serio a sinistra con questi soggetti. Più che il dolore per le pene future dei lavoratori prodotte dalla nuova legge, questi parlamentari si sono preoccupati di difendere “il loro posto di lavoro”, timorosi, nel caso di elezione anticipate, di essere esclusi dalla ricandidatura. Anzi, non ci sono dubbi che uno degli argomenti avanzati, per giustificare il loro comportamento sia stato: “ Se votiamo no, facciamo cadere il governo, proprio quello che Renzi potrebbe desiderare per andare a nuove elezioni e costruirsi un plebiscito escludendoci dalle istituzioni. Quindi è meglio che…”
Quindi, per costoro, è stato “meglio” partecipare alla distruzione delle tutele e dei diritti della classe lavoratrice.
Tra questi brillano ulteriormente per ipocrisia, i parlamentari già dirigenti della CGIL (hanno partecipato all’organizzazione delle mobilitazioni di 12 anni fa per la difesa dell’articolo 18), che non hanno ritenuto politicamente immorale votare questa legge, per di più in aperto scontro con l’organizzazione sindacale di cui hanno la tessera. Peraltro la direzione della CGIL non ha battuto ciglio di fronte a una simile vergogna, né preso provvedimenti nei loro confronti.
La partita non è finita
Ma la partita non è finita col voto parlamentare perché nel paese è cresciuta la mobilitazione e l’opposizione di massa al governo e alle sue politiche antisociali. Renzi ha avuto poco tempo per cantare vittoria (“una cosa enorme, la maggioranza cresce”, ha dichiarato alla “Stampa” di Torino) perché si è ritrovato tra i piedi il verminaio di Roma in cui il suo partito è implicato fino in fondo, che illustra oltre ogni aspettativa la ramificazione corruttrice del sistema capitalista anche nelle sue forme più basse e mafiose. Ma non basta. E’ di questi giorni il nuovo declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating. Sappiamo come queste agenzie siano strumento dei capitalisti per portare avanti le politiche liberiste di austerità, ma per la credibilità di Renzi nel mondo dei capitalisti, cioè il suo, è un brutto colpo. Le difficoltà del presidente del Consiglio sono su diversi fronti e sempre meno sono quelli che credono alle sue false promesse e bugie: la maggioranza della classe lavoratrice, ma anche delle cittadine e dei cittadini ormai ha capito che gli amici di Renzi non sono i giovani e i precari, ma i ricchi e i potenti, quelli che finanziano il suo partito a 1.000 euro per cena. Non ci vuole molto a capire che se i padroni corrono in frotte alla corte di Renzi, chiedono un corrispettivo. E il corrispettivo è il Jobs Act, ma anche la legge di stabilità, un concentrato di nuovi regali ai padroni con la riduzione delle tasse per le imprese, e nuovi ingentissimi tagli agli enti locali e alle amministrazioni pubbliche, cioè l’accetta sulla spesa e servizi sociali.
Renzi non ha avuto vergogna a chiamare eroi gli imprenditori, quando molti di questi ristrutturano, licenziano, speculano e corrompono e quando, con le politiche dell’austerità, sono milioni di lavoratrici e lavoratori che hanno visto ogni giorno peggiorare la loro situazione economica e sociale.
Ma la resistenza e la ribellione sono cominciate; in tanti hanno preso coscienza che non si può andare avanti così, che bisogna mobilitarsi e l’autunno ha cominciato a colorarsi del blu delle tutte operaie: lo si è fatto nelle fabbriche che licenziano con lotte molto dure, di cui quella della AST di Terni è stato un punto di riferimento, conclusasi con un risultato significativo per i lavoratori; lo si è fatto in tante mobilitazioni locali, nella manifestazione del 25 ottobre a Roma e nella giornata di lotta del 14 novembre che ha visto in piazza con lo sciopero nazionale dei metalmeccanici della FIOM, lo sciopero sociale dei precari, dei disoccupati, dei movimenti sociali.
E’ possibile ancora battere governo e Confindustria
Non bisogna tornare indietro, bisogna continuare la lotta. Ben venga lo sciopero del 12 perché, pur se è molto difficile, è ancora possibile battere la Confindustria e il suo governo.
Se la direzione della CGIL, colpevolmente per totale subalternità ai padroni e ai governi, non avesse lasciato passare anni senza far nulla non saremmo in queste difficoltà; ed anche in questi mesi molto di più andava fatto e tempestivamente; il rinvio dello sciopero, mentre la mobilitazione stava crescendo, non è stato un segnale positivo e ha dato possibilità di manovra al governo; realizzare però una mobilitazione più duratura è ancora possibile; è possibile anche convincere i tanti indecisi che questa volta si fa sul serio.
Per questo tutti coloro di sinistra che non vogliono commentare quanto accade, dando più o meno per scontata la sconfitta e puntando solo a raccattare qualche tessera, devono lavorare per preparare lo sciopero dal basso, nelle assemblee, nelle discussioni, coinvolgendo le/i compagne/i di lavoro, ma anche i vicini di casa, i dettaglianti della via, spiegando a tutti che è inutile arrabbiarsi individualmente davanti alla televisione e al bar (tanto meno prendersela contro i più disgraziati, i migranti e i Rom, come l’estrema destra e la Lega indicano), ma che bisogna mobilitarsi collettivamente e in solidarietà per bloccare le politiche lacrime e sangue del governo e della troika europea.
Serve una grande mobilitazione unitaria, di tutte le categorie, di uomini e donne, di vecchi e giovani, dei precari e dei lavoratori che ancora hanno qualche garanzia (ma sempre meno); serve la mobilitazione della scuola e degli studenti e serve che convergano tutte le organizzazioni sindacali che vogliono difendere la classe lavoratrice e i movimenti sociali presenti nel paese.
Due posizioni simmetriche entrambe sbagliate
Per questo dissentiamo da due posizioni presenti in aree della sinistra.
Da una parte quella di certi sindacati di base, che hanno deciso di trascurare lo sciopero del 12, di non confluire nella mobilitazione indetta dalla CGIL avanzando tre considerazioni (la grave subordinazione della direzione CGIL alle politiche del padronato, l’inconsistenza della piattaforma rivendicativa, la ricerca di una manifestazione di testimonianza senza una seria volontà di costruire una lotta duratura e vera). Sono elementi che corrispondo a verità, ma non possono giustificare in alcun modo la non partecipazione allo sciopero sui luoghi di lavoro e la non presenza nelle piazze insieme alle/ai tante/i lavoratrici/tori che vorranno utilizzare quella giornata per far sentire le loro ragioni. Fare questa scelta vuol dire contribuire ulteriormente alla divisione della classe e lasciare campo libero alle manovre e alle scelte della burocrazia della CGIL. Non ci risulta che queste forze siano in grado in altro momento di mobilitare il grosso della classe lavoratrice. Noi pensiamo che tutto il sindacalismo di classe avrebbe dovuto essere in quella giornata con i propri lavoratori per unirli nella lotta con tutti gli altri mostrando che si può marciare insieme ed introducendo contenuti e strategie più radicali e coerenti.
Difficile pensare che la battaglia per l’egemonia contro gli apparati burocratici conservatori la si faccia stando a casa attraverso la denuncia dei loro tradimenti, in attesa che i lavoratori capiscano che bisogna cambiare di tessera; più probabile che in questa situazione cresca la demoralizzazione e frammentazione.
Da un’altra parte ci sono forze politiche di sinistra che fanno finta di non vedere i limiti e le manovre degli apparati burocratici (a cui molte volte sono ancora legate o subordinate), che delegano in toto alla direzione della CGIL o al massimo della Fiom le strategie della mobilitazione e della lotta, senza nessuna preoccupazione di costruire in quella giornata la presenza di una proposta di classe più radicale e soprattutto di continuità della mobilitazione. Sovrappongono solo la necessità della costruzione di una nuova sinistra, di un’alternativa politica, che, avanzata in questo modo, rischia di sembrare ed essere strumentalmente solo elettorale. Anche in questo caso è vero che occorre costruire una sinistra di alternativa, ma questa è fattibile solo attraverso una piena indipendenza non solo dal PD, ma anche dalla direzione della CGIL e passa in primo luogo attraverso una battaglia di egemonia e di orientamento sulle stesse lotte in corso affinché queste possano realmente dispiegarsi e non concludersi rapidamente e malamente.
Unità, rivendicazioni radicali, una lotta prolungata
Il terreno su cui muoversi in questo passaggio decisivo ha quindi due valenze.
Quella dell’unità nella lotta per essere in tante/i nelle piazze, per fermare le produzioni e i servizi (colpendo i padroni nel loro portafoglio), per avere la forza di bloccare il paese intero, muovendo e polarizzando anche gli incerti e i dubbiosi in un momento in cui fare uno sciopero (e più scioperi) pesa enormemente sul piano economico per i lavoratori e le loro famiglie e coloro che hanno condizioni di lavoro o di non lavoro che impediscono l’azione stessa di sciopero;
Quella di introdurre, rispetto alle generiche e fumose rivendicazioni ufficiali che non chiedono neanche il ritiro del Jobs Act, obbiettivi ben più radicali, netti e paganti dentro una proposta di continuità della lotta per raggiungerli piegando il governo; solo la chiarezza e la semplicità degli obiettivi possono permettere di reggere una lotta dura e prolungata, quale è necessaria.
Il Jobs Act è una legge delega che introduce dei criteri che per concretizzarsi in norme operative hanno ancora bisogno di decreti legislativi del governo; possiamo e dobbiamo impedirlo.
Bisogna chiedere contemporaneamente il ritiro della legge di stabilità, una finanziaria che toglie ai poveri per dare ai ricchi e il ritiro del piano sulla “buona scuola” rivendicando la riqualificazione vera dell’istruzione pubblica, a partire dall’assunzione dei precari e dal rinnovo del contratto.
Così come va cancellato il decreto “Sblocca Italia” che è un incentivo totale alla speculazione e alla distruzione dei territori, con l’inevitabile appendice della corruzione e del malaffare.
Serve la nazionalizzazione delle fabbriche che chiudono o licenziano o inquinano e la loro riattivazione in funzione dei bisogni sociali, dei lavoratori e dei territori. Ma serve anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per creare occupazione e dare una prospettiva ai giovani.
E il salario deve tornare ad avere un valore che permetta di arrivare alla fine del mese e di assicurare a tutti una vita degna.
Sono i punti di partenza per un programma economico e di spesa pubblica sociale alternativo a quello dei capitalisti, ma sono anche il punto di partenza per una lotta lunga e prolungata per cacciare il governo e le sue politiche.
La classe lavoratrice ridiventi soggetto politico

Non lasciamo che il 12 sia solo una giornata dimostrativa della forza numerica che ancora hanno alcune sigle sindacali, chiudendo irresponsabilmente questa breve stagione di lotta (come in cuor loro pensano molti dirigenti sindacali), ma che sia invece l’inizio di una vera e propria prova di forza sociale che polarizzi aeree sempre più ampie, che ricostruisca un blocco sociale alternativo intorno alla classe lavoratrice. Quest’ultima deve ridiventare un soggetto politico a tutto campo. E’ l’unico modo per battere un governo padronale che vuole una società piegata e gelatinosa, divisa e inattiva, ma anche per battere le ombre e le presenze sempre più minacciose della Lega di Salvini e delle estreme destre, che in questa decomposizione della società sperano di costruire le loro fortune reazionarie e antidemocratiche.

SCIOPERIAMO PER SVILUPPARE UNA STAGIONE DI LOTTA!

Renato Caputo

In tempi brevi e a colpi di fiducia, il Governo sta varando  provvedimenti che colpiscono pesantemente il mondo del lavoro e quello della scuola. Quali sono, in attesa dei decreti attuativi, i punti più significativi del Jobs act e come si legano a quanto accadrà nelle scuole?
- superamento dell'art. 18: non tutti i licenziamenti disciplinari senza giusta causa avranno diritto al reintegro ed è del tutto abolito il reintegro per i licenziamenti economici;
- demansionamento: le aziende potranno attuare processi di ristrutturazione e riorganizzazione  anche destinando il dipendente a mansioni diverse e di categoria inferiore; parallelamente nella scuola si introduce il concetto di organico funzionale 
- controllo a distanza dei lavoratori: si apre all'uso di telecamere e altre strumentazioni tecnologiche; telecamere e microfoni anche nella aule?
- cancellazione della cassa integrazione per le aziende in fallimento, sostituita da un assegno universale stile Fornero.
- contratto unico a tutele crescenti: significa precarietà assoluta per tre anni, senza alcuna garanzia al loro termine, e cancellazione del valore del Contratto Nazionale. Nella scuola più potere ai Dirigenti Scolastici e porte aperte  ai privati, mentre gli scatti di anzianità vengono eliminati per introdurre i miseri e nebulosi criteri di premialità previsti dal piano scuola.
Si tratta dello smantellamento dei diritti mascherato da riforma: un inganno di cui siamo consapevoli e per questo motivo il 12 dicembre scenderemo in piazza come soggetti autoconvocati per cacciare non solo un  governo espressione delle battaglie storiche della destra sul lavoro, ma anche i vertici dei sindacati confederali, complici di un processo che elimina lo Statuto dei Lavoratori e istituzionalizza il precariato per tutti.
Ciononostante consideriamo il 12 dicembre una data necessaria per portare avanti ed amplificare lo scontro con il Governo: nel giorno dell’anniversario della strage di Piazza Fontana, manifesteremo con gli studenti e i lavoratori delle altre categorie per riprendere il filo della lotta e della solidarietà popolare all’insegna dell’autorganizzazione e del conflitto. Ci stringeremo a tutti gli altri settori popolari in lotta per fronteggiare la strategia della guerra tra poveri che accomuna governo, Confindustria, leghisti, neofascisti, PD e compari.

E' L'AZIONE DEI LAVORATORI AD INDICARE L'USCITA DALLA CRISI



No alla scuola dei padroni del governo Renzi
No al Jobs act
No all’abolizione dell’articolo 18
No al razzismo e alla guerra tra poveri: unità, lotta e solidarietà

PARTITO COMUNISTA ITALIANO SABATO A FROSINONE INIZIA LA RICOSTRUZIONE

Ugo Moro, responsabile ufficio stampa Comitato regionale PdCI



Si svolgerà sabato 13 dicembre a Frosinone presso la sala conferenze dell’Hotel La Trattoria l’iniziativa di presentazione dell’appello per la Ricostruzione del Partito Comunista Italiano.
Alcune dichiarazioni dei relatori, svolte introducendo gli argomenti in discussione.
Oreste Della Posta, Segretario Provinciale PdCI: “ E’ indispensabile che all’interno di una sinistra aggregata, che ci proponiamo di unificare nella forma di un fronte ampio, strutturato e operante in modo coerente, si ricostruisca e si consolidi una presenza comunista autonoma, che si proponga la sua riorganizzazione in partito, che sappia unire in questo processo tutte le forze comuniste con una cultura politica affine, che in vario modo si richiamano, attualizzandolo, al miglior patrimonio politico e ideologico dell’esperienza storica del PCI, della sinistra di classe italiana e del movimento comunista internazionale e alla migliore tradizione marxista, a partire dal contributo di Lenin e Gramsci. Con una chiara collocazione internazionalista e antimperialista; consapevole che, a fronte di un imperialismo che mira a scardinare la sovranità nazionale di molti paesi per piegarne la resistenza, la difesa di tale sovranità assume nella nostra epoca un grande rilievo ed è precondizione per l’affermazione del protagonismo dei popoli. A ventitrè anni dalla fine del Pci e stante l’attuale insufficienza delle esperienze che in modo diverso si sono richiamate a quella grande storia, nasce l’esigenza di ripartire con l’obiettivo della costruzione di un partito comunista che ne riprenda le migliori caratteristiche, ricollocandole nelle attuali condizioni italiane e internazionali.”
Massimiliano Palombi, Segretario Provinciale del PRC: “Nella consapevolezza che si tratterà di un processo graduale e di non breve periodo, che metta capo a un’unica forza comunista rigenerata, capace di superare l’attuale frammentazione e, con essa, una sempre più evidente irrilevanza politica e sociale, ribadiamo l’indispensabilità di una forza politica comunista unificata, non settaria né subalterna all’opportunismo delle mode correnti, che si ponga in un rapporto di dialogo costruttivo (ma da un punto di vista autonomo) nell’ambito della sinistra d’alternativa, senza cessioni di sovranità sulle questioni di fondo, ma capace di trovare volta a volta la sintesi strutturata e non occasionale dell’unità d’azione.”
Giacomo Marchioni del Comitato Politico Nazionale del PRC:

“Il superamento della soglia di sbarramento ottenuto di misura dalla lista Tsipras nelle recenti elezioni europee – quale che sia il giudizio che si vuol dare su questa esperienza elettorale e sulle divisioni profonde emerse prima e dopo il voto – dimostra quantomeno che nonostante i forti limiti soggettivi delle forze in campo esiste uno spazio anche politico-elettorale, militante e d’opinione, a sinistra del Pd renziano. Ed esiste anche uno spazio oggettivo per una sua espansione, in direzioni diverse: nei confronti di vastissimi settori popolari che sempre più approdano all’astensionismo come forma di protesta anti-sistemica; nei confronti di una parte dall’elettorato popolare, operaio e di sinistra del Pd, non certo entusiasta di una leadership liquidazionista della stessa identità socialdemocratica; ma che si rivela (comprensibilmente) poco attratto dalle diverse alternative a sinistra del PD; nei confronti di quella parte di popolo di sinistra (a volte di estrema sinistra) che vota 5Stelle, attratto dal voto “arrabbiato” e di protesta, anch’esso deluso dall’assenza di grandi alternative credibili a sinistra."

Davide Parente, Segretario della FGCI di Frosinone: “Il voto di gran parte dei Paesi europei dimostra che esiste e può espandersi anche in tempi brevi uno spazio sociale e politico durevole, con basi di massa, per un consenso ai comunisti e alle forze della sinistra anticapitalistica: ed è solo per gravi responsabilità soggettive di tutti i gruppi dirigenti che tale spazio in Italia – in questi ultimi trent’anni che ci separano dalla morte di Berlinguer – non è stato costruito.
In tale contesto regressivo, le gravi contraddizioni in cui si è avvolta la lista Tsipras, prima e dopo il voto, mostrano che la strada per un’aggregazione della sinistra di classe è lunga e tortuosa. E che essa richiede non improvvisate alchimie elettoralistiche, ma la costruzione di fondamenta solide nel mondo del lavoro e nel conflitto di classe nonché un pensiero forte verificato nel tempo: è questo il solo terreno su cui possono crescere gruppi dirigenti uniti e solidali, tenuti insieme non da occasionali e contingenti convenienze politiciste.
Bruno Steri del Comitato Politico Nazionale del PRC: “ Un credibile processo unitario che includa la sinistra partitica va costruito sulle basi solide dei rapporti con le forze sindacali, associative e di movimento, anche nella competizione elettorale: la quale deve tornare ad essere – se si vuol conseguire un consenso non effimero – un momento unitario del percorso politico, non il suo presupposto o il suo punto d’arrivo. Entro tale processo – in modo inseparabile da esso, e nel quadro di una fase che, a sinistra, appare caratterizzata da un alto tasso di mobilità politica – riteniamo fondamentale il lavoro di ricostruzione in Italia di un partito comunista degno di questo nome: di una forza organizzata non settaria, attenta agli sviluppi della dinamica politica, legata organicamente al mondo del lavoro e non opportunista, che si ponga in grado di orientare e condizionare da un punto di vista di classe il processo di aggregazione della sinistra.
Siamo consapevoli dei limiti pesanti che hanno caratterizzato l’esperienza di questi ultimi venti anni, in particolare dell’insuccesso e delle debolezze originarie di una “rifondazione comunista” pur intrapresa con passione e dedizione all’indomani della liquidazione del PCI.”

Ugo Moro, appena eletto nella Segreteria Nazionale del PdCI: “ La crescente frammentazione e il moltiplicarsi delle divisioni hanno dissipato un patrimonio militante che ha complessivamente interessato qualcosa come un mezzo milione di iscritti e dilapidato un’influenza elettorale che aveva raggiunto nella seconda metà degli anni Novanta i 3 milioni e 200 mila voti, proiettata verso il 10%. A riprova di quanto sia facile dissipare in pochi anni un grande patrimonio elettorale, quando esso non riposi su solide fondamenta. Oggi abbiamo cognizione delle cause principali (nonché degli errori dei gruppi dirigenti) che sono state alla base di questo insuccesso: a cominciare da una debolezza ideologica e un eclettismo delle provenienze, che hanno impedito una sintesi graduale, il formarsi di una cultura politica comune, capace di tenere unito il partito anche nei momenti di forte dibattito politico interno, come avviene invece nella più parte degli altri partiti comunisti al mondo.
A ciò si è sommata, come concausa dell’insuccesso, la delusione progressivamente indotta dalla partecipazione dei comunisti al governo del Paese, che non ha conseguito alcun risultato sostanziale a favore dei nostri soggetti sociali di riferimento, accentuata da forme di carrierismo politico, da lotte interne e dalla formazione di ceti politici separati dalla più genuina militanza di base, che hanno seminato sfiducia e distorto la gestione interna delle stesse organizzazioni comuniste, la sua trasparenza, il suo costume, la sua moralità. C’è dunque la necessità di una rilegittimazione dei comunisti, compito tanto più urgente in quanto la crisi sistemica in cui siamo a tutt’oggi immersi continua a colpire in primo luogo lavoratrici e lavoratori, privi di una rappresentanza anticapitalistica adeguata.”
Sui comunisti grava quindi una grande responsabilità nella promozione di un’analisi all’altezza delle innovazioni del capitalismo e nell’esplicitazione di proposte per il suo superamento, nell’individuazione della nuova composizione di classe e delle forme organizzative efficaci per far fronte alle nuove contraddizioni. In particolare ai comunisti, organizzati in partito, è ancora affidato il compito di portare nello scontro sociale e nella dialettica politica una visione generale delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, nonché una percezione matura delle dinamiche internazionali e della prospettiva mondiale.



mercoledì 10 dicembre 2014

L’operazione Pestilentia a Ferentino

Rete  per la tutela della Valle del Sacco
Francesco Bearzi – Coordinatore Frosinone
Alberto Valleriani – Presidente


Sembra essersi chiuso definitivamente il cerchio intorno a una delle principali fonti delle “puzze” che infestano il territorio di Ferentino provenendo dalla zona industriale limitrofa a via Morolense. Come si apprende dagli organi di informazione, si è conclusa ieri l’operazione Pestilentia, condotta dal Corpo Forestale della Regione Sardegna, a seguito delle indagini svolte dal Nucleo investigativo del Corpo forestale regionale su delega della Procura distrettuale Antimafia di Cagliari, che ha portato all’arresto degli amministratori della società - compreso il responsabile dello stabilimento LEM di Ferentino - disposto dal GIP del tribunale di Cagliari.

Quale sarebbe stato il ruolo dello stabilimento LEM di Ferentino, già sequestrato all’inizio dell’ottobre scorso dai Carabinieri per irregolarità nelle autorizzazioni relative alle emissioni in atmosfera? Sottoprodotti illeciti di origine animale ritirati in Sardegna, comprese carcasse di ovini morti a causa di blue-tongue e destinati al centro di distruzione più vicino al focolaio accertato (non è escluso neppure l’utilizzo di maiali deceduti per peste suina), venivano trasportati a Caivano (Napoli) per la frantumazione, infine a Ferentino per la definitiva trasformazione in farine, oli o grassi destinati al mercato dei mangimi.

Va sottolineato il ruolo esercitato sul territorio in questa e in tante vicende analoghe da una “rete bianca” di associazioni, comitati, cittadini, solerti tecnici e forze dell’ordine, che agevola l’operato di queste ultime. Un pensiero va anche agli amministratori della città di Ferentino, a chi ha sempre seguito la questione con attenzione e a chi sostanzialmente ha fatto finta di niente.

Un ultimo pensiero ai 70 lavoratori dello stabilimento LEM di Ferentino. Vittime di un sistema che illude e violenta la Valle del Sacco, dove si continua a considerare normale il baratto tra ambiente-salute e posti di lavoro. Inaccettabili, ad esempio, le recenti dichiarazioni del presidente della SAF, che auspica il trattamento di ulteriori 200 tonnellate al giorno di rifiuti solidi urbani provenienti da Roma per salvaguardare i livelli occupazionali e rendere possibile l’assunzione di 15 nuovi dipendenti. Un ciclo virtuoso dei rifiuti, come un diverso modello di sviluppo, ne creerebbe molti di più, senza compromettere la qualità della vita della popolazione.   

martedì 9 dicembre 2014

Importanti comunicazioni alla cittadinanza Frusinate

Luciano Granieri


Qual è lo stato d’animo di un povero  Cristo abitante di Frosinone, per lo più disoccupato o precario , quando si sveglia la mattina e comincia a respirare l’aria della città più inquinata d’Italia, sapendo che in caso di malattie respiratorie, l’ospedale locale non sa come curarlo  perché non c’è il reparto di pneumologia? 

Come si sente il suddetto soggetto se è obbligato ad accompagnare  a piedi i figli a scuola perché non ha i soldi per pagare la stratosferica  tariffa dello scuolabus, né per lasciarli a mensa? 

E’ contento il tapino nel trovarsi  i rubinetti a secco perché Acea gli ha tolto l’acqua?  

Come prenderà  il fatto che mancano i soldi per l’illuminazione pubblica, per il servizio ai disabili, per riqualificare  alcuni siti di pregio della città, mentre le sostanze abbondano per fare lo stadio? 

E’ contento di pagare i tributi più alti d’Italia,  monnezza compresa, con un tasso di raccolta differenziata irrisorio?  

E’ felice  di risiedere in una città che giace al fondo della classifica per la qualità della vita? 

Probabilmente lo stato d’animo del succitato povero Cristo non sarà dei migliori. Anzi sarà pervaso da un’irrefrenabile voglia di tirare qualche bestemmione. Ma triste sarebbe il disappunto e la noia se una limitata conoscenza del novero delle santità lo costringesse a bestemmiare i soliti duo o tre santi. 

E  qui arriva il salvifico soccorso del sindaco Ottaviani.  Il primo cittadino di Frosinone,  non spenderà i soldi per i servizi ai disagiati e ai  disabili, avrà venduto i propri cittadini alle mire speculative della sanità privata, non avrà vigilato sui soprusi di Acea, ma in compenso ha acquistato fiammanti e luminosi cartelli che ogni mattina indicano il santo del giorno.  Vuoi mettere il sollievo di poter bestemmiare un santo diverso ogni mattina?  E poi dicono che il sindaco non è attento alla sensibilità dei propri cittadini! Certo quei pannelli saranno costati un po’ di soldi, ma è un sacrificio doveroso per rasserenare il povero Cristo stanco di bestemmiare sempre  i soliti santi.

La relazione fra la cupola nera che governa Roma e lo sciopero del 12 dicembre di Susanna Camusso

Resistenza


Occhio non vede, cuore non duole

La relazione fra la cupola nera che governa Roma e lo sciopero del 12 dicembre di Susanna Camusso

12 dicembre, anniversario della strage impunita di Piazza Fontana 

L’operazione “mondo di mezzo” che ha scoperchiato la fogna di intrighi, malavita, affari che regola da anni l’amministrazione di Roma è la manifestazione di quella guerra per bande in cui la classe dominante è avviluppata. Tutto il clamore attorno a intercettazioni, atti, relazioni che emergono dall’inchiesta è il clamore di chi non voleva vedere, faceva finta di non vedere che la “mafia-capitale” è un sistema che regola il governo delle città e, in definitiva, di tutto del paese. 

Chi ancora non vede, o fa finta di non vedere, che non è una questione di PdL o PD, fa in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, il gioco di questa o quella fazione della classe dominante. E in particolare del Vaticano: nessun mezzo di “informazione”, nessun giornalista d’inchiesta, nessun esponente politico di livello nazionale, nessun mezzo di comunicazione e formazione dell’opinione pubblica chiama in causa il Vaticano, benché proprio lì, a Roma, “non si muove foglia che il Vaticano non voglia”.

La questione è una e una sola: che siano “eminenze grigie” o “volti pubblici”, politicanti o faccendieri, portaborse o funzionari, amministratori o ragionieri… il più sano ha la rogna. La questione è che siamo di fronte non a un ramo marcio del sistema, siamo di fronte alla rappresentazione del sistema economico, politico, amministrativo che è così, marcio. 

Fra chi non vede o non vuole vedere, c’è Susanna Camusso. 

Sbrigato efficacemente il nodo di rinviare lo sciopero dopo il voto del Senato sul Job’s Act, adesso la parte craxiana della CGIL si adopera per prepararlo, di concerto con la UIL (esemplare l’invocazione a Renzi del neo Segretario Barbagallo: ci dia un motivo per ritirarlo), al modo di stanco e inutile rituale. L’inutilità del rituale non sta nelle modalità e neppure nella data, sta tutto nel non voler vedere e nel non voler far vedere il nesso stretto fra questo sciopero generale e quanto lo “scandalo” di mafia-capitale dice del Paese.

Non serve a niente chiedere al governo di ritirare il Job’s Act (anche se, per la verità, non è ancora approvato e comunque ogni legge può essere abrogata). La Camusso lo sa. Questo sciopero ha altri compiti, altro ruolo, altra funzione. E’ lo sciopero che chiama a mobilitarsi le masse popolari contro la fogna a cielo aperto che è il governo del paese, ad ogni livello. E’ lo sciopero che chiama i lavoratori di ogni categoria e ogni settore sociale a mobilitarsi per cacciare il governo Renzi - Berlusconi.

 La Camusso può anche fare finta di niente “occhio non vede, cuore non duole”, le centinaia di migliaia di lavoratori che scenderanno nelle strade e nelle piazze no. Loro non possono fare finta di niente: il Ministro Poletti che cenava con la cupola di Roma, il governo Renzi - Berlusconi, i neofascisti sul libro paga dei Servizi Segreti, i presidenti di cooperative, i funzionari che regolano il traffico delle case popolari, i padroni che chiudono e delocalizzano le aziende, i palazzinari, i macellai della scuola pubblica e i parassiti sulla sanità, i cardinali e la Corte pontificia… sono tutti su un carro, litigiosi e ingordi per chi deve spartirsi la fetta di torta più grossa, ma sono tutti sullo stesso carro. Quel carro va rovesciato. 

Per questo ben oltre le liturgie sindacali, lo sciopero del 12 dicembre, che già è stato imposto ai nipotini di Craxi che dirigono la CGIL grazie alla mobilitazione degli operai nelle settimane passate, deve essere valorizzato, conquistato, diretto dal protagonismo di chi per vivere deve lavorare.

E’ l’ora di scendere nelle strade, usare tutte le magagne, i litigi, le incertezze della classe dominante (di cui i vertici della CGIL fanno parte, beninteso) per rendere ingovernabile il paese, dal basso, e costruire, dal basso, una nuova governabilità. 

Cambiare il corso delle cose è possibile. Sono i lavoratori organizzati e il resto delle masse popolari che lo possono fare con un loro governo d’emergenza che rimedi da subito almeno agli effetti più gravi della crisi con misure d’emergenza. 

La chiave di volta della situazione è avere un progetto, un piano d’azione che inquadra le diverse e a volte contrastanti rivendicazioni e aspirazioni delle masse popolari in un obiettivo che le rende compatibili e realistiche. Realistiche, perché la loro realizzazione non dipende da quello che faranno o non faranno Renzi, Bergoglio, Napolitano, Squinzi, Marchionne o chi per essi, cioè da chi non ha nessun interesse a realizzarle, ma dai lavoratori e dal resto delle masse popolari organizzate che, invece, di realizzarle hanno tutto l’interesse.

Da dove iniziare? Costituire organizzazioni operaie nelle aziende private e organizzazioni popolari nelle aziende (ancora) pubbliche che si occupino sistematicamente della salvaguardia delle aziende prevenendo le manovre padronali per ridurle, chiuderle o delocalizzarle, studiando in collegamento con esperti affidabili quale è il futuro migliore per l’azienda, quali beni e servizi può produrre che siano necessari alla popolazione del paese o agli scambi con altri paesi, predisporre in tempo le cose. Questo è oggi il primo passo: lo chiamiamo “occupare l’azienda”.

Stabilire collegamenti con organismi operai e popolari di altre aziende, mobilitare e organizzare le masse popolari, i disoccupati e i precari della zona circostante a svolgere i compiti che le istituzioni lasciano cadere (creare lavoro e in generale risolvere i problemi della vita delle masse popolari), a gestire direttamente parti crescenti della vita sociale, a distribuire nella maniera più organizzata di cui sono capaci i beni e i servizi di cui la crisi priva la parte più oppressa della popolazione, a non accettare le imposizioni dei decreti governativi e a violare le regole e le direttive delle autorità. E’ il contrario che restare chiusi in azienda ed è il passo decisivo: lo chiamiamo “uscire dall’azienda”.

Le organizzazioni degli operai e degli altri lavoratori che “occupano le aziende ed escono dalle aziende” sono la premessa, la base, per costituire un governo d’emergenza popolare e farlo ingoiare ai padroni. Non importa in quanti si è all’inizio in un’azienda. Non importa quante sono le aziende in cui si inizia. Altri seguiranno, perché ogni attacco dei padroni dimostrerà che chi ha iniziato ha ragione. Il Partito dei CARC sostiene, supporta e organizza ogni operaio e ogni lavoratore che si mette su questa strada, che decide di prendere in mano il proprio futuro!

Video a cura di Luciano Granieri


lunedì 8 dicembre 2014

Libertà dei media occidentali

Maha Bader.


Vorrebbero  ogni tanto i media occidentali occuparsi della violenza e degli abusi sui minori  commessi ogni giorno dai soldati israeliani  contro i bambini palestinesi?  Se questi abusi fossero stati compiuti dai miliziani dell’ISIS la notizia avrebbe invaso i media di tutto il mondo occidentale. Ma naturalmente ognuno chiude la bocca quando si tratta di Israele. Sono orgogliosa di constatare la mia maggiore libertà nel parlare dei crimini di Israele rispetto alla maggior parte degli occidentali che pensano di godere di libertà di parola ed espressione,  quando questa, invece, è limitata e controllata. Quando rimanete in silenzio su certi crimini, siete complici e perdete la vostra umanità. Vi attivate maggiormente per un cane o un gatto in preda ad una malattia piuttosto che darvi da fare per le sofferenze di un essere umano come voi.

Traduzione di Luciano Granieri.