Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 6 ottobre 2020

Come funziona l'odissea del Recovery Fund

 A cura di Luciano Granieri


Si moltiplicano gli appelli, locali e nazionali, affinchè i soldi del Recovery Fund vengano spesi per una programmazione rivolta realmente verso il benessere dei cittadini. Anche in provincia di Frosinone diversi movimenti e associazioni hanno sottoscritto un appello alle forze politiche  per non sprecare i soldi e  destinarli  alla rigenerazione ambientale e sociale del nostro territorio. Un appello condivisibile, che si può leggere cliccando su  Appello alle forze politiche, sociali e sindacali territoriali,   al quale ha aderito anche il sottoscritto, ma che, per puro realismo e a scanso di cocenti delusioni non può che essere considerato un auspicio, l’ennesimo grido di dolore che parte da una terra in dissesto sotto tutti i punti di vista: da quello ecologico, a quello economico a quello sociale. 

Il mio pessimismo è legato alle grandi, e forse insuperabili, imposizioni  a cui lo Stato Italiano deve far fronte per accedere al Recovery Fund. I fondi  arriveranno, se arriveranno, non prima del 2022. Anzi alla luce dei ritardi, dovuti all’approvazione dei programmi attuativi causati dai paesi di Visegard, che stanno bloccando tutto, reclamando l’eliminazione della clausole sul rispetto dei diritti umani e civili, è possibile che i termini potrebbero slittare ulteriormente. 

A tal proposito pubblico, di seguito,  un articolo di Guido Salerno Aletta, editorialista del giornale on line “Teleborsa.it” (non un organo d’informazione comunista quindi) in cui sono spiegati per filo e per segno tutti i salti mortali che l’Italia dovrà fare per accedere al Recovery Fund, delegando di fatto tutta la propria politica economica ai burocrati di Bruxelles. 

A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina. A me sembra piuttosto evidente il tentativo di spingere i Paesi membri ad accettare il Mes rendendo quasi impossibile l'accesso al Recovery Fund. Non più il Mes  della Troika, certo, ma quello  le cui  uniche condizionalità sono  legate alla spesa sanitarie e con un tassi d’interessi quasi negativi, ma a preoccupare è la  prescrizione che si legge a margine del regolamento del Mes:

 La linea di credito sarà disponibile fino alla fine dell’emergenza, dopo gli Stati restano impegnati a rafforzare i fondamentali economici, coerentemente con il quadro di sorveglianza fiscale europeo.

Chiaro no? Alla fine dell’emergenza sanitaria lo Stato Italiano, che nel frattempo avrà accumulato un rapporto debito/pil del 160% e un rapporto deficit/pil  al 9% dovrà rafforzare i fondamentali economici secondo i dettami di sorveglianza fiscale dettati da Bruxelles. Quindi adoperarsi per riportare il rapporto debito/pil il più possibile vicino  al 60% e il deficit/pil al 2,qualcosa%. 

Come potrà farlo? Intanto tagliando quelle stesse spese sanitarie per cui ha ricevuto il prestito, poi flagellando la scuola,  lo stato sociale e privatizzando quel poco che c’è rimasto da privatizzare. La realtà è una e una sola. Fino a quando i Paesi Europei per finanziare la spesa necessaria ad uno sviluppo sostenibile, alla creazione di posti di lavoro “VERI” dovranno prendere i soldi a prestito dai mercati finanziari -magari protetti dalle scorribande degli  squali investitori grazie allo scudo della BCE (leggi quantitative easing) teso a non innalzare troppo i tassi -  non ci sarà alcuna forma di Recovery  che non sia vincolata o a spese per interessi elevati, o a condizionamenti  di politica economica imposti dalla Ue ai governi  per tutelare gli interessi del Capitale.

Buona lettura


A Bruxelles piace il passo dell’Oca

Il Recovery Fund inchioda gli Stati ai tavoli burocratici, con vincoli di ogni genere e procedure defatiganti

 Guido Salerno Aletta

Editorialista dell'Agenzia Teleborsa



                                                        Il sogno europeo si è trasformato in un incubo: la robotizzazione dell'Unione procede inarrestabile, tra vincoli, condizioni, obiettivi e rendiconti. Con il Recovery Fund si prepara un nuovo manicomio burocratico che ci farà impazzire.

E' più di una camicia di forza, un vero e proprio letto di contenzione. Il calcolo astruso dell'output gap o del NAWRU, previsti per rientrare nei parametri del Fiscal Compact, era solo un gioco da ragazzi.

