Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 25 aprile 2020

«Bella Ciao» cantata sui monti d’Abruzzo

Alessandro Portelli



In tanti hanno scritto di Bella ciao e in tanti l’abbiamo cantata. Adesso, in un piccolo prezioso libro, Cesare Bermani, lo studioso militante che meglio di tutti ne ha seguito le origini e la storia, distilla più di mezzo secolo di ricerca e arriva a conclusioni definitive e solidamente documentate (Cesare Bermani, «Bella ciao». Storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle Resistenze, Novara, Interlinea, 2020).
Per prima cosa, Bermani fa chiarezza su un punto importante: non è vero che Bella ciao non sia stata cantata durante la Resistenza. Era l’inno di combattimento della Brigata Maiella in Abruzzo, cantato dalla brigata nel 1944 e portato al Nord dai suoi componenti che dopo la liberazione del Centro Italia aderirono come volontari al corpo italiano di liberazione aggregato all’esercito regolare. La ragione per cui non se ne aveva adeguata notizia, osserva Bermani, stava in un errore di prospettiva storica e culturale: l’idea che la Resistenza, e quindi il canto partigiano, fossero un fenomeno esclusivamente settentrionale. Il fatto che la canzone iconica dell’antifascismo venga invece dall’Abruzzo sposta la prospettiva non solo sul canto, ma sul movimento di liberazione nel suo insieme: il «vento del Nord» è stato impetuoso e decisivo, ma il vento non soffiava in una direzione sola.
Da tempo, peraltro, avevamo rilevato una ricca tradizione di canto antifascista e partigiano in altre parti dell’Italia centrale, in Lazio e Umbria soprattutto (per non dire della Toscana, di cui già si sapeva molto). C’è una versione di Fischia il vento, il classico canto composto dai partigiani liguri, raccolta in Umbria da Valentino Paparelli, a cui è stata aggiunta una strofa sorprendente: «Là nel Nord c’è un popolo che attende con certezza di aver la libertà». I partigiani che hanno combattuto nell’Italia centrale continuano la lotta salendo a liberare il Nord; tra loro, c’erano anche i combattenti della Brigata Maiella. L’incontro fra questi combattenti e le forze partigiane del Nord, soprattutto in Emilia, diventa un cruciale momento di scambio e contaminazione culturale. È lì che i partigiani umbri della Brigata Gramsci arruolati nel corpo di combattimento Cremona impararono sia Fischia il vento sia Stoppa e Vanni, per poi riadattarle al loro contesto; e fu proprio a Reggio Emilia che l’allora partigiano Vasco Scanzani imparò la Bella ciao partigiana che nel 1951 avrebbe poi trasformata nel canto di lavoro delle mondine.
Bermani, che ne è stato anche protagonista, ricorda che di tutto questo non sapevano niente Roberto Leydi e Gianni Bosio quando vicino Reggio Emilia incontrarono la grande cantatrice ex mondina Giovanna Daffini, che gli cantò la versione delle mondine, e si convinsero che fosse l’origine del canto partigiano. Da questo malinteso nacque il memorabile spettacolo, «Bella ciao», rappresentato al Festival di Spoleto del 1964, che cominciava proprio con la giustapposizione, in ordine sbagliato, della versione mondina e di quella partigiana. Il folk revival italiano nasce dunque su un doppio equivoco: l’identificazione del canto partigiano solo con il Nord, e lo scambio di cronologie fra la Bella ciao partigiana e la versione sindacale scritta da Scanzani per le mondine. Va osservato peraltro che i «responsabili» di questo equivoco (ancora molto diffuso), a partire da Leydi e dallo stesso Bermani, sono stati quelli che già da molto tempo hanno messo in chiaro come stavano effettivamente le cose.
Dal libro di Cesare Bermani, Bella ciao emerge come un testo che mette in discussione definizioni rigide e confini invalicabili: Nord e Sud, canto partigiano, musica leggera, tradizione orale… Bermani parte dal rapporto fra il canto partigiano e il canto epico-lirico narrativo di tradizione orale, ripercorrendo i legami strettissimi con canti tradizionali come Fior di Tomba (testo) e La bevanda sonnifera (melodia). In Italia centrale, per esempio, è abbastanza diffusa, una versione narrativa di Fior di tomba inframmezzata dal ritornello Bella ciao, quasi come una contaminazione al contrario in cui il canto partigiano retroagisce sulla ballata tradizionale. Però il legame è anche più profondo: l’incipit – «Questa mattina mi son svegliato» – che accomuna Bella ciao con Fior di tomba lo ritroviamo in moltissimi blues: l’altra mattina mi sono svegliato e Satana mi bussava alla porta (Robert Johnson), l’altra mattina mi sono svegliata e il blues mi girava intorno al letto (Bessie Smith), e così via. È la scoperta traumatica dell’irruzione del male – l’invasione, il tradimento, il demonio, la sofferenza – nel tempo e nello spazio di tutti i giorni, la precarietà dell’esistenza e dei rapporti in un mondo popolare sempre sotto minaccia.
Forse la parte più divertente del libro di Bermani è la ricostruzione della storia di vita di Rinaldo Salvadori, paroliere e canzonettista toscano, che già negli anni ’30 aveva composto una canzone intitolata Risaia sulla vita delle mondine che conteneva la frase «bella ciao», appresa in frammenti di canti alpini e altre espressioni popolari e popolaresche. Risaia fu censurata dal regime perché conteneva espliciti accenni allo sfruttamento a cui erano sottoposte; per farsi perdonare, Salvatori compose poi canzoni fasciste, ma già nel 1944 pubblicava testo e musica di una versione di Bella ciao assai simile a quella che oggi conosciamo tutti. Il punto, insomma, è che in questo ambito la ricerca dell’ «origine» e della «autorialità» si dissolve in rivoli infiniti; quello che conta non è tanto come un canto è nato, ma come è diventato quello che abbiamo adesso.
«Salvadori», scrive Bermani, «ci appare come un fenomeno ’di frontiera’, metà interno al mondo popolare e metà dentro al mondo della musica leggera di quegli anni». In realtà è tutta la storia di Bella ciao che appare come un fenomeno di frontiera, ibrido e sfuggente e proprio per questo capace di unire, di mettere in comunicazione realtà diverse. Pensarla in questo modo ci aiuta anche a capire meglio il processo per cui Bella ciao viene adottata quasi istituzionalmente come canto iconico del movimento di liberazione negli anni del centrosinistra, quando l’antifascismo diventa (un po’ strumentalmente ma un po’ anche no) il principio unificante di un «arco costituzionale» che nelle sue declinazioni migliori riconosce la pluralità di una Resistenza che non appartiene esclusivamente a nessuno. In un certo senso, è proprio l’ecumenismo politico un po’ generico intrecciato alla fermezza morale (e, come Bermani ricorda, agli echi est-europei della melodia, al piacere ludico del battito di mani) che permette sia gli abusi, sia soprattutto la straordinaria circolazione internazionale soprattutto di questi ultimi anni, dal Cile al Kurdistan, da «Casa di carta» a Tom Waits, di cui Bermani dà accuratamente conto. E che manda fuori di testa gli amministratori locali di destra che, dal Friuli alla Sardegna, hanno cercato invano a più riprese di vietarne il canto negli eventi ufficiali. Hanno ragione a dire che Bella ciao è divisiva: sarà generica, sarà ecumenica, ma si capisce benissimo da che parte sta.
fonte "Alias" inserto culturale de "il manifesto" del 25 aprile"

venerdì 24 aprile 2020

Per difendere la libertà serve ritrovare coesione sociale. Buon 25 aprile

Luciano Granieri




Piaccia o non piaccia il 25 aprile del 1945 ci siamo liberati dai criminali fascisti e nazisti

Piaccia o non piaccia in quella liberazione i partigiani comunisti hanno avuto un ruolo predominante e decisivo.

Piaccia o non piaccia  a quelli che cercano di demistificare il 25 aprile, ridurlo a data divisiva, farne una ricorrenza di nessuna  importanza - dopo averlo  inserito in un contesto falsificato da certo  becero revisionismo storico - bisogna ricordare che   grazie al 25 aprile   possono straparlare  senza limiti , spesso da uno scranno parlamentare.

A  volte viene il dubbio, assistendo a certe manifestazioni di ignoranza impastata di razzismo e fascismo, che forse la libertà concessa sia  stata troppa.  E’  un eccesso di  libertà  consentire  in tanti frangenti  l’attacco  ai principi che grazie al 25 aprile si sono conquistati ?  La  libertà non è né troppa né poca, o è, o  non è.

Ma libertà e democrazia, una volta conquistate,  vanno continuamente difese, preservate.  E’ moltio più difficile oggi. Visto che, probabilmente non ce ne stiamo accorgendo,   ma gli enormi ostacoli posti dalla diseguaglianza sociale sulla strada della piena realizzazione della persona umana, ci tolgono libertà. Così come ci toglie libertà lo sfilacciamento del diritto alla tutela della salute individuale e collettiva. Aspetto che il Covid-19 sta mettendo in drammatica evidenza.

Dunque forse difendere la libertà, la democrazia (intesa come diritto a partecipare alle decisioni politiche e oltre  il semplice esercizio elettorale)  oggi travalica  il contrasto al rigurgito fascista e razzista e sconfina inevitabilmente nell’opporsi   alla dittatura del mercato, che agisce alimentando rapporti sociali basati sulla competizione fra individui sull’individualismo sfrenato.

Il più importante atto da compiere dunque è riabituarsi a condividere, ad agire collettivamente per degli ideali comuni.  Così come hanno fatto i partigiani, i quali hanno deciso di combattere insieme, da nord a sud per liberare insieme i propri concittadini.

A tal proposito propongo di guardare il video che segue, in cui lo storico scrittore Roberto Salvatori descrive le attività dei partigiani nei territori a sud di Roma e mi unisco a lui nell’augurare buon 25 aprile a tutti.


mercoledì 22 aprile 2020

Emergenza clima: sciopero o appello?

La lezione della pandemia per affrontare l’emergenza climatica 




Giacomo Biancofiore

Prima che il mondo fosse sconvolto dalla terribile pandemia di Covid-19, i giovani di tutto il pianeta avevano programmato per il 24 aprile di riempire ancora una volta le piazze delle principali città del mondo per il quinto sciopero globale per il clima.
Le drammatiche conseguenze del coronavirus hanno quindi trasformato il Climate Strike in un Digital Strike in cui miliardi di giovani anziché da una piazza, prendendo spunto dall’emergenza sanitaria in corso, «urleranno» dalle tastiere dei loro pc che «la nostra salute viene prima del profitto!».
L’esplosione della pandemia di Covid-19, infatti, oltre a causare il cambio di programma, ha aggiunto un importante nuovo tassello nella elaborazione della questione climatica.

Da Rio a Madrid, passando per Parigi
Per comprendere gli sviluppi che hanno portato alle attuali argomentazioni del Fridays for future e di tutto quello che si è mosso in parallelo è necessario ricordare i tentativi di «dialogo» tra i vari Paesi del mondo a cui gli attivisti della lotta alle alterazioni climatiche hanno fatto riferimento negli anni.
Bisogna precisare, intanto, che il tema del riscaldamento globale e i relativi primi negoziati e accordi internazionali che hanno avuto come obiettivo la definizione dei limiti alle emissioni di gas Serra risalgono all’inizio degli anni Novanta, quando Greta Thunberg non era ancora venuta al mondo.
Fu il Vertice sulla Terra di Rio de Janeiro nel 1992 che diede vita alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), il primo inutile trattato internazionale, inutile soprattutto per il carattere non vincolante (nel senso che non impose limiti obbligatori alle emissioni di gas Serra alle singole nazioni firmatarie) dal punto di vista legale. Proprio il vertice di Rio ha dato il via alle Conferenze delle parti (Cop), incontri annuali per analizzare i progressi nell'affrontare il cambiamento climatico.
Uno dei più noti è certamente il Protocollo di Kyoto del 1997 (Cop3) che, nonostante l’imposizione dell’obbligo di riduzione delle emissioni ai Paesi più sviluppati, ha visto una riduzione risibile considerando che gli Stati Uniti non vi hanno mai aderito e che Canada, Russia, Giappone e Nuova Zelanda si sono via via defilate.
Una sveglia, soprattutto mediatica, nel torpore generale è stata rappresentata dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (Cop21) che, dinanzi a 40 mila partecipanti, ha prodotto il primo testo universale per ridurre la temperatura di 2 gradi, cioè sotto i livelli della prima rivoluzione industriale (1861-1880) dal 2015 al 2100 (ovvero 2.900 miliardi di tonnellate di Co2, ossia un taglio dell’ordine tra il 40 e il 70% delle emissioni entro il 2050).
A seguire, Marrakech, Bonn, Katowice e in ultimo Madrid (Cop25) hanno provato a definire meglio le regole di attuazione dell’Accordo di Parigi che dal 2015 è rimasta la vera guida per gli attivisti.

Cop25, storia di un fallimento universalmente riconosciuto
L’unico merito della 25esima conferenza sul cambiamento climatico organizzata dall’Onu, la cosiddetta Cop25, è stato quello di mettere tutti d’accordo sull’esito: un fallimento!
A Madrid, infatti, alla presenza di 190 Paesi del mondo, l’obiettivo era trovare una soluzione su uno dei punti più importanti e discussi dell’Accordo di Parigi sul clima: il meccanismo previsto dall’articolo 6, che dovrebbe permettere ai Paesi che inquinano meno di «cedere» la loro quota rimanente di gas serra a Paesi che inquinano di più, per permettere loro una transizione più facile senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi generali. Oltre a non avere concordato nulla sull’articolo 6, la Cop25 non ha prodotto niente di vincolante sull’obbligo per i singoli Paesi di presentare piani per ridurre ulteriormente le proprie emissioni di gas.

«Per arrivare sulla Luna serve più di un monopattino»
Discutere sulle cause del fallimento della Cop25 di Madrid, dove, Brasile, Australia e Stati Uniti sono stati, addirittura, accusati di avere ostacolato apertamente un accordo per evitare di sottostare a regole più rigide, ha una importanza relativa rispetto all’amaro in bocca che ha lasciato l’esito della Conferenza.
Gli egoismi e i calcoli dei Paesi più sviluppati in barba alle necessità di risorse economiche dei Paesi più esposti agli impatti dei cambiamenti climatici, nonché la tattica di spostare la discussione su sterili dettagli tecnici, hanno mostrato il vero volto degli avvoltoi a giovani e meno giovani che oggi stanno lentamente rimodulando la fiducia verso i governi e le loro organizzazioni internazionali, anche perché le notizie che arrivano dagli scienziati non lasciano molto spazio alla speranza: un nuovo rapporto speciale sul clima realizzato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), sulla base di circa 7mila ricerche scientifiche conclude che «il livello del mare continua ad aumentare, i ghiacci si sciolgono rapidamente e molte specie si stanno spostando alla ricerca di condizioni più adatte alla loro sopravvivenza».
Ad acutizzare il disincanto di chi è più sensibile all’emergenza climatica è stata la dura lezione di un’altra emergenza, quella sanitaria causata dal coronavirus.
Di certo i giorni a venire saranno importanti per la messa a punto dell’analisi e delle conseguenti azioni del movimento nato dall’iniziativa della ormai diciassettenne studentessa svedese Greta Thunberg, ma è evidente che il monito, lanciato sui social per tenere vivo l’interesse verso il problema climatico nei giorni di quarantena obbligata, rappresenta più che un semplice slogan: «non permetteremo che altre epidemie ci trovino impreparati, non permetteremo che si continuino ad alimentare le condizioni che favoriscono la diffusione di nuovi virus, non permetteremo che il nostro e tutti i governi usino questa crisi come copertura per tornare a distruggere il pianeta, che ci garantisce la vita, come facevano prima, in combutta con le aziende del fossile. La nostra salute dipende dagli ecosistemi. La nostra salute viene prima del profitto».

Due emergenze, lo stesso colpevole
Se i fallimenti delle conferenze hanno spinto i più giovani a guardare oltre il totem dell’Accordo di Parigi, la pandemia di Covid-19 ha mostrato, come esplicitamente dichiarato nel testo sopra riportato, che c’è un colpevole ben identificato che «alimenta le condizioni che favoriscono la diffusione dei virus» ed è lo stesso colpevole ben identificato che ha generato la crisi climatica: il sistema capitalista.
Un sistema criminale basato sull’anarchia della produzione per l’accumulazione di nuovi capitali nella competizione tra capitalisti concorrenti, non solo distrugge gli ecosistemi e causa la crisi climatica, ma condanna a morte il proletariato e le masse più povere di questa società a causa dell’incapacità di affrontare queste crisi.
Un modello di sviluppo sensibile solo ed esclusivamente all’opulenza di pochi e incurante dei bisogni della stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

La lezione più importante
Nel 2018 abbiamo scoperto, tramite il rapporto sulla sicurezza alimentare globale diffuso da Fao, Unicef e altre agenzie delle Nazioni Unite, che il numero delle persone che soffrono la fame nel mondo è in crescita: sono, infatti, 821 milioni, vale a dire 1 abitante del pianeta su 9, secondo «The State of Food Security and Nutrition in the World 2018».
Nonostante numerosi studi dimostrino che la produzione alimentare mondiale è sufficiente a soddisfare la domanda di tutti gli abitanti del pianeta, l'incidenza della fame è aumentata negli ultimi tre anni, tornando ai livelli di un decennio fa.
Se aggiungiamo quest’altro tassello al puzzle che abbiamo cominciato a comporre con il quadro sulla crisi climatica e le modalità di affrontare la crisi sanitaria di questo inizio 2020 che ha visto, fino al momento in cui scriviamo questo articolo, oltre un milione e mezzo di contagi ufficiali e più di 90 mila morti nel mondo, ci troviamo di fronte un ritratto chiaro che rappresenta la lezione più importante da ricordare, la «Lesson for future»: affidarsi agli Stati e ai loro governi che, per dirla con le parole di Marx ed Engels, «amministrano gli affari comuni di tutta la classe borghese», significa non solo non risolvere i problemi di questa portata, ma aggravarli e distruggere la classe lavoratrice e gli sfruttati del pianeta.

«La solita volpe a guardia del pollaio»
A fine marzo l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense (Epa) ha annunciato che le industrie potrebbero avere difficoltà a rispettare alcune prescrizioni degli standard ambientali a causa del coronavirus aprendo, di fatto, la strada alla sospensione dell’applicazione delle leggi ambientali e delle relative sanzioni in caso di violazioni. Inutile aggiungere che il provvedimento è stato invocato in particolar modo dall’industria petrolifera e del gas.
Più o meno negli stessi giorni il Fridays For Future Europa, dopo aver finalmente dichiarato «inadatto» il Green New Deal che per alcuni rappresentava uno dei pilastri su cui costruire la «rivoluzione verde», per mettere pressione sugli organismi dell’Unione europea ha lanciato una raccolta firme, sì avete letto bene una raccolta firme in cui si fa appello alla Commissione europea di mettere in atto misure più stringenti per fronteggiare la crisi climatica e, per perseguire e raggiungere tali obiettivi, si reputano essenziali precise leggi.
Se a questo si aggiunge la fiducia di molti attivisti e attiviste nell’Agenda 2030 con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals - Sdgs) approvata il 25 settembre 2015 dalle le Nazioni Unite il ritratto torna ad essere a tinte fosche.
La discrepanza tra quella che è l’analisi e le conseguenti iniziative non può che essere evidente!

Una sola «agenda», quella che porta al socialismo
Di fronte a quello che stiamo vedendo con i nostri occhi, dopo l’ultima fallimentare esperienza della Cop25 di Madrid, appurata l’incapacità dei governi di far fronte alle crisi senza l’approvazione della borghesia e dimostrata la criminale voracità di Paesi come gli Stati Uniti (per giunta principale membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu) nel mezzo di una delle peggiori crisi sanitarie, è semplicemente assurdo solo pensare che si possa lasciare che la crisi climatica in corso sia risolta a modo loro.
Il tempo degli appelli, della speranza nella loro democrazia è scaduto, la salute e la stessa vita delle popolazioni è in imminente pericolo e solo prendendo l’iniziativa e costruendo una lotta dura combattuta con l’arma più importante che hanno le masse popolari che è lo sciopero, potrà essere vinta.
I lavoratori in questi mesi si sono resi conto che questa società funziona grazie a loro e che se la giostra non la chiudono i governi le masse proletarie hanno la forza necessaria di chiuderla loro con gli scioperi.
Non esistono leggi e riforme che possano risolvere le contraddizioni del capitalismo e chi persegue questa strada non fa altro che tenerlo in vita artificialmente a danno della stragrande popolazione del pianeta.
E’ fin troppo evidente ora che solo la rivoluzione socialista potrà salvare il pianeta e i suoi abitanti dalla catastrofe.

martedì 21 aprile 2020

Anche Lee Konitz, come altri jazzisti, si arrende al virus

Luciano Granieri





Dannato Coronavirus! Si è portato via anche Lee Konitz. Il sassofonista è’ morto il 15 aprile scorso a 92 anni presso il Lennox Hospital Hill d New York. 

Lui, nato a Chicago nel 1927, ha attraversato in punta di piedi  70 anni di jazz. In punta di piedi, perché la critica non se ne è mai occupata  in modo eclatante.  Forse per la sua innata voglia di rimanere all’interno di un progetto, collaborando per esso e non emergendo da esso. In realtà  Lee Konitz  ha percorso da innovatore gran parte della sua strada jazzistica. 

Al suo  debutto discografico nel 1947 con l’orchestra di Claude Thornill, con arrangiatore Gil Evans, molti, apprezzando la voce  del  suo sax alto, esclamarono: “Finalmente uno che non suona come Charlie Parker”. L’assolo in Yardbird Suite rivela comunque  una performance rivoluzionaria,   non basata sulle sortite infuocate  di un fraseggio alla Charlie  Parker, ma sulla particolarità del suono,  sulla ricerca di effetti cromatici mai proposti prima . Una costruzione influenzata  delle figure più asciutte e distaccate della poetica  di Lester Young e l’intellettualità del fraseggio del Bix Beiderbecke   nel periodo degli Wolverines.  

In realtà quel modo di concepire la musica scaturiva dalla stretta  frequentazione con il suo maestro, il pianista  Lennie Tristano. Un sodalizio didattico-creativo–sperimentale, condiviso con musicisti  come il tenor sassofonista Warne Marsh e il chitarrista Billiy Bauer,  nato per caso  a seguito di un incontro al Winkin’ Pup di Chicago nel 1943. E’ indubbio che le stratificazioni armoniche , le polifonie,  insomma le diavolerie di casa Tristano, abbiano forgiato l’originalità, non solo della voce strumentale di Konitz, ma anche il  modo di concepire il jazz e in generale la sua espressione artistica. 

In quel periodo per un sassofonista bianco la destinazione più naturale era quella di finire in un’orchestra swing, o comunque in un ensemble da ballo.  La  stessa orchestra di Thornill si divideva fra performance più prettamente jazzistiche, ai  cui arrangiamenti pensava Gill Evans, e quelle tipicamente da intrattenimento. Quell’intrattenimento in odio a Tristano, percepito come accettazione e consegna  incondizionata  ai diktat del mercato.   Odio condiviso da  Lee Konitz. Per questo  i riferimenti del sassofonista di Chicago   esulavano  dalla narrazione ludica dello  swing  per rifarsi  al   jazz degli anni venti,  Louis Armstrong e  Bix Beiderecke   (quello  svincolato dall’orchestra di Whitemann in particolare).  Non è un caso che Lee Konitz abbia riproposto pari pari, l’assolo di Louis Armstrong  in Struttin with some barbacue sia nelle esecuzioni in duo con il trombonista  Marshall Brown nel ’67  che e nel suo nonetto del ’77.  

La vita di Konitz in quel periodo si divideva fra Tristano e Gil Evans. Del primo abbiamo detto, del secondo giova ricordare che, interrotta la collaborazione con Thornill, coinvolse Konitz nella composizione di un nuovo gruppo di nove elementi  con l’inserimento del corno francese e del  basso a tuba. Nacque la “Tuba Band” che riuscì ad ottenere nel 1948 una scrittura per 15 giorni al Royal Roost  e che, con pochi ritocchi, fra il 1949 e il 1950,  fu protagonista dell’incisione di “Birth of The Cool”, per la Capitol , a nome di Miles Davis.  Al disco si    attribuisce la nascita dello stile "cool jazz", dove per “cool” non s’intende tanto  “freddo”, quanto   “distaccato”.  Era la forma di protesta dei, così detti, "coolster" i quali , a differenza di Parker e soci, tesi a destrutturare  il rapporto fra armonia e melodia, come metafora  della distruzione di una  società che discriminava i neri, contemplava una ricerca espressiva originale, intellettuale, scevra da implicazioni emotive.
Un “dissenso bianco” che combatteva il contesto sociale in cui operava, non contrastandolo , ma rifiutandolo,  estraniandosi completamente da esso .  In comune con il Be Bop questo stile subì il rifiuto  del mercato, per cui ai suoi protagonisti non rimase che cambiare registro per sopravvivere. Alcuni migrarono a Los Angeles per dar vita al West Coast  Jazz, altri proseguirono in un solco più propriamente mainstream, altri ancora,  come Tristano, si dedicarono completamente all’insegnamento. 

Lee Konitz  fu scritturato da Stan Kenton, nella cui orchestra militò dal 1952 al 1954. Fu un cambio di passo notevole:  dalla massima ricerca espressiva di Tristano alla rigida formalità del direttore d’orchestra californiano che aveva in odio i  neri e limitava al massimo il ricorso alle improvvisazioni. Nonostante ciò Konitz potè godere di una certa libertà nel dispiegare il suo linguaggio proprio in virtù delle  sue  capacità straordinarie. La militanza nell’orchestra di Kenton gli consentì di girare l’Europa e scoprire che molti sassofonisti europei  avevano lui come modello piuttosto che Parker. Come prevedibile però l’orchestra cominciò a stare stretta a Konitz, compresso in sonorità rigide e in strutture troppo preordinate.  

Tornò  così  a frequentare Tristano e i  vecchi amici.   Ma nel frattempo il suo rapporto con la musica era cambiato. Mal sopportava  il distacco  di un’improvvisazione eterea scevra da ogni concessione all’emozione.  Il critico  Nat Hentoff riferì un aneddoto rivelatore, in questo senso, raccontatogli proprio da Konitz  Stavo suonando con Lennie Tristano in un night. Ci allontanammo dal palco alla fine del set sottobraccio, e Lennie fa: “Come va”? “Così così” rispondo. “Dai” sbotta Lennie “hai suonato da Dio”. Mi urtò l’idea di questa distanza tra il mio stato d’animo e la mia resa musicale…  Ho scoperto che la cosa più importante è divertirsi suonando. Non sono più così determinato a sbalordire con la mia originalità. Se viene viene …… In diversi giovani jazzisti sento tutti gli ingredienti giusti, ma non sento una nota che abbia il feeling personale dell’artista. Viceversa io cerco di mettercelo quando suono”. 

 Dunque il nuovo stile di Konitz era diventato  rilassato, quasi conviviale in cui si rilevava  la tendenza a lavorare sugli standard, procedura che condivise  con Warne Marsh,  suo compagno in tante registrazioni. In quel periodo è ’richiesto da molti  musicisti e arrangiatori per suonare in vari progetti , espressioni  polifoniche,  come quelle proposte da Gerry Mulligan,  Jimmy Giuffrè a George Russell.  Alla  fine degli anni ’50 la sua attività subì un rallentamento , si trasferì  in California  nella Carmen Valley  abbandonando  quasi completamente la musica fino al 1961, quando un nuova sollecitazione creativa lo richiamava ad un contributo nuovo e rivoluzionario, tanto affascinante quanto precursore di nuove strade. 

E’  il   tema dell’improvvisazione  svincolata da gabbie armoniche, depurata dall’affollarsi di troppi accordi  fino al puro  incedere  melodico. Anche questa visione  è figlia delle frequentazioni con Tristano, ma è portata da Konitz all’estremo. Passa attraverso l’esperienza in trio, senza pianoforte  con Sonny Dallas al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria, (Motion per la Verve 1961),  le  registrazioni in duo con il chitarrista Jim Hall (Erb per la Milestone 1967) e il pianista franco-algerino  Martial Solal, (Duplicity per la Horo 1977) fino ad improvvisazioni in  solitaria il cui fraseggio influenzerà  diversi sassofonisti free da Rosce Mitchell ad Anthony Braxton  che lo considererà un suo ispiratore. Si moltiplicarono   i viaggi in Europa e soprattutto in Italia. Una testimonianza  della nuova fase sperimentale di Lee Konitz ebbe luogo proprio in Italia  con  il bellissimo “Stereokonitz” inciso nel 1968 per la Rca con Enrico Rava alla tromba, Franco D’Andrea al pianoforte, Giovanni Tommaso al Cotrabbasso, Gegè Munari alla batteria. 

Con il passare del tempo le apparizioni di Lee Konitz saranno improntante alle collaborazioni, piuttosto che ad un’esaltazione solistica. Condividerà dischi e palcoscenici con tanti musicisti, non solo di jazz: da Andrew Hill a Dave Brubeck, da Paul Bley fino a Michel Petrucciani, Ornette Coleman, Chick Corea Si fa prima a citare i musicisti con cui non ha collaborato. Molti jazzisti in Italia hanno suonato con lui e lo hanno apprezzato infinitamente come ad esempio Stefano Bollani ed Enrico Pieranunzi.  Perfino Ornella Vanoni  ha usufruito del suo valido contributo.

Insomma il Coronavirus ci ha privato di un musicista che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione del linguaggio jazzistico, ma lo ha fatto in punta di piedi e questa è stata la sua grandezza. 





Purtroppo il mondo del jazz,  come tutto il panorama artistico, deve piangere altre vittime straziate dalla Pandemia.

Ci riferiamo a  Ellis Marsalis, pianista, docente di musica   e grande personalità di New Orleans  oltre che  padre di    Wynton  e  Branford, e dei meno noti  Delfeayo e Jason,anch’essi musicsti.

Anche il chitarrista   Bucky Pizzarelli, è scomparso. Uno strumentista  considerato l’erede   di Django  Reinhardt , nonché apprezzato accompagnatore di Frank Sinatra.

Ellis Marsalis


  Desta impressione la morte del  cinquantanovenne  trombettista di Philadelphia  Wallace Roney. Artista di spicco in  quell’eletta schiera di musicisti, (i fratelli Marsalis, Terence Blancard, Kenny Garret, per citarne solo alcuni )  che, fattisi le ossa nei Jazz Messanger di Art Blakey animarono   la scena New Bob degli anni ’80 e ’90. La  poliedrica poetica di Rooney lo aveva portato a condividere esperienze free con Pharoah Sanders e Ornette Coleman.  Era considerato l’erede di Miles Davis, suo vero e proprio idolo con cui aveva avuto l’occasione di suonare insieme. Non a caso vinse un grammy nel 1994 per “A tribute To Miles” registrato  per la Qwest Record con il quintetto storico di Miles,  Wayne Shorter - sassofoni, Herbie Hancock-piano, Ron Carter – contrabbasso,Tony Williams-batteria.
 Il mondo dell’arte sta pagando un tributo pesante al virus. Speriamo che finisca presto.




lunedì 20 aprile 2020

Bloccare la libera circolazione di capitali


Più volte abbiamo invocato una tassa sui patrimoni privarti, (che ammontano a più di 9.000 miliardi) per risolvere la crisi sanitaria e la successiva crisi economica determinata dal Coronavirus. Per rendere realizzabile questo proposito, però è necessario modificare il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea nell’articolo che vieta agli Stati di porre limiti al  trasferimento  di capitali privati. Infatti oggi, grazie alle regole di Maastricht,  con un semplice click si possono trasferire miliardi  dai propri conti bancari verso l’Olanda,il Lussemburgo e altri paradisi fiscali. Le conseguenze sono evidenti.  Ogni volta che il capitalismo italiano sente odore di patrimoniale, svuota le proprie casse e le alloca altrove . Ciò dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, come l’Unione Europea sia  un'Istituzione costruita semplicemente per permettere ai mercati finanziari di prosperare e fare affari sulla pelle del popolo. Altro che Europa dei Popoli.

 Di seguito un articolo tratto dal sito coniare rivolta che spiega bene quanto sopra descritto.

La giusta patrimoniale e i suoi nemici


Coniarerivolta.

Siamo ancora nel pieno della tempesta, con l’emergenza sanitaria che continua a mordere. Ma problemi almeno altrettanto drammatici sono all’orizzonte, poiché si apre una fase di crisi economica in cui serviranno tantissime risorse per finanziare le misure di sostegno al reddito, di supporto all’occupazione e di rilancio dell’economia necessarie ad evitare un disastro sociale. Una domanda sorge spontanea: come paghiamo il conto e chi lo deve pagare? Una delle possibilità ventilate è quella di un’imposta patrimoniale. Ma questa opzione è davvero possibile dentro il quadro istituzionale europeo? Cerchiamo di capirci qualcosa.
Un’imposta patrimoniale è una tassa che colpisce non il reddito delle persone, bensì la loro ricchezza accumulata. L’idea è quella di prendere i soldi lì dove stanno, nelle tasche dei ricchi, anziché sbattere il muso sul muro di gomma che le istituzioni europee hanno posto alla possibilità di ricorrere alla leva del debito. La patrimoniale viene dipinta come la soluzione ideale per risolvere una vera e propria emergenza, evitando di scontrarci con i problemi sistemici che ci impongono dall’alto la scarsità delle risorse: sfuggire al ricatto del debito evitando di contrarre debito, e andando a prendere quelle risorse, in tempi brevissimi, direttamente a casa dei ricchi, o meglio sul loro conto in banca. Un’opzione che avrebbe il doppio effetto positivo di supplire al fabbisogno finanziario necessario e, allo stesso tempo, praticare una redistribuzione delle risorse dall’alto al basso: un potente strumento di gettito fiscale immediato e, contemporaneamente, di giustizia sociale.
Purtroppo, i ricchi sono ricchi anche perché non si lasciano prendere così facilmente e, come ci insegna anche la storia recente del nostro Paesele imposte patrimoniali implementate fino ad oggi sono ricadute regolarmente sulla testa della classe lavoratrice. Proveremo a spiegare che ciò avverrebbe verosimilmente anche in questo frangente, e principalmente in virtù della particolare architettura istituzionale dell’Unione Europea. Insomma, come vedremo, l’idea della patrimoniale disegnata per colpire i ricchi si scontra con una cornice istituzionale che è stata costruita esattamente per mettere i ricchi al riparo da qualsiasi rivendicazione: se vogliamo promuovere una giusta patrimoniale, capace di redistribuire risorse dall’alto verso il basso, non possiamo esimerci dal chiamare in causa i massimi sistemi, cioè quei Trattati europei che appaiono oggi, nel dramma dell’epidemia, come una vera e propria camicia di forza imposta al corpo sociale.
Una giusta patrimoniale è un’imposta disegnata in modo da colpire i grandi patrimoni, perché opererebbe una redistribuzione del reddito, sottraendo risorse ai grandi proprietari e restituendole alla collettività attraverso opere e servizi pubblici, a partire dalla sanità.
La ricchezza netta presente in Italia ammonta a 9.300 miliardi di euro, circa quattro volte il debito pubblico del Paese. Questa ricchezza si può suddividere in due categorie principali: la ricchezza finanziaria, consistente in denaro depositato su conti correnti, azioni e obbligazioni, che ammonta a circa 4.300 miliardi di euro; e la ricchezza non finanziaria, essenzialmente patrimonio immobiliare, che rappresenta i restanti 5.000 miliardi. Per immaginare una giusta patrimoniale dobbiamo analizzare la distribuzione di questa ricchezza, perché vogliamo levare ai ricchi per dare ai poveri, e non possiamo permetterci di colpire quel briciolo di ricchezza diffusa tra la classe lavoratrice. Un recente Rapport Oxfam sulle disuguaglianze mette in luce un dato inequivocabile: il 10% più ricco della popolazione detiene più della metà di quella ricchezza. Questo significa che la ricchezza nel nostro Paese è pesantemente concentrata nelle tasche di una classe agiata, e dunque esiste un potenziale, circoscritto bersaglio di una giusta patrimoniale. La base imponibile di tale patrimoniale, cioè il patrimonio di questa classe agiata, ammonterebbe a circa 5.000 miliardi di euro. Concentriamoci, in quanto segue, sulla sola parte finanziaria di questa ricchezza, pari a circa 2.000 miliardi di euro tra denaro e titoli: si tratta di quella quota del patrimonio che è già liquida o è immediatamente liquidabile, e dunque è idonea a fornire una fonte di gettito fiscale immediato e certo. Al contrario, il coinvolgimento del patrimonio immobiliare appare molto più farraginoso, perché il valore degli immobili non è immediatamente aggredibile: non si può pagare l’imposta con il patrimonio stesso, e dunque può essere necessario prima liquidare, cioè vendere quel patrimonio, e questo potrebbe generare una serie di ricadute economiche negative, con la corsa alla svendita da parte dei grandi proprietari, lo scoppio di una bolla immobiliare che danneggerebbe anche i piccoli proprietari di prime case ed infine il rischio di una successiva maggiore concentrazione del patrimonio immobiliare (con le grandi banche pronte, passata la patrimoniale, a fare incetta di immobili svalutati, mentre le famiglie che hanno contratto un mutuo si troverebbero tra le mani una casa dal prezzo sensibilmente inferiore al valore del debito). Dunque, guardiamo a quei 2.000 miliardi di conti correnti e titoli di proprietà del 10% più ricco del Paese, che appaiono immediatamente aggredibili, e chiediamoci: come andarli a prendere?
Nel rispondere a questa domanda, ci renderemo conto che una giusta patrimoniale appare impraticabile dentro all’Unione europea, perché la libertà di movimento dei capitali, uno dei pilastri del processo di integrazione europea, consente alla grande maggioranza di quei patrimoni di sfuggire a qualsiasi tentativo di redistribuzione della ricchezza operato tramite la leva fiscale. L’impalcatura ideologica dell’Unione europea vuole che i capitali siano liberi di muoversi, poiché poggia sull’idea che solo il libero agire delle forze di mercato possa condurre alla migliore allocazione delle risorse, generando crescita e benessere. Dietro questa patina di teoria economica dominante si cela l’interesse del capitale a muoversi liberamente per cercare gli impieghi più profittevoli e fuggire qualsiasi forma di tassazione. Se dunque ci proponessimo di imporre una patrimoniale capace di colpire i più ricchi, saremmo praticamente certi di arrivare ai loro conti quando i buoi sono già usciti, diretti magari non verso località esotiche, ma verso i porti certi dei paradisi fiscali interni all’Unione europea quali il Lussemburgo, l’Olanda o l’Irlanda, Paesi che hanno incentrato il loro equilibrio economico sul continuo afflusso di capitali esteri attratti proprio dal trattamento favorevole garantito alle grandi ricchezze finanziarie.
Viviamo in un’epoca in cui basta un click per spostare milioni di euro da un capo all’altro del pianeta: una persona qualsiasi può, in pochi minuti, aprire un conto corrente in qualsiasi Paese del mondo e trasferirvi il proprio denaro. Tuttavia, ciò non basterebbe ad eludere l’imposta, dal momento che il fisco colpisce chiunque abbia la residenza fiscale in Italia: la persona qualsiasi di cui sopra si sarebbe liberata del malloppo senza modificare la base fiscale, procedura articolata e complessa che impone di fornire prove circa il trasferimento all’estero del proprio baricentro economico o sociale (lavoro, impresa, famiglia). Una strada davvero impervia per una persona qualsiasi, appunto, ma il problema è che noi non stiamo parlando di persone qualsiasi, bensì delle circa 2,5 milioni di famiglie più ricche d’Italia, che hanno – solo per la parte finanziaria, cioè pur escludendo oltre metà del loro patrimonio, costituito da beni immobili – una media di 800.000 euro tra conti correnti e titoli azionari e obbligazionari (dati Banca d’Italia). Bene, a meno di credere che queste persone abbiano vinto tutte la lotteria, o abbiano accumulato pian piano questi risparmi con umili lavoretti – cioè a meno di credere alle favolette borghesi che le classi agiate amano raccontare – è del tutto evidente che stiamo parlando, per la grande maggioranza, di persone radicate nel mondo degli affari, e dunque già abbondantemente inserite in una fitta rete di società estereholdings e altre complesse forme di schermatura del patrimonio che sono l’ecosistema naturale delle grandi ricchezze. Anche assumendo che una piccola parte di queste famiglie danarose sia rappresentata da risparmiatori particolarmente ‘fortunati’ e poco avvezzi a manovre finanziarie, e non quindi da speculatori e squali pronti a sguazzare alla ricerca di paradisi fiscali, non si tratterà in generale di persone qualsiasi. A loro basterà davvero un click per trasferire fondi da uno dei loro conti, aperto in Italia, ad una società lussemburghese a loro collegata. Giusto per fare un esempio, la cassaforte della famiglia Agnelli è una società olandese denominata Giovanni Agnelli BV, una scatola (asset mangement company) che controlla la holding Exor, che a sua volta controlla FCA, Ferrari e decine di altre imprese e fondi di investimento, anch’essi ramificati in nodi societari distribuiti in Europa e nel mondo. Non appena si profilasse all’orizzonte l’ipotesi di un’imposta patrimoniale, pensate che gli Agnelli in persona dovranno mettersi a spostare la loro residenza fiscale altrove? Evidentemente no, gli basterà muovere le loro ricchezze da una scatola societaria all’altra in modo da eludere l’imposizione fiscale.
Insomma, i veri ricchi non hanno bisogno di imbarcarsi su un cargo battente bandiera liberiana per sfuggire al fisco: il loro capitale ha già una rete di conti e società più o meno fittizie su cui muoversi alla velocità di un click per eludere qualsiasi tipo di imposizione patrimoniale. Pertanto, la stragrande maggioranza di quelli che vorremmo raggiungere con la giusta patrimoniale e che si trovano al di sopra della parte più bassa della piramide dei ricchi sono esattamente gli unici ad avere i mezzi necessari a schivare il colpo. La loro ricchezza, cioè proprio l’obiettivo su cui è puntata l’imposta, è essa stessa la chiave per eludere il fisco senza alcun ostacolo. Si tratta di una chiave capace di aprire tutte le porte?
La risposta a questa domanda chiama in causa il contesto entro cui è organizzata la nostra economia. Infatti, la possibilità di eludere l’imposta patrimoniale dipende in maniera cruciale dall’assenza di qualsiasi limite al movimento dei capitali. I ricchi avranno pure la loro rete di conti esteri, ma la possibilità di portare il denaro fuori dall’Italia verso una di quelle destinazioni dipende dalla cornice di libera circolazione dei capitali che è stata definitivamente sancita, nel nostro Paese, con il Trattato di Maastricht (1992), dopo un percorso già definito e avviato all’inizio degli anni ’80.
Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) fornisce la disciplina di dettaglio, e prevede esplicitamente, all’art. 63, il divieto di qualsiasi restrizione alla libera circolazione dei capitali e ai pagamenti internazionali, una regola accompagnata da alcune eccezioni specificate nel successivo art. 65. Proviamo a capire se tali eccezioni forniscono agli stati strumenti utili ad impedire che i grandi patrimoni sfuggano ad un’imposta patrimoniale.
La prima deroga alla libera circolazione dei capitali è prevista al comma 1, lettera a), laddove si consente agli Stati membri “di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale”. Partiamo male, insomma, perché questa norma serve esattamente agli scopi opposti rispetto a quelli che ci interessano: garantisce infatti “agli Stati membri la possibilità di praticare una tassazione agevolata per i non residenti al fine di favorire l’afflusso nei loro territori di capitali provenienti dall’estero”. In pratica, la norma stabilisce la legittimità dei regimi fiscali agevolati per non residenti che hanno garantito a Paesi come il Regno Unito, l’Irlanda e l’Olanda ingenti flussi di capitali esteri.
La seconda deroga è contenuta, sempre al comma 1 dell’art. 65 del TFUE, nella successiva lettera b), e ci dice che sono consentite “tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”. Sono individuate dunque due distinte fattispecie entro cui appare possibile bloccare il movimento dei capitali: i casi di “violazione” di leggi nazionali – e qui si cita esplicitamente il settore fiscale – ed i casi in cui venga compromesso l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza.
Il primo caso, nonostante le apparenze, non ci aiuta in alcun modo, perché colpisce solamente quei movimenti di capitale operati per violare la normativa fiscale, cioè per evadere le tasse. Vale qui la pena ricordare quale sia la distinzione tra evasione ed elusione fiscale: sono entrambi metodi per sfuggire al fisco, ma mentre l’evasione passa per la violazione delle leggi, l’elusione si muove sul crinale della legalità, consistendo in tutte quelle manovre che sfruttano le pieghe della legge per sottrarre base imponibile al fisco. Ecco, i Trattati europei ci dicono che possiamo fermare i capitali che stanno fuggendo dopo essere stati dichiarati base imponibile, cioè dopo essere stati oggetto di un’obbligazione a pagare. Ma la stragrande maggioranza dei nostri ricchi, veri gentleman che non vogliono certo sporcarsi la reputazione, si muovono più che agevolmente dentro alle regole, e hanno tutti gli strumenti per spostare il denaro in maniera perfettamente legittima e ben prima che arrivi la cartella del fisco. I grandi patrimoni finanziari tagliano la corda non appena sentono l’odore di una patrimoniale in lontananza. Si pensi che tra il giugno 2011 e il giungo 2012, cioè quando l’Italia fu investita dalla crisi del debito pubblico che portò al Governo tecnico presieduto da Mario Monti, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato un deflusso di capitali dall’Italia pari a circa il 15% del Pil, circa 235 miliardi di euro: non si trattava certo di un governo socialista, ma bastarono un dibattito su una Mini-Patrimoniale pari all’1 per mille della ricchezza finanziaria e sentori di instabilità finanziaria per dare il via alla fuga. Immaginatevi cosa potrebbe accadere se si parlasse dell’1 per cento, o addirittura di un’aliquota più alta, quale quella che ci piacerebbe poter introdurre per operare un po’ di sana redistribuzione dei redditi.
Per questo, i movimenti di capitali che vorremmo bloccare noi non rientrano nella prima fattispecie del comma 1, lettera b) dell’art. 65 del TFUE, ma si muovono agevolmente dentro al quadro normativo europeo, anche perché spesso e volentieri assumono la veste di investimenti diretti esteri (IDE). Questi sono investimenti volti all’acquisizione di partecipazioni ‘durevoli’ (di controllo) in un’impresa estera o alla costituzione di una filiale all’estero, che comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita. Nella maggior parte dei casi, gli IDE sono destinati alla costituzione di holding companies nei paradisi fiscali: nessun investimento in una reale attività industriale, ma mere scappatoie per i patrimoni in fuga dal fisco. Prendiamo un dato che vale più di mille parole: le statistiche di Banca d’Italia mostrano come Lussemburgo, Olanda e Regno Unito siano le mete preferite dei capitali in uscita dal nostro Paese. Nel 2018 lo stock di investimenti diretti era pari a 48 miliardi verso il Lussemburgo, 73 miliardi verso l’Olanda contro soltanto 32 miliardi diretti negli Stati Uniti. Pensate forse che il Lussemburgo o l’Olanda abbiano una struttura produttiva capace di attrarre più investimenti produttivi degli Stati Uniti? Ovviamente, dietro agli IDE si celano meri trasferimenti di fondi, tutt’altro che investimenti produttivi: le autostrade create dall’Unione europea per far viaggiare i capitali in libertà hanno molte corsie e non ammettono ostacoli agli interessi dei più ricchi.
Per quanto riguarda l’ultima deroga, si parla dei casi in cui sia compromessa la pubblica sicurezza o l’ordine pubblico. Si tratta di una fattispecie creata per arginare i movimenti di denaro delle organizzazioni terroristiche e criminali, oppure per tutelare la stabilità finanziaria di un Paese (e dunque dell’intera Unione monetaria, in virtù delle forti interconnessioni tra le economie), come è avvenuto nei casi di Grecia e Cipro. Nulla che possa favorire l’applicazione di una giusta patrimoniale.
In sintesi, i capitali in fuga dalla patrimoniale non starebbero violando alcuna legge, né starebbero compromettendo l’ordine pubblico o la sicurezza pubblica, e quindi avrebbero – come sempre è avvenuto – il semaforo verde da parte delle istituzioni europee.
Eccoci giunti alla conclusione che, purtroppo, nessuna patrimoniale giusta, come nessuna forma di sostanziale redistribuzione, è possibile nel contesto di libera circolazione dei capitali imposto dai Trattati europei. Tornando all’oggi, promuovere l’introduzione di un’imposta patrimoniale per raccogliere le risorse necessarie e fronteggiare l’epidemia è un nobile segnale del desiderio di provare ad invertire una tendenza che vede la ricchezza concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi. Rischia, tuttavia, di essere poco più che una lodevole enunciazione di principi, a causa dell’architettura istituzionale dell’Unione europea: se opportunamente disegnata in modo tale da colpire solo i ricchi, l’imposta finirebbe per raccogliere poco o nulla a fronte di una rapida ma ordinata fuga dei capitali. Per questa ragione, è altamente probabile che si opti per una patrimoniale ben diversa da quella che sogniamo, e cioè per la solita patrimoniale che ricade sulla testa dei lavoratori, sulla quota di ricchezza diffusa tra i piccoli e piccolissimi risparmiatori, quelli che non hanno i mezzi per eludere il fisco. Lavoratori e pensionati che pagano il conto della crisi: è la ricetta dei nostri nemici, non ci stupiamo se il PD la mette sul tavolo, ma evitiamo di