Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 3 febbraio 2018

ISRAELE VA FERMATO

Ragionandoci


Sto seguendo giorno per giorno gli eventi in Palestina e ho letto molti articoli di analisi della situazione in cui si cerca di comprendere come e perchè si è giunti a questo sanguinoso stallo in cui la occupazione diviene una morsa sempre più serrata e la difesa dei palestinesi è sempre più fantasiosa, intelligente, e rischiosa: Se a Nabi Saleh hanno scelto la nonviolenza, hanno anche scelto di pagarne il prezzo che è altissimo. Il mondo sta a guardare, la visibilità che ha avuto la vicenda di Ahed e della famiglia Tamimi, che è diventata il gruppo da combattere e denigrare perchè troppo visibile, troppo coinvolgente, troppo conosciuto oramai, non ha smosso che qualche labile reazione ufficiale, a cui non fa seguito nessuna azione concreta. Intanto i ragazzini vengono uccisi, mutilati aggrediti, terrorizzati sperando così di spegnerne sul nascere la resistenza, e di spezzare la loro forza. Certamente qualcuno si piega, ma la maggioranza sembra divenire più forte, essere temprato dalla sofferenza, dalle angherie, dalla prigione.
Mi ha colpito una intervista a Nour Tamimi appena liberata per la serenità con cui parla della sua incarcerazione: “certo è stato duro, ella ci dice, era la prima volta che venivo arrestata…” Era la prima volta: queste ragazzine e queste giovani donne, questi ragazzini e giovani uomini mettono nel conto delle loro vite sotto occupazione che il carcere li aspetta: sanno che verranno incarcerati, solo non sanno quando, e i soldati spesso vengono di notte, quando la gente cerca di dormire e magari non è così attenta, per arrestare Ahed, e ora per il figlio di Manal , Mohammad di 19 anni, che è stato arrestato allo stesso modo.
Sembra che  abbiano smesso, o almeno lo fanno meno spesso e non a favore di telecamere, di arrestare violentemente e pubblicamente i bambini, di coprire loro gli occhi e di trascinarli via: troppa cattiva pubblicità in quelle foto che mostrano un branco di adulti super armati che trascina via un ragazzino malmenato. Qualcuno che ancora cerca di capire, di dare una parvenza di diritto a queste azioni chiede “di che cosa era accusato il ragazzo?”. In sintesi e sopra tutto, di essere palestinese e di non piegarsi. Il racconto di ogni giorno ha riflessi strazianti, e diviene sempre più lungo l’elenco dei bambini e ragazzi morti o feriti, dalla bambina di 3 anni, colpita “per errore” alla testa, sino ai due sedicenni uccisi perchè resistevano, o quell’altra bimba di nove anni, morta perchè bloccata a un chek point e non ha potuto raggiungere l’ospedale…
Questo considerando solo i ragazizni, e non tutti, ogni giorno nuove storie, e nuove vittime, le madri e i padri arrestati con violenza, strappati ai figli piangenti che rifiutano di lasciarli andare, le madri in lutto per i figlio ucciso, e la maglietta dell’ israeliano che dice alle madri palestinesi: sappiate che la vita dei vostri figli è nelle mie mani
In questi anni ho cercato di capire, di documentarmi, di partecipare a manifestazioni e iniziative, tutte molto partecipate ma molto attente ad evitare ogni sfumatura di accusa di antisemitismo, anche quando era solamente una reazione alla prestesa di Israele di essere il posto degli ebrei, il loro rifugio, la loro terra promessa… Sempre più ebrei,ed alcuni rabbini, rifiutano questa pretesa che li coinvolge in prima persona nella mattanza dei palestinesi, ma tutti siamo stati sempre molto prudenti nel contestare le pretese di Israele, che ha il “diritto di difendersi”, dato che secondo loro è circondato da paesi che vogliono la sua distruzione. ..
Israele è uno stato artificiale, pensato dai sionisti molto prima della seconda guerra mondiale, e riconosciuto poi dalla cattiva coscienza occidentale, che ha trovato più semplice accettare Israele come paese degli ebrei per togliersi le castagne dal fuoco e non fare i conti con la totalità dell’olocausto, annettendolo agli ebrei, dimenticando bellamente gli zingari, ignorando quasi le stragi di disabili e la persecuzione degli avversari politici, comunisti in primis.
Su ognuno di questi fatti ci sarebbe da fare un lungo ragionamento, ma quello che qui mi interessa è sottolineare come Israele continua con il silenzio e la complicità del mondo a pretendere di essere sotto attacco, di doversi difendere mentre offende e oramai sta precipitando in una spirale dell’orrore dove ogni azione per quanto efferata è accettabile. I suoi ministri fanno dichiarazioni sempre più esplicite e orribili, capaci di lamentarsi che gli ultimi attacchi a Gaza non abbiano comportato un maggior numero di morti e feriti, e non cercano nemmeno più di salvare la faccia di fronte alla pretesa che i palestinesi se en vadano dalla loro terra. I nuovi insediamenti programmati dimostrano che si vuole impedire nei fatti la nascita di uno stato palestinese degno di questo nome, e che le chiacchiere che vengono fatte circolare con ipotesi di smembramento definitivo, annessione di Gaza all’ Egitto e di alcune zone della Cisgiordania alla Giordania non sono che un tentativo di far passare l’idea che quella è la terra di Israele e che l’unica alternativa che hanno i palestinesi è di andarsene e vivere sotto altri cieli e altri governi, non avendo alcuna possibilità di avere un proprio stato.
Il mondo sta a guardare, a volte inorridito, altre complice, ma siamo in tante e tanti che ci siamo stancate della prudenza, della complicità di fatto con l’occupante, nascosta dietro la “equidistanza” impossibile tra occupante e occupato, e siamo giunti alla conclusione che non c’è alcuna mediazione o comprensione possibile: Israele va fermato, punto. Va fermato per la Palestina, per il Medio Oriente , per il mondo che deve cambiare registro nella relazione con i popoli, ma persino per Israele stesso, che se continua su questa china non può che implodere, ed esplodere contunando a fare danni al mondo intero.
Già, con la sensazione di non essere all’altezza, di non avere la forza per fermarlo date le complicità internazionali, è questo il nostro compito, con le poche forze, con le poche risorse, con le molte esitazioni, con il realismo politico di chi guarda ai fatti sul terreno, ma è proprio da questi fatti che viene l’urlo e l’urgenza di fermare israele. Credo che dovremmo concentrare su questo tutte le nostre azioni, rinforzando il BDS sino a isolare Israele, pressando i nostri timidi o collusi rappresentanti politici perchè smettano di sostenere e collaborare con Israele, non dando un soldo, un attimo di attenzione, un voto a chi collude con Israele, e dicendo alto e forte che Israele va fermato, chiamando a raccolta tutti, lo sport, la cultura, la società civile e la politica. Anche con il Sud Africa all’inizio eravamo in pochi, i governi e i potenti in generale facevano affari e sembrava che fosse uno sparuto gruppo di “anime belle” quello che chiedeva la fine dell’ aparthaid, ma alla fine il gruppo è cresciuto e ha trascinato tutti i governi, escluso proprio Israele, guarda caso, ad isolare il Sud Africa che ha dovuto trovare una via per uscire dall’apartheid. Non è la stessa cosa? Solo perchè è peggio.
Però ci sono segnali contrastanti, alla fine dovremmo ringraziare Trump per la sua mancanza di freni con cui mette a nudo i meccanismi usati dal potere americano per sostenere il suo alleato più importante, perchè ha portato tutti allo scoperto.  Certo, l’ennesima risoluzione dell’ Onu di condanna non smuove di un passo Israele, che però si trova sempre più isolato, con un voto massiccio contrario nonostante i ricatti statumitensi, e persino Il tentativo di mettere sotto accusa la cantante Lorde si è ritorto in un bommerang con più di cento artisti e musicisti che l’hanno difesa riconoscendo il diritto di non esibirsi in Israele.
Se noi d’altro canto ci mettiamo in moto non solo per la solidarietà ad Ahed e alle altre palestinesi in prigione, ma per sostenere nei fatti la Palestina con azioni continue e pubblicizzate, ad esempio boicottando il giro d’ Italia, chiamando i ciclisti che abbiano un minimo di senso morale a non partecipare ad un giro d’Italia che d’ Italia non è, partendo da Gerusalemme est e passando per la Palestina occupata, che non sono in Italia e nemmeno confinanti con noi, tra l’altro. Questa è una di quelle decisioni che sarebbero incomprensibili se non ci fossero di mezzo i contributi miliardari che Israele è disposta ad offrire per questa rivernicata di rosa che sta tentando di darsi. Ma se sono i soldi che contano, ricordiamo che sono i nostri soldi che sostengono il giro, cominciamo a chiedere a tutte le marche che noi usiamo di non sostenere il giro che parte da Israele, comiciamo a non comprare nulla che abbia a che fare con il giro, cominciamo a fare il vuoto intorno ai sionisti!

venerdì 2 febbraio 2018

SULLE LOTTE E SULLE PROSSIME ELEZIONI Il punto di vista di Attac Italia

Attac Italia



Il prossimo 4 marzo l’Italia torna a votare.
Lo farà in una situazione sociale segnata dagli effetti delle politiche liberiste e d'austerità imposte dai governi succedutisi negli anni, con indicatori di povertà saliti alle stelle.
Lo farà in una situazione politica segnata da una separatezza ormai abissale fra paese reale e istituzioni, con un astensionismo destinato ad aumentare progressivamente.

Di fatto, queste elezioni arrivano in un paese nel quale il conflitto sociale e l’azione dei movimenti scontano un’insufficienza pesante, e dove alla narrazione austeritaria e securitaria corrisponde una preoccupante rassegnazione.
Viene al pettine un nodo fondamentale di questi anni: mentre le persone in campo per il cambiamento, sia esso un conflitto territoriale o una nuova pratica dell’agire comune, non sono mai state così numerose, la loro fiducia nella possibilità di una trasformazione più generale non è mai stata così bassa.

Si scontano, socialmente e politicamente, i pesanti limiti di una sinistra, anche “radicale” che, non avendo fatto un’adeguata analisi del capitalismo nell’epoca dell’economia del debito e della finanziarizzazione della società, ha di fatto interiorizzato la narrazione liberista, focalizzandosi nella rivendicazione di una qualche forma di redistribuzione.

Coerentemente con il nostro percorso associativo e di movimento, non guardiamo all’appuntamento elettorale come ad una scadenza decisiva, perché continuiamo a pensare che solo da una società in movimento possa scaturire l'energia per produrre istituzioni nuove e che oggi la rappresentanza sia molto più il problema che non la soluzione.
Anche perché, in un’epoca di progressivo spostamento dei luoghi della decisionalità fuori dalle assemblee elettive e del conseguente svuotamento di queste ultime, le istituzioni, invece di costituire un argine al pensiero unico del mercato, diventano sempre più spesso un’articolazione dello stesso.

Nella nostra riflessione e nelle nostre azioni abbiamo sempre identificato la necessità di una partecipazione popolare dal basso e inclusiva, come unica garanzia per avviare processi di riappropriazione sociale di tutto quello che ci “appartiene”: beni comuni, diritti sociali, ricchezza collettiva, democrazia.

Per questo, siamo convinti che, di fronte all’esito delle prossime elezioni, qualsiasi degli scenari paventati si realizzi (ritorno al voto per impossibilità di formare un governo, governo della destra, governo di “strette intese” Pd-Forza Italia, governo, forse più immaginario che reale, M5S-Lega), l’unica possibilità continui ad essere rappresentata dalla ripresa di una forte mobilitazione sociale che ponga le vite prima del debito, i diritti prima dei profitti, il “comune” prima della proprietà, gli amori prima dei generi.

Per queste ragioni, non vediamo nessuna possibilità di uscita dall’attuale impasse in proposte come quella di Liberi e Uguali, che non va oltre la riproposizione di un centro-sinistra liberista, pur emendato della recente spocchia (Renzi); e neppure in affermazioni come quella preannunciata del M5S, che in pochi anni ha dissipato tutte le potenzialità di rottura espresse dal voto di 5 anni fa, per inginocchiarsi all’altare della teologia della governamentalità (seduzione dei poteri forti e indifferenza verso i marginali comprese).

Pur non intendendo partecipare alla scadenza elettorale, guardiamo tuttavia con un certo interesse all’esperienza di Potere al Popolo, che, con tutti i limiti di un'esperienza appena nata, interroga anche noi su una questione fondamentale: è possibile superare la logica della consegna delle istituzioni ai poteri dominanti rifugiandosi nell’astensionismo consolatorio? È possibile, stante tutte le analisi sopra descritte, fare incursioni dentro queste istituzioni per dare risonanza a quello che accade fuori?

Non abbiamo una risposta certa, ma l’intenzione espressa dai promotori di base di quel percorso di considerare la scadenza elettorale niente di più che una tappa di un percorso che richiederà tempi lunghi e un grande lavoro sociale, ci consente di considerare questo laboratorio politico una realtà con cui interloquire.

A partire dalle pratiche inclusive con cui tenta, per prove ed errori, di segnare il proprio percorso, dai contenuti di netta discontinuità con l'attuale corso liberista e dal coinvolgimento di molteplici esperienze radicate territorialmente, ci interessa aprire un confronto che vorremmo impostare intorno ad un nesso che riteniamo fondamentale, poiché rivela la nudità del re: senza una messa in discussione della trappola del debito, con la creazione di una commissione d'indagine (audit) indipendente e popolare che si prefigga l'annullamento dei debiti illegittimi e la messa in campo di una nuova finanza pubblica e sociale, ogni altro modello di società diviene impossibile e ogni proposta alternativa è destinata all'evaporazione.

Per queste ragioni, aldilà e soprattutto dopo la scadenza elettorale, ci dichiariamo disponibili ad aprire un confronto con le realtà che stanno dando vita a quest'esperienza, per provare comunemente a sciogliere i nodi più intricati del nostro agire sociale e politico e provare a costruire nuovi passi in avanti condivisi.


giovedì 1 febbraio 2018

75° anniversario della vittoria di Stalingrado: due insegnamenti per l’oggi

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia



Settantacinque anni fa, il 2 febbraio del 1943, a Stalingrado, dopo sei mesi di furiosi e ininterrotti combattimenti, l’esercito e il popolo sovietico infersero un colpo mortale alla macchina militare nazifascista.

La battaglia di Stalingrado segnò il punto di svolta decisivo della seconda guerra mondiale, aprendo il cammino verso la vittoria sul sanguinario nazifascismo.

A Stalingrado affondò il piano degli imperialisti tedeschi che volevano imporre al mondo il loro dominio. Si infranse anche la vana speranza degli imperialisti angloamericani che ritardavano coscientemente l’apertura del secondo fronte in Europa occidentale, aspettando che l’Unione Sovietica si dissanguasse per poi mettersi d’accordo coi nazisti. Da Stalingrado iniziò l’irrefrenabile avanzata dell’Armata Rossa, guidata dal compagno Stalin, che portò alla presa di Berlino e alla sconfitta del nazifascismo.

Tra i molteplici insegnamenti che possiamo trarre dalla vittoria di Stalingrado, in questo 75° anniversario ne vogliamo segnalare due.

Il nazifascismo non è un incidente della storia, ma la dittatura terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario, che si sviluppa nei momenti di crisi del sistema capitalista.

Oggi settori del capitale finanziario e dell’apparato statale non esitano a supportare di nuovo il fascismo per consolidare il loro dominio di classe, attaccare il movimento operaio e le sue organizzazioni, soffocare le libertà democratiche e preparare nuove guerre di aggressione.
La borghesia, i suoi partiti liberali, riformisti e populisti, non vogliono combattere il fascismo ma lo proteggono e lo aiutano in mille  modi.

In questa situazione, la vittoria di Stalingrado ci insegna che anche il nemico più feroce può essere sconfitto se contro di esso si schiera l’unità di azione degli operai in ogni fabbrica, in ogni zona, in ogni regione, in ogni paese, cioè il fronte unico di lotta del proletariato. Il nazifascismo può essere battuto solo dallo sviluppo della lotta di classe del proletariato contro tutto l’edificio capitalistico.

La seconda fondamentale lezione che dobbiamo trarre dalla vittoria di Stalingrado è che per trionfare occorre una guida combattiva e rivoluzionaria che sappia dirigere e far scaturire il meglio nella lotta contro il nemico, che sappia infondere fiducia nei momenti più bui. L’incessante lavoro ideologico e organizzativo svolto dal partito bolscevico è stato determinante per la vittoria di Stalingrado, i giovani comunisti furono l’anima dei gruppi d’assalto che tanta parte ebbero nella sconfitta dei nazifascisti.

Se vogliamo tornare a vincere di nuovo è necessario che i migliori elementi del proletariato si uniscano per gettare le fondamenta di un partito di tipo leninista: un reparto di avanguardia. organizzato e cosciente, della classe operaia. Le divisioni e l’attesismo  fanno solo il gioco dei nostri nemici.

Costituzione e territorio

Associazione Nazionale Partigiani d'Italia
Comitato Provinciale di Frosinone

Venerdì 9 febbraio, presso la sala di rappresentanza della Villa comunale di Frosinone terremo un importantissimo convegno pubblico con lo scopo di affrontare un tema secondo noi tanto importante quanto non ancora sufficientemente indagato.

Vogliamo iniziare un percorso per comprendere, con l'aiuto di intellettuali ed esperti di massimo livello, le ragioni reali della mancata o parziale realizzazione del progetto costituzionale di Paese, e per farlo vogliamo mettere a fuoco gli ostacoli alla sua realizzazione nei territori, ossia nei luoghi di effettiva organizzazione e svolgimento della vita sociale ed individuale dei cittadini.

Lavoro, tutela del territorio e della salute, scuola, servizi, non sono nelle condizioni previste dalla Costituzione, la programmazione non rientra più nelle modalità della politica e dell'amministrazione, se non per singoli progetti e per brevi o brevissimi tempi.

Ma cosa, quali forze ostili, quali ostacoli concreti ed oggettivi hanno frenato il grande respiro di modernizzazione civile che i Costituenti progettarono ed offrirono all'Italia?

E come recuperare o rinnovare quella visione, come aggiornarla ai nostri tempi, con quali compiti per i cittadini?

Di questo parleremo, e lo faremo con i nomi illustri indicati nella locandina che segue . Ma intendiamo questo momento, che l'ANPI considera di interesse non solo provinciale, come inizio di una riflessione più ampia, in grado di coinvolgere in successive tappe le altre forze sensibili su questo tema: sindacati, partiti, associazioni, cittadini impegnati o semplicemente interessati, scuole, luoghi di lavoro, insomma ogni soggetto che possa occuparsene con noi.

Saranno presenti delegazioni delle ANPI provinciali di tutto il Lazio, oltre al Comitato Regionale, che come dicevamo sta profondendo forte impegno per la promozione del convegno.
  
Un impegno partecipativo, non solo per la buona riuscita dell'evento, ma proprio per avviare quel percorso con il massimo delle energie disponibili e con gli strumenti di conoscenza critica necessari.

In questo modo noi intendiamo la lotta democratica per l'affermazione dei valori della Costituzione figlia della Resistenza, lasciamo ad altri la lamentela e lo scandalismo, e concentriamoci sulle possibilità. 


mercoledì 31 gennaio 2018

Legge d'iniziativa popolare per un sistema elettorale Costituzionale

Massimo Villone, presidente Coordinamento Democrazia Costituzionale




Perché una legge elettorale di iniziativa popolare
Il Parlamento che uscirà dal voto del 4 marzo rifletterà gli equilibri politici determinati dalla legge elettorale vigente (Rosatellum – l. 165/2017). Per questo, il percorso verso una legge migliore nell’interesse del paese non sarà agevole. L’iniziativa popolare può efficacemente contribuire a sollecitare il confronto nella sede parlamentare, anche in vista di recenti modifiche portate al regolamento del Senato.

Perché un sistema elettorale proporzionale
In presenza di tre o più poli, come accade oggi in Italia, solo un sistema elettorale di impianto proporzionale offre soluzioni istituzionalmente solide e non lesive della rappresentatività delle assemblee. Le leggi elettorali note come Porcellum e Italicum erano invece tese a garantire la cd governabilità dando nei seggi parlamentari un premio di maggioranza alla forza politica vincente, con una distorsione potenzialmente fortissima della rappresentatività (cfr. Corte cost. 1/2014, 35/2017). Lo stesso perverso effetto si verifica con la legge vigente per la quota del 36% di collegi uninominali maggioritari. Per questa ragione la proposta trasforma il collegio uninominale da maggioritario in proporzionale. In tal modo si rivitalizza il parlamento come espressione del paese reale e sede delle condizioni di una effettiva governabilità.

Perché un voto disgiunto e l’introduzione della preferenza
Per la legge vigente, che impone un voto unico congiunto per un collegio uninominale e un collegio plurinominale proporzionale, le elettrici e gli elettori si troveranno a votare in blocco da tre a cinque candidati, tutti indicati dalle segreterie di partito. È palese la violazione del principio costituzionale della libertà di voto. La proposta invece disgiunge il voto tra il collegio uninominale e quello plurinominale, in cui si introduce altresì il voto di preferenza. Si consente in tal modo di votare individualmente tutti i propri rappresentanti, e di creare così anche le condizioni per una migliore qualità del ceto politico.

Perché le garanzie giurisdizionali
L’esperienza ampiamente dimostra che i diritti degli iscritti e la trasparenza e correttezza dei processi decisionali non sono più adeguatamente presidiati da organi e procedure interni ai partiti e gruppi politici, vecchi e nuovi. Si moltiplicano altresì i ricorsi nella sede giurisdizionale, spesso in condizioni di incertezza e confusione. È dunque opportuno introdurre principi normativi che abbiano la funzione di tutelare gli iscritti e insieme di orientare i giudici.


martedì 30 gennaio 2018

Stati Generali del Lavoro e capitale "disumano"

Luciano Granieri




 Sabato scorso 27 gennaio 2018, si è svolto a Frosinone, presso la sala consiliare della Provincia, un dibattito sulla devastante piaga della disoccupazione imperante nel  nostro territorio. L’incontro, organizzato dalla federazione  provinciale del Partito della Rifondazione Comunista, denominato “Stati Generali  del Lavoro” aveva come obbiettivo quello di riunire attorno ad un tavolo, istituzioni, movimenti sindacali e politici, affinchè si proponessero soluzioni valide e percorribili per risolvere una crisi occupazionale che  conta nel nostro territorio più di 150mila persone senza lavoro.  

La convocazione di tale simposio  è stata quanto mai opportuna , ma ho  qualche dubbio  sulla reale volontà  di alcune  organizzazioni invitate  di  risolvere  la questione occupazionale nel territorio. A sostegno di tale incertezza cito le parole del segretario  nazionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo,  il quale, invitato a chiudere i lavori,  nel suo intervento, ha citato il NAWRU, acronimo che sta per: “no  accelerating wage rate of unemployment” tradotto: “tasso di disoccupazione d’equilibrio  tarato per non generare pressioni inflazionistiche  comprimendo il potere di spesa mediante  il taglio deliberato dei posti di lavoro”. 

Il NAWRU è un parametro  stabilito da  liberisti e neomercantilisti tecnocrati europei  , i quali hanno deciso, anzi imposto, che l’Italia debba  mantenere un tasso strutturale di disoccupazione pari all’11% fino al 2019. Apprezziamo il  fatto che Acerbo abbia fatto riferimento ad una situazione evidenziata dal nostro blog già dal 2014  ( LEGGI QUI).  Il tasso NAWRU  non è un capriccio, ma   un inderogabile diktat imposto dalla UE ai paesi membri. Lo scopo è duplice: da un lato assicurare una quota di disoccupazione necessaria  affinchè  l’offerta di lavoro sia sistematicamente inferiore alla domanda -in modo  da degradare il bisogno di occupazione  a puro stato di necessità, lasciando  i potenziali lavoratori alla mercè dei padroni  -  dall’altro  contenere,anzi comprimere, l’aumento dei salari     causa di un possibile accrescimento  dell’inflazione, scenario inviso alla speculazione finanziaria. 

Guarda caso la maggior parte dei movimenti, politici, sindacali, istituzionali convocati da Rifondazione negli  Stati Generali del Lavoro, hanno avvallato e avvallano,  a vario  titolo,  le politiche della UE e di conseguenza, accettano il tasso di disoccupazione, fra il 10 e il 12% definito nel  NAWRU.  La domanda sorge spontanea: che senso ha consultare  organizzazioni (politiche e sindacali) supini al diktat  Ue sul  mantenimento di una quota stabile di disoccupazione, per richiedere loro  una proposta funzionale alla diminuzione della stessa ? E ancora,  che senso ha consultare quelle organizzazioni che in trent’anni di azione governativa, hanno contribuito alla disgregazione del reddito da lavoro, in favore dei profitti finanziari, così come bene illustrato DALL'INTERVENTO di Marina Navarra, membro della segreteria provinciale di Rifondazione Comunista? 

Intendiamoci ogni azione finalizzata alla lotta contro la  disoccupazione è bene accetta, ammettiamo pure la necessità   di consultare istituzioni,  organizzazioni politiche e sindacali, ma alla fine, e il risultato degli Stati Generali del Lavoro lo conferma, l’unica via praticabile per risolvere il problema occupazionale, nella nostra Provincia e in tutta Italia, è quella di ridare predominanza ai redditi da lavoro rispetto alle ricchezze accumulate con la speculazione finanziaria. 

Ma ciò non è sufficiente. E’ necessario superare il concetto di “lavoro  in se” per porre al centro dell’attenzione  sociale ed economica   la categoria del “lavoratore” . Le eresie proposte dai partiti nella orrenda campagna elettorale in corso, farneticano sull’aumento dei posti di lavoro,sulle opportunità di creare lavoro, ma al lavoratore non  accenna nessuno . O meglio ad esso si sostituisce    l’immagine di un  soggetto abile a mettere a profitto ogni aspetto delle proprie prerogative umane e   del proprio tempo di vita.  

Se facciamo riferimento alle ultime vertenze dei "bikers",i ciclisti  dipendenti  di  Deliveroo, l’azienda che si occupa di distribuire il cibo a domicilio ordinato dai clienti presso i ristoranti della zona, ci rendiamo conto  che la rivendicazione non è più salariale, o almeno non solo salariale, ma riguarda il tempo  della propria vita che ogni dipendente è costretto a destinare all’azienda, o meglio all’algoritmo con cui l’azienda determina i tempi  e i modi  di lavoro. 

L’algoritmo decide quando, come, ed in quanto tempo bisogna assolvere al proprio impegno. Un codicillo telematico  determina le vite di persone, di famiglie. L’alternativa all’algoritmo è la disoccupazione.  Si pretende la messa a valore di ogni minuto della propria vita. Le capacità umane, da quelle materiali a quelle cognitive,  devono trasformarsi in valore da mettere a disposizione dell’accumulazione capitalistica. Il lavoratore diventa “capitale umano”.  Un’espressione terribile. Vorrei capire quanto di umano  possa esistere  nel capitale!  

E allora per provare a risolvere, non solo il problema della disoccupazione, ma anche quello delle enormi diseguaglianze che attanagliano la società odierna  è necessario, in primis,    sostituire la categoria del “lavoro” - che può essere precario, discontinuo, a progetto, schiavo degli algoritmi   - con la categoria del "lavoratore", un soggetto in carne ed ossa che  necessita non solo di un’occupazione, ma, essendo umano e non capitale umano, di un’attività che gli consenta di vivere dignitosamente, di provvedere a se alla propria famiglia e all’evoluzione sociale della propria comunità. 

Solo valorizzando il lavoratore, come detentore di abilità utili al progresso sociale, anziché renderlo merce sottomessa alle necessità del mercato, sarà possibile cominciare  ad ipotizzare una politica, focalizzata alla piena e buona occupazione. Posto che , in prima istanza, bisognerebbe contrastare tutte quelle dinamiche capitalistiche, fatte proprie anche dalla UE, tese a imporre  quote di disoccupazione necessarie al pieno dispiegamento della voracità finanziaria. 

Un primo passo dal valore simbolico enorme, ma anche reale , potrebbe realizzarsi nella modifica dell’art. 1 della Costituzione. In questo senso concordiamo con il professor Panebianco, il quale in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 21 luglio del 2017, contestava  l’immodificabililtà della prima parte della Carta,  proponendo  una riforma  tesa a sancire la libera espressione delle prerogative padronali  , ovvero prefigurando  una “Repubblica democratica fondata sulla libertà (d’impresa)”. 

Anche per noi l’articolo 1 va cambiato, ma in senso del tutto opposto a quello proposto da Panebianco, ossia : l’Italia è una Repubblica democratica, non fondata sul lavoro, che può essere precario, a progetto, a chiamata, ma sul lavoratore e sui suoi diritti di persona utile al progresso sociale e civile della società.

lunedì 29 gennaio 2018

Tunisia Mobilitazioni contro il bilancio del governo

Gabriel Huland 
 
 


Tunisi, vive una nuova ondata di proteste di massa. Cominciate nei primi giorni di gennaio, mese in cui si celebrano i sette anni della rivoluzione che cacciò Ben Ali, il dittatore che governò il Paese per oltre vent’anni e che attualmente risiede in Arabia Saudita dopo essere fuggito ad una condanna di 35 anni inflittagli da un tribunale tunisino.
Le proteste hanno assunto un carattere di massa con una grande partecipazione di giovani provenienti dai quartieri più poveri dei Tunisi e di altre città del Paese. Le manifestazioni sono state principalmente convocate dalla rete sociale del recentemente costituito movimento Fech Nestannew (in tunisino: Cosa stiamo aspettando?).
La principale richiesta dei manifestanti è l’immediata revoca della legge di bilancio 2018, entrata in vigore all’inizio di questo mese dopo essere stata approvata alla fine dello scorso anno con l’appoggio dei due partiti della coalizione che governa la Tunisia dal 2014, Nidaa Tounis (un miscuglio di rappresentanti del vecchio regime) e Ennhada (partito borghese auto dichiaratosi islamista moderato e che recentemente ha preso le distanze dal fondamentalismo islamico).
Il Fronte Popolare di sinistra, una coalizione elettorale formata da gruppi di diversa origine quali maoisti, nazionalisti arabi, stalinisti e altri, ha votato sorprendentemente a favore della controversa legge. Anche la direzione della Ugtt, la principale centrale sindacale del Paese, che prese perfino parte al primo governo di transizione post Ben Alì, ha dato il suo appoggio  questa legge, provocando l’indignazione di parecchi suoi attivisti.
 
Nuovo regime, vecchie modalità
La nuova legge finanziaria implica un aumento dei prezzi di prodotti di base come il gas e il cibo, nonché la sospensione dell'assunzione di nuovi funzionari da parte dello Stato. L’obiettivo della legge è quello di ridurre il debito pubblico che attualmente è al 6% del Pil e portarlo al 4,9% nel 2018. Le misure di austerità fanno parte del piano imposto dal Fmi (Fondo monetario internazionale, ndt) dopo il prestito di 2,9 miliardi di dollari e sono molto simili a quelle imposte ad altri Paesi del mondo come, Egitto, Grecia e Iran. Si tratta di una storia che conosciamo molto bene e che sappiamo già dove conduce.
La vita dei tunisini non ha fatto altro che peggiorare negli ultimi anni. Nonostante il cambiamento politico vissuto con l'approvazione della nuova costituzione nel 2014, la concentrazione di potere e ricchezza è rimasta nelle mani di una piccola élite economica legata al capitale statunitense, europeo e di altri Paesi imperialisti. I problemi che portarono allo scoppio della rivoluzione del 2010, sono ben lungi dall’essere risolti.
La disoccupazione riguarda il 15% della popolazione e più del 30% di giovani non ha un lavoro. Tra gli altri problemi molto sentiti dai tunisini, troviamo la corruzione, l’inflazione e i salari bassi. I giovani soprattutto, non vedono prospettive e molti di loro preferiscono rischiare la vita attraversando il Mediterraneo alla ricerca di una vita migliore in Europa.
Secondo un gruppo di ricercatori indipendenti, circa il 50% dell'economia tunisina è fuori dalle regole e si sviluppa nel lavoro nero. Gli imprenditori non pagano le tasse e i lavoratori non hanno un contratto regolare e nessun tipo di ammortizzatore sociale in caso di licenziamento. Altro fattore di instabilità economica è dato dalla crisi del settore turistico, uno dei più importanti del Paese, che prima della rivoluzione impiegava una parte considerevole della forza lavoro. Questo settore ha visto una decrescita del 60% dal 2011 a causa principalmente degli attentati terroristici che sono costati la vita a decine di persone.
D'altra parte, gli stessi oligarchi di sempre stanno ancora concentrando nelle loro mani la maggior parte della ricchezza e fanno profitti esorbitanti a spese della miseria e della disperazione della maggioranza della popolazione. Il cambio di regime che si è dato dopo la rivoluzione non ha fatto altro che ricollocare la vecchia classe dominante in nuovi partiti.
 
Il governo risponde alle proteste con le armi e la repressione
Le manifestazioni iniziate a gennaio e che continuano ancora oggi, stanno affrontando una brutale ondata repressiva da parte del governo e delle forze di sicurezza dello Stato. L’Onu ha pubblicato un rapporto pochi giorni fa - citato da AlJazeera - secondo il quale più di 800 persone sono state arrestate dall'inizio delle proteste, 200 dei quali giovani tra i 15 e i 18 anni.
La popolazione carceraria della Tunisia è una delle più numerose del mondo, arrivando all’uno per cento della popolazione totale. La criminalizzazione delle proteste è condotta attraverso una campagna governativa e mediatica che accusa le proteste di assumere una connotazione violenta e illegale. Il vero obiettivo di questa squallida campagna è quello di deviare l’attenzione dai reali problemi e dalle richieste dei manifestanti e di instaurare un clima di paura per limitare le libertà democratiche.
Il movimento Fech Nestannew ha preso chiaramente le distanze da ogni atto di vandalismo, infatti, ha denunciato la presenza di infiltrati al soldo del regime tra i manifestanti, allo scopo di incitarli alla violenza e giustificare così la repressione poliziesca. Si tratta di una pratica comune fin dai tempi di Ben Ali e viene applicata anche ai giorni nostri non solo in Tunisia ma anche in altri paesi come Egitto e Siria. In Cisgiordania, per esempio, l’esercito di Israele utilizza metodi simili per contrastare i palestinesi in lotta contro l’occupazione. Nella periferia di Tunisi, il confronto tra manifestanti e polizia avviene costantemente e quasi sempre la prima provocazione parte dalle stesse forze di sicurezza.
 
Cresce la sfiducia per il nuovo “vecchio” regime
La Tunisia è decantata in tutto il mondo, dalla stampa e dai governi interessati a mantenere le cose come stanno in Nord Africa, come l'unico paese del Medio Oriente e del Nord Africa dove la Primavera araba ha avuto un "lieto fine". Con lieto fine, intendono una transazione democratica che ha dato luogo alla creazione di un nuovo tipo di regime: moderno, liberale e in linea con supposti valori occidentali di democrazia, con libero mercato e libertà di espressione.
Niente di più lontano dalla realtà. Un cambio di regime c’è stato in realtà, si è passati da un sistema dittatoriale individuale e di fatto a partito unico, a un sistema pluripartitico con elezioni periodiche. Alcune concessioni democratiche sono state ottenute dal popolo tunisino grazie alla sua eroica rivoluzione. Il cambio di regime tuttavia, non è stato accompagnato da una reale trasformazione del sistema economico e dalla distribuzione della ricchezza. Come dicevo prima, il permanere di questo sistema altamente iniquo, farà emergere una serie di contraddizioni che porteranno inevitabilmente all’approfondirsi della crisi politica, economica e sociale.
Attualmente in Tunisia i due maggiori partiti politici sono Nidaa Tounis e Ennhada, entrambi presentano un programma molto simile e agiscono perché la Tunisia permanga un Paese dipendente dal capitale straniero: esportando materie prime ed importando prodotti industriali.
Nidaa Tounis è il partito che rappresenta la continuità col precedente regime, mentre Ennhada è allineato su idee di ispirazione fondamentalista, anche se si considera moderato e democratico. Nidaa Tounis vinse le elezioni ne 2014 e formò un governo di coalizione con Ennhada sotto la presidenza di Beji Caid Essebsi, una mummia politica di 90 anni.
Le attuali manifestazioni sono espressione di un avanzato processo di disillusione verso il nuovo sistema e i nuovi partiti. La percezione di una crescente parte della popolazione è che nulla sia cambiato dopo il 2011: inflazione, bassi salari, mancanza di prospettive per la maggioranza dei lavoratori, mentre gli stessi di sempre mantengono il potere e la corruzione dilaga. Nonostante le promesse di riforme economiche, ciò che il tunisino comune sente quotidianamente è un grande indebolimento del suo potere d'acquisto e l'impossibilità di trovare un lavoro..
Anche il partito che rappresenta la sinistra del regime, il Fronte Popolare, sembra non suscitare grandi illusioni nonostante abbia capitalizzato elettoralmente parte dello scontento sociale. Il più grande sindacato tunisino, la UGTT, ha avuto un ruolo deplorevole nel processo rivoluzionario tunisino (ed è per questo che ha vinto il Nobel per la pace), quello di negoziatore con i grandi partiti politici fungendo da freno al movimento.
L'esperienza con il nuovo regime avanza, ma non esiste ancora un'organizzazione con peso e inserimento sociale in grado di incanalare il malcontento in direzione rivoluzionaria, nella prospettiva di una profonda trasformazione del potere politico ed economico.
Il salafismo (movimento fondamentalista islamico ndt) è stato il grande beneficiario del malcontento sociale verso gli attuali partiti politici, come spiega Gilbert Achcar: “Il salafismo, ha iniziato a crescere dopo la rivoluzione tunisina a causa della frustrazione per le mancate aspettative dopo la caduta di Ben Ali, soprattutto perché il movimento operaio, guidato dalla potente unione sindacale generale tunisina, conosciuta anche con il suo acronimo francese Ugtt, che è di gran lunga il più organizzato il movimento sociale in Tunisia, e la sinistra tunisina (che è fusa nel Fronte popolare ed è diventato egemonico nella guida dell'Ugtt dal 2011) non sono riusciti a capitalizzare queste frustrazioni. Questo si è sommato ai dissensi comparsi all'interno della stessa Ennahda, tra i  moderati e i membri più sensibili alla pressione salafista.” (Achcar, 2016)
Queste correnti politico-religiose altamente reazionarie, che non possono mai essere considerate una valida alternativa democratica per il popolo tunisino, non sono le uniche, tuttavia, a mettere in discussione la coscienza e la direzione delle attuali lotte. Vi sono  alcuni gruppi indipendenti, come il già citato Fech Nestannew, che partecipano alle lotte e rappresentano un fenomeno progressivo che deve essere sostenuto e stimolato.
Queste manifestazioni sono parte di una nuova ondata di lotte che abbraccia tutta la regione, Iran, Marocco, Sudan, Palestina, Kurdistan e la stessa Tunisia. Una parte importante della popolazione di questi Paesi è di nuovo disposta a scendere in strada per rivendicare condizioni di vita decenti. Le rivoluzioni arabe, con i loro alti e bassi, sono ancora vive.
 
Fonti:http://www.aljazeera.com/news/2018/01/protests-expected-tunisia-mass-arrests-180112122337505.html
Achcar, G., 2016, Morbid symptoms?: relapse in the Arab uprising, Stanford University Press.

Il poeta Yohonatan Gefen: «Ahed Tamimi come Anne Frank»

Michele Giorgio


I versi di Gefen a difesa della ragazza palestinese hanno mandato su tutte le furie il ministro della difesa Lieberman che ha ordinato alla radio militare di “bannare” il poeta di sinistra da sempre contro l’establishment politico e militare.

«Ahed Tamimi
Con i capelli rossi
Come Davide che ha schiaffeggiato Golia
Sarai menzionata nella stessa riga 
Come Giovanna d’Arco, Hannah Szenes e Anne Frank». 

Questi e gli altri versi della poesia postata lunedì su Instagram e dedicata alla 17enne palestinese Ahed Tamimi, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati a Nabi Saleh, sono costati al poeta e drammaturgo israeliano 70enne Yohonatan Gefen la scomunica senza appello del ministro della difesa Avigdor Lieberman. Aver posto Ahed Tamimi sullo stesso piano di Anne Frank, la ragazza ebrea morta a Bergen-Belsen divenuta un simbolo della Shoah, è apparso come un sacrilegio a Lieberman che ha ordinato a Shimon Elkabetz, comandante di Galei Tzahal, la radio militare israeliana, di vietare altre interviste a Gefen e la messa in onda di programmi culturali con le sue poesie. Il vulcanico ministro della difesa, esponente del nazionalismo più viscerale, ha «raccomandato» a tutti i mezzi d’informazione di seguire il suo «suggerimento». «Lo Stato di Israele non dove offrire un palcoscenico a un ubriacone che paragona una ragazza che è stata uccisa nell’Olocausto e un’eroina che ha combattuto il regime nazista, ad Ahed Tamimi, la ‘bambolina’ che ha attaccato un soldato», ha scritto Lieberman su Facebook, aggiungendo che il palco adeguato a Geffen è solo Al-Manar, la tv libanese che fa capo al movimento Hezbollah. Lieberman peraltro è andato su tutte le furie quando il consigliere legale dello Stato, Avichai Mendelblit ha chiarito che il ministro della difesa non ha l’autorità per decidere cosa mandare o non mandare in onda dalle frequenze della radio militare.

Esponente più del post-sionismo che dell’antisionismo (ampiamente minoritario) in Israele, Gefen è una icona della cultura pop sin dagli anni Settanta. Le sue opere, le sue poesie e i suoi romanzi hanno spesso preso di mira l’establishment politico e il militarismo. Gefen non esita a definire pubblicamente il premier Benyamin Netanyahu un «razzista. Nel 2015 fu aggredito sotto la sua abitazione perché «traditore di sinistra». Gefen è noto anche come padre della rock star locale Aviv Gefen e della regista Shira Gefen, sposata con lo scrittore Etgar Keret. Ora è preso di mira per aver difeso con coraggio la palestinese Ahed Tamimi, rea di aver “umiliato” l’esercito israeliano prendendo a schiaffi due soldati. Coraggio che non hanno mostrato sino ad oggi Amos Oz, Meir Shalev, David Grosman, A.B. Yehoshua, e altri famosi scrittori e poeti israeliani, pronti a firmare un appello contro la deportazione dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi ma non a spendere una parola contro la detenzione di una ragazzina palestinese che rischia una condanna a diversi anni di carcere per un reato che in Europa verrebbe punito con una semplice ammenda.

Lo scorso 17 gennaio i giudici militari hanno deciso che Ahed Tamimi resterà in carcere – come la madre Nariman arrestata per aver postato in rete la scena dei due soldati presi a schiaffi – per tutta la durata del processo che riprenderà il 31 gennaio, proprio nel giorno del 17esimo compleanno della ragazza palestinese.

( Fonte: NenaNews )

Elezioni: scelta dei candidati e psicanalisi...

Umberto Franchi




- per molto tempo tutti i partiti della sinistra , del M5S, ed alcuni esponenti anche della destra, hanno sostenuto che questa volta , alle prossime elezioni , bisognava candidare persone provenienti dai territori e legate alle attività' nel sociale;


- però dopo hanno fatto una legge elettorale chiamata "Rosatellum" , votata dal PD, LEGA, F.LLI D'ITALIA, FORZA ITALIA , che toglie la possibilità di far scegliere ai cittadini , rimettendo la decisione dei candidati solo alla segreterie dei partiti o ai loro capi...;

- inizialmente, la sinistra alla sinistra del PD e il M5S, hanno urlato la loro rabbia contro una legge incostituzionale...una legge contro il popolo come spostiene Lidia Menapace... ma arrivato il momento di decidere le candidature sembra che a tutti ( ad eccezione di "Potere al Popolo" ) faccia molto piacere il Rosatellum;

-infatti in tutti i partiti "I capi partito" , indicano i loro candidati fidati , e decidono in base al "manuale cencelli"(correnti) le quote, ma le persone sono sempre sostanzialmente le stesse "vecchie tarpe"  e di nuovo c'e' poco...;

- ora quando una persona con dei problemi psichici va da uno psichiatra, ci va soprattutto perché viene ascoltato ... ma in realta' nella psicanalisi non c'e' un granche' ed e' quasi tutto un raggiro...

- cosi' e' per i candidati a queste elezioni... hanno fatto vista di ascoltare "la base" , ma dopo l'hanno raggirata candidando i propri "fidati" in base   ai propri giochi di potere...



domenica 28 gennaio 2018

"Per creare occupazione è necessario smantellare un trentennio di pensiero unico basato sul predominio del profitto finanziario contro i redditi da lavoro"

Marina Navarra  Segreteria PRC-SE Frosinone, e RSU USB Sanofi *




E' quanto mai necessario  confrontarci ed avanzare proposte utili a   fermare l’emorragia di posti di lavoro che sta dissanguando il nostro territorio e il Paese in genere . La prima riflessione che mi sorge spontanea è quella di prendere ad esempio la legge  Fornero ,quella sul lavoro 92/2012,  ed il Jobs Act. Non stupitevi perché gli esempi possono essere positivi o negativi. Ebbene per avere una minima possibilità di risolvere la questione occupazionale è necessario fare tutto il contrario di quanto sancito  nella Fornero e nel Jobs  Act.  

Sarebbe però fuorviante  attribuire esclusivamente  a questi provvedimenti la precarizzazione del lavoro e, più in generale  della vita, in corso nella società odierna. Il recente rapporto Oxfam, che mette in evidenza il trionfo della diseguaglianza, mostra  come da  trent’anni a questa parte sia  in atto un furto criminale, da parte della comunità finanziaria,  ai danni della  ricchezza generata   dal  lavoro. Questo trentennio  ha una sua specifica traduzione legislativa   ad iniziare  primo governo  Craxi. E’ da attribuirsi, infatti, al protocollo Scotti del 1984 l’introduzione dei  contratti di solidarietà, dei  contratti a termine , di formazione lavoro. Provvedimenti utili, di fatto, ad una corposa riduzione del costo del lavoro. 

La legge 146 del 12 giugno 1990, poi ,  limiterà  fortemente il diritto di sciopero, ponendo un macigno su quello che era  un'efficace  strumento di rivendicazione per un’occupazione  e  una retribuzione dignitosa, nel rispetto  dell’art.36 della Costituzione. Una prima significativa accelerazione della precarizzazione occupazionale    si realizza  con “l’accordo per il lavoro” del  24 settembre 1996. Di fatto una combutta fra il primo governo Prodi, di centro sinistra e la triplice corporazione sindacale, che darà vita alla legge 196 del 24 giugno 1997, meglio nota come “Pacchetto Treu” dal nome del ministro allora in carica. Si introduce il lavoro in affitto, si estende ulteriormente l’uso dei contratti a termine e a tempo parziale. Lo scopo dichiarato di questa legge è   di favorire l’occupazione determinando la flessibilità in entrata . In realtà si avvia un processo di sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con forme di occupazione precaria, guarda caso ciò che riprodurrà, vent’anni dopo l’innovativo Jobs Act.  

Nell’ottobre del 2001 irrompe il libro bianco sul mercato del lavoro concepito dall’allora  leghista  ministro del lavoro Maroni e dal giuslavorista  Marco Biagi. L’accordo darà vita alla legge 30 del 14 febbraio 2013, detta impropriamente “legge Biagi”. Qui si sancisce la definitiva privatizzazione delle agenzie di collocamento, la revisione    della normativa sulla cessione del ramo  d’azienda con  l’ammissibilità della somministrazione di mano d’opera  (annullando la legge  1369/1960 che la vietava) . Lo scopo della normativa è  quello di consentire alle imprese di medie dimensioni di costituire società più piccole con meno di 15 dipendenti  in modo da rendere inapplicabile, le tutele dell’art.18, in vigore  nelle   unità produttive con una pianta organica superiore ai 15 addetti. L’obbiettivo vero della legge Biagi  è quello di aggiungere alla flessibilità in entrata, la flessibilità in uscita attraverso la sterilizzazione dell’art.18. 

Arriviamo alla  legge 138 del 2011 nota anche come “decreto Sacconi”, un attacco devastante al contratto collettivo, nel senso che,  ove si ritenesse necessario, le aziende  possono realizzare  specifiche intese in deroga al CCLN, su materie relative alle modalità di assunzione, disciplina del rapporto di lavoro,   comprese le collaborazioni coordinate continuative e a progetto,   le partite IVA e le   modalità  del recesso dal rapporto di lavoro. 

E arriviamo alla legge Fornero, non quella criminale che ha dato incivile notorietà alla categoria degli esodati, ma la 92/2012, in base alla quale le aziende non hanno  più l’obbligo di indicare la causale per l’eventuale stipula di contratti  a tempo determinato per 12 mesi,  con l’introduzione di una parziale abolizione dell’articolo 18 non più applicabile ai licenziamenti determinati dalle difficoltà economiche dell’azienda.  Una  misura importante perché verrà ripresa dell’attuale ministro del Lavoro Poletti.  Con il decreto n.34  del 20 marzo 2014, la durata dei contratti a termine senza causale viene  prolungata da 12 a 36 mesi, introducendo però la possibilità di rinnovare il rapporto per otto volte, il che significa che ogni 5 mesi il lavoratore è sottoposto alla mannaia del rinnovo di contratto  con il  conseguente aumento del potere di ricattabilità da parte dei padroni. 

 Secondo i dati Istat il milioni di posti di lavoro, contrabbandati dal Pd, sono frutto non già del Jobs Act, ma in gran parte del decreto Poletti e dai particolari criteri di misurazione dell’Istituto di statistica   che considera come posto di lavoro acquisito  ogni contratto di collaborazione, della durata anche di poche ore. Conosco compagni che hanno firmato, in un anno,    decine di contratti di questo tipo, con retribuzione da fame, e che sono quindi,da soli,  unici  destinatari di decine di quei  posti di lavoro compresi nel milione di cui sopra. 

Il Jobs Act, (decreto 23  del 4 marzo 2015) non è che l’indegna conclusione di un processo di  depauperizzazione del reddito da lavoro, con la progressiva riduzione del lavoratore da soggetto concorrente al progresso economico e sociale della collettività  a merce deteriorabile . Il Jobs Act, si è distinto come l’ennesimo  regalo alle aziende che hanno usufruito , in base alla stipula del  contratto a tutele crescenti, di  sgravi fiscali pari a 8mila  euro per ogni addetto assunto in tre anni, salvo poi avere la libertà di licenziare, in virtù dell’abolizione delle tutele dell’articolo 18. Impresa, questa,  non riuscita perfino al governo Berlusconi, stoppato nel suo tentativo da una capacità di mobilitazione sindacale confederale  oggi evaporata e asservita agli interessi dei padroni. 

A fronte di queste nuova, ma vecchia, stagione di precarizzazione, l’Istat certifica che il circa milione in più di posti  di lavoro è esclusivamente composto da contratti a termine, di collaborazione anche della durata di un’ora e con retribuzioni tali da classificare i nuovi lavoratori come nuovi schiavi , mentre invece il saldo delle assunzioni a tempo indeterminato è negativo per circa 20milla unità. Per  fare questi ulteriore regalo ai padroni, dal 2015 ad oggi, sono stati spesi oltre 20 miliardi. Soldi che, se investiti in un programma di investimenti pubblici su aziende  ad alta specificità tecnologica e  orientate verso la pianificazioni di nuove produzioni e servizi, come la green economy e la valorizzazione turistico-paesaggistica, avrebbero realmente procurato nuova e buona occupazione.  

Venendo al nostro territorio posso suggerire, ad esempio,  di investire su impianti utili al riciclo e alla  trasformazione  a freddo dei  rifiuti. Nella Valle del Sacco insistono strutture altamente inquinanti, costose e dalle potenzialità pressoché nulle in termini di creazione di buona occupazione. E’ il caso dell’impianto di incenerimento dei pneumatici della Marangoni. L’azienda ha minacciato di licenziare gli operai , qualora la Regione non avesse rilasciato l’autorizzazione d’impatto ambientale. Utilizzando finanziamenti pubblici, per trasformare quel  malsano bruciatore di gomma in un impianto di trasformazione a freddo dei pneumatici esausti in granulato per asfalti stradali, si sarebbe potuta realizzare  un’attività dalla grande attrattiva economica e creare  posti di lavoro duraturi. 

Nell’ambito della redazione di un piano di rifiuti regionale, attualmente assente,  basato sulla raccolta, riciclo e riuso di materiali  , è possibile pianificare l'installazione nel territorio di impianti finalizzati alla trasformazione della plastica in materiali   utili alla produzione di mobili da giardino o elementi plastici per l’edilizia. Attività non inquinanti  dalle potenzialità economiche enormi e dalla forte attrattiva occupazionale.  

Per attuare questa rivoluzione è però necessario invertire quel percorso che, secondo i dati forniti da Oxfam,  depreda il reddito da lavoro per destinarlo alla speculazione finanziaria. E’ necessario che la ricchezza torni ad essere assicurata dalla produzione di beni e servizi e non dai dividendi azionari. Bisogna smantellare un trentennio di pensiero unico basato sull’ineluttabilità delle leggi del mercato e della valorizzazione del  profitto privato. E’ un’operazione lunga ma che può partire solo da un comune sentire sinceramente anticapitalista. Un comune sentire che spero tutti voi compagne e compagni possiate condividere con me.

 *intervento effettuato  nel corso degli Stati Generali del Lavoro tenutosi a Frosinone sabato 27 gennaio





 a seguire:

Che dicono i lavoratori al tempo del jobsact

Frosinone 27/1/2018. Profondo e costruttivo intervento di Loredana Di Folco nel corso degli stati generali del lavoro. La storica avvocata del sindacalismo di base, da un fatto sociale, l'applicazione del jobsact, affrontato dal punto di vista del diritto, è approdata ad una profonda riflessione sulle dinamiche del rapporto tra capitale e lavoro. Sentiamo questo finale.
video girato dall'associazione Culturale "Oltre l'Occidente"




Partirà a breve la raccolta firme per le tre leggi d'iniziativa popolare: sulla scuola,art.81 costituzione, legge elettorale

Nota unitaria dei Comitati delle tre Leggi di iniziativa popolare sulla scuola, l’Art.81 Costituzione e Legge elettorale


Il 4 febbraio 2018 si terra a Roma, presso la Sala Fredda della CGIL Lazio, Via Buonarroti 12 (dalla Stazione Termini prendere Metro A, direzione Anagnina, prima fermata, Vittorio Emanuele), dalle ore 10 alle 17, l’Assemblea nazionale dei Comitati per lanciare politicamente ed operativamente la nostra campagna.
In tale occasione consegneremo anche i moduli e daremo le coordinate organizzative per la raccolta. I moduli, il Vademecum per la raccolta e la propaganda saranno anche scaricabili dai Siti:

Sottolineiamo la importanza che in ogni territorio i tre Comitati intraprendano contatti con quelle forze politiche, sociali, movimenti ed associazioni che sono state interessate ed hanno condiviso i valori costituzionali che stanno alla base delle proposte di Legge.
A livello nazionale già sono iniziati confronti, che continueranno nei prossimi giorni, con questi soggetti, con l’obbiettivo di condividere un impegno e sostegno comune e/o per concordare forme di collaborazione.

Come per altre raccolte di firme avremo una pluralità di posizioni e risposte ma, in ogni caso, a livello territoriale è necessario aprire confronti e spingere per costruire relazioni, collaborazioni, spazi di agibilità per la nostra campagna.

La stessa logica che è stata utilizzata per il sostegno all’appello dell’ANPI (MAI PIU’ FASCISMI) con la previsione di sedi territoriali in cui discutere e impostare un lavoro comune. Proprio quelle sedi possono diventare occasione affinché, con tutti i soggetti localmente disponibili, si affrontino il merito e le modalità di sostegno delle nostre proposte di Legge.

L’impegno che abbiamo davanti è certamente faticoso ma non proibitivo.
Si tratta di raccogliere 50.000 firme (60.000 per sicurezza) in sei mesi di campagna.

E’ uno sforzo alla nostra portata.
Si dovrà procedere alla vidimazione dei Moduli  l’ 8 febbraio e da quel momento procedere alla raccolta delle firme.

Nella prima fase della raccolta incroceremo la campagna elettorale e dobbiamo sfruttare le numerosissime iniziative elettorali per essere presenti con i nostri tavoli di raccolta e, nei vari incontri con i Partiti nazionali chiederemo, oltre al sostegno politico, anche la possibilità che essi agevolino questa nostra presenza.
In ogni caso a livello locale dobbiamo incalzare partiti e candidati ad offrirci sostegno ed agibilità.

La campagna che apriamo può portare, con un impegno organizzativo accettabile, a risultati importanti; non solo le 60.000 firme ma la nostra capacità di tenere aperta una riflessione ed un confronto nel Paese sulla necessità di difendere ed attuare la Costituzione. Il pericolo, infatti, è che questa Legge elettorale e la cattiva rappresentanza che produrrà ripropongano tentazioni per nuovi attacchi alla nostra Carta fondamentale.