Da Bruxelles si completa giornalmente il quadro delle regole per l'
utilizzo delle risorse previste dal Recovery Fund, scritte apposta per inchiodare gli Stati al tavolo di un gioco di potere che ne limita ulteriormente la sovranità.

Più soldi si chiedono e più sarà alto il grado di interferenza di Bruxelles: altro che vincolo esterno, stavolta ci entrano fin dentro casa.

Ma ci sono ancora tanti illusi, che si fanno abbindolare dal luccichio dei denari!

In Italia c'è infatti chi ancora festeggia, da fine luglio ininterrottamente, perché non ha mai letto neppure uno dei tanti documenti che si accatastano per gestire il Recovery Fund: gongolano, perché pensano di spendere comodamente intanto i 65,4 miliardi di euro di "
grant". Sono "sovvenzioni", somme da non restituire in quanto saranno finanziate con il contributo degli Stati membri.

Pensano, ingenui che non sono altro, di poter incassare tutto subito, e poi di spendere liberamente.

 

Vediamo invece come si snoda il percorso.

L'Italia intanto verserà annualmente il proprio contributo per finanziare questo Fondo Straordinario della Unione, in proporzione al proprio PIL registrato nel 2019; ma in cambio riceverà assai di più, per tenere conto della gravità della crisi sanitaria ed economica che l'ha colpita: questo è il successo politico che ci si vanta di aver raggiunto.

In questo caso, si dice, l'Italia non sarà più un contributore netto al bilancio dell'Unione: sarebbe un percettore netto, anche se nessuno finora ha tirato giù i saldi complessivi, del dare e dell'avere tra il Piano straordinario Next Generation Ue ed il prossimo Quadro finanziario settennale 2021-2027. Si fanno i conti senza l'oste.

In ogni caso, il totale di queste "sovvenzioni" previste per il Recovery Fund a favore dei 27 Paesi dell'Ue è di 312,5 miliardi; di questi, il 70% va impegnato tra il 2021 ed il 2022, ed il restante 30% entro il 2023. I pagamenti saranno comunque scaglionati nel tempo, e già questo fa venire i sudori freddi.

Per accelerare gli interventi, visto che il macchinone di Bruxelles ha la lentezza di un elefante, si è deciso che il 10% degli importi assegnati a ciascuno Stato potrà essere concesso a titolo di prefinanziamento entro il 2021. Come vedremo più avanti, è meno di un piatto di lenticchie, ma di questi tempi non si butta via nulla.

A parte, rispetto alle sovvenzioni, verranno poi calcolati i prestiti, che ammonteranno a 360 miliardi di euro, concedibili nel limite del 6,8% del PIL di ciascun Paese, a meno che non ci siano circostanze eccezionali. Per l'Italia ci sarebbero teoricamente 119 miliardi di euro. Ma si tratta di un meccanismo ancora tutto da mettere in piedi.

In totale, dunque, il Programma Next Generation Ue vale 672,5 miliardi di euro. Ci sono altri progetti minori che portano alla cifra tonda di 750 miliardi.

Più che una cuccagna, Bruxelles ha preparato un vero e proprio percorso ad ostacoli, con tempi, scadenze e condizioni di enorme complessità tecnica, amministrativa e politica. Vediamo: a partire dal 15 ottobre prossimo, in pratica tra una ventina di giorni, i singoli Stati possono cominciare a presentare alla Commissione i primi Piani Nazionali per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), con la scadenza ultima fissata a fine aprile 2021. In pratica, ci si allinea con i tempi della procedura standard del Braccio Preventivo del Programma di Stabilità e Crescita (PSG).


I Piani nazionali saranno valutati dalla Commissione europea entro due mesi dalla presentazione, tenendo conto della loro coerenza con le raccomandazioni specifiche che sono state elaborate per ciascun Paese: da fine aprile 2021 si arriva così a fine giugno.

Per l'Italia, il PNRR sarà valutato tenendo conto soprattutto delle raccomandazioni relative al 2019 (Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma - 10165/19): è un elenco sterminato di "prediche" e di richieste di riforme strutturali, che vanno dalla lotta all'evasione fiscale alla riduzione della spesa per le pensioni che è eccessiva. Finora erano sostanzialmente prediche inutili, perché poi il governo faceva ciò che voleva: bastava rientrare nei limiti del deficit ed avvicinarsi al pareggio strutturale. D'ora in poi, invece, queste raccomandazioni avranno valore cogente, perché se non seguiamo questi Comandamenti non ci approveranno i PNRR: ahi! Ecco che cominciano i dolori!

Ulteriori criteri di valutazione per approvare i Piani sono il rafforzamento del potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza: non sono chiacchiere, perché il raggiungimento di questi obiettivi condizionerà il pagamento da parte della Unione delle somme che avremo speso. Questa è seconda la tagliola.

Praticamente, ci consegneremo legati mani e piedi, visto che nella valutazione del PNRR il punteggio più alto deriverà in primo luogo dalla sua coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese.

Solo successivamente si considerano il rafforzamento del potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Il contributo recato alla transizione verde e digitale è addirittura una precondizione ai fini di una valutazione positiva: altro che scrivere sotto dettatura! La discrezionalità degli Stati è ulteriormente limitata da una serie di obiettivi qualitativi e quantitativi che sono stati stabiliti dalla Commissione, attraverso le Indicazioni sulla redazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza e sui progetti da presentare ai fini del finanziamento - Comunicazione "Strategia annuale per una crescita sostenibile 2021" COM(2020) 575:

·         per la transizione verde, al fine di conseguire la neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione significativa delle emissioni di gas entro il 2030, la spesa relativa al clima dovrà ammontare almeno al 37%. Occorrono dunque riforme ed investimenti nel campo dell'energia, dei trasporti, della decarbonizzazione dell'industria, dell'economia circolare, della gestione delle acque e della biodiversità. Bisogna pure accelerare la riduzione di emissioni tramite la rapida distribuzione di energie rinnovabili e di idrogeno, l'efficienza energetica degli edifici, gli investimenti nella mobilità sostenibile, la promozione di infrastrutture ambientali e la protezione della biodiversità;

·         per la transizione digitale e produttività, bisogna dedicare almeno il 20% delle risorse richieste.


C'è poi da rispettare il 
requisito della Stabilità macroeconomica, un punto assai dolente per l'Italia che ha un elevatissimo rapporto debito pubblico/PIL. Anche se è stato sospeso il processo di riaggiustamento previsto dal Fiscal Compact, l'equilibrio della finanza pubblica rimane un requisito fondamentale: gli investimenti pubblici devono aumentare, ma senza compromettere questo vincolo. Ci aspettano tagli su tagli. Per l'Italia, il sentiero si fa sempre più impervio.

Paletti su paletti: i PNRR dovranno essere coerenti con le informazioni contenute nei Programmi nazionali di riforma nell'ambito del Semestre europeo (PNR), nei Piani nazionali per l'energia e il clima (PNIEC), nei Piani territoriali per una transizione giusta, negli Accordi di partenariato e nei programmi operativi a titolo dei fondi dell'Unione: un ginepraio infernale.

Come se ancora non bastasse, la Commissione ha diffuso le "
Linee guida e modello standard per la presentazione dei Piani di ripresa e resilienza" (Commission Staff Working Document SWD(2020) 205 final). E' una guida pratica, con tanto di modelli e prospetti da riempire: un puzzle di dati di spesa, di tempi previsti, di obiettivi attesi, di criteri di valutazione, fatto apposta per avere ogni scusa buona per intervenire, sindacare, correggere, giudicare. E, ovviamente, per non pagare!

L'
esame dei PNRR sarà coordinato da un'apposita task force della Commissione per la ripresa e la resilienza, in stretta collaborazione con la Direzione generale degli Affari economici e finanziari (DG ECFIN).

La valutazione della Commissione, dopo aver ben aggiustato confrontandosi con i vari governi le loro proposte di PNRR, sarà quindi soggetta alla approvazione da parte del Consiglio della Unione europea, che decide a maggioranza qualificata entro 4 settimane: siamo arrivati a fine giugno, ed ora c'è luglio di mezzo.

Diciamo che, 
se tutto va bene, i PNRR saranno approvati ai primi di agosto del 2021. Insomma, tra un anno saremo finalmente al via.

C'è, come abbiamo visto, una procedura a stralcio per il 2021, ma vale appena il 10% del totale. In pratica, per l'Italia sono 6,5 miliardi: una cifra assolutamente ridicola.
Al di là di questa una tantum, la approvazione del PNRR servirà a dare il via libera per spendere la cifra concordata, praticamente nell'ambito del bilancio per il 2022.

Solo allora lo Stato potrà procedere alle spese concordate, ma dovrà rendicontarle e fare richiesta di pagamento da parte di Bruxelles delle somme usate "in conto Recovery Fund": la valutazione per la erogazione del rimborso sarà effettuata sempre dalla Commissione, ma sarà subordinata al raggiungimento dei "traguardi intermedi e finali in termini di risultati".

Spendere i soldi non basta: bisogna dimostrare che gli obiettivi macroeconomici ed i risultati socioeconomici che erano stati promessi sono stati effettivamente raggiunti.

Prima di decidere, la Commissione deve infatti attendere il vaglio di una sorta di Troika, cui spetta valutare il raggiungimento o meno dei traguardi concordati: la Commissione europea dovrà tenere conto del parere del "Comitato economico e finanziario", un organo consultivo istituito per promuovere il coordinamento delle politiche necessarie al funzionamento del mercato interno, formato da alti funzionari delle amministrazioni nazionali e delle banche centrali, della Banca centrale europea e della Commissione europea. Esce di scena il FMI, ma al suo posto subentrano altri "esperti".

Non basta, perché a questo punto è possibile la attivazione del cosiddetto "freno d'emergenza": ogni Stato membro può opporsi alla valutazione positiva della Commissione, e quindi al pagamento delle somme richieste dallo Stato che ha effettuato le spese, "per gravi scostamenti rispetto all'adempimento soddisfacente dei pertinenti target". Può richiedere, entro tre giorni dalla proposta della Commissione, che la questione venga deferita al Consiglio europeo: nessuna decisione riguardo i pagamenti potrà essere assunta finché il Consiglio europeo non abbia discusso la questione "in maniera esaustiva".

Visto che i target sono estremamente complessi, e che riguardano una infinità di questioni, si rimane appesi a questo ulteriore giudizio: i Paesi Frugali ne hanno fatto una questione di principio. Chi si illudeva di avere risorse europee da spendere subito ed in libertà, si dovrà ricredere.

Si va oltre la robotizzazione: si mette in atto una vera e propria militarizzazione burocratica e politica, con gli Stati che devono marciare inquadrati, al passo dell'Oca.

Il Recovery Fund inchioda gli Stati ai tavoli burocratici, con vincoli di ogni genere e procedure defatiganti.

A Bruxelles piace il passo dell'Oca

Appello per il proporzionale e la democrazia

Comitato Democrazia Costituzionale



Alle forze democratiche presenti in Parlamento

  

La riforma costituzionale confermata dai cittadini nel referendum del 20-21 settembre nasce dal programma elettorale della Lega del 2018, con gli stessi numeri (400 deputati e 200 senatori), in vista del presidenzialismo, cavallo di battaglia della destra italiana.

L’inserimento della riduzione dei seggi nel “contratto di governo” giallo-verde e la successiva accettazione della riforma da parte del Partito Democratico hanno consentito una modifica fondamentale dell’assetto del Parlamento, tale da pregiudicare il funzionamento del Senato, assemblea ridotta a soli 200 membri (numero inferiore al Senato francese e a quello spagnolo).

L’attuale maggioranza ha già presentato dei disegni di legge vòlti a superare l’elezione a base regionale del Senato, che creerebbe notevoli squilibri con soli 196 seggi (tolti i quattro della circoscrizione Estero), e a equiparare l’elettorato della seconda Camera. Se è ragionevole l’idea di ridurre l’età minima per gli elettori (da 25 anni a 18), pare insensata l’idea di abbassare l’età anche per gli eletti (da 40 anni a 25), che toglierebbe al Senato (dal latino senex ‘anziano’) un tratto distintivo, ovvero la maggiore maturità dei suoi componenti.

L’auspicato ritorno a una legge elettorale proporzionale purtroppo non basta a garantire il popolo da svolte autoritarie, poiché le destre hanno già dimostrato di poter cambiare le regole del gioco a colpi di maggioranza per i propri interessi di parte (si veda la genesi del cosiddetto Porcellum, peraltro scritto dallo stesso senatore leghista che ha promosso la riforma del miniparlamento, Roberto Calderoli); inoltre le destre ormai non fanno mistero della loro adesione al sistema uninominale senza doppio turno, diametralmente opposto al proporzionale sotto il profilo democratico.

Pertanto chiediamo ai parlamentari che si riconoscono nei valori dell’antifascismo e della democrazia rappresentativa, princìpi ispiratori della carta del 1948, di inserire nella Costituzione la seguente norma, come secondo comma dell’articolo 55: “I parlamentari sono eletti con criterio proporzionale, nel rispetto delle libere scelte dei cittadini”.

Infine, chiediamo di mantenere il requisito dell’età minima di 40 anni per la carica di senatore, onde evitare il rischio che una perfetta equiparazione delle due Camere nella loro composizione (elettorato attivo e passivo, circoscrizioni elettorali) giustifichi, in un futuro non lontano, la soppressione del Senato o una sua rifunzionalizzazione (come nella riforma Renzi-Boschi, bocciata nel referendum del 2016), con una ulteriore compressione degli spazi democratici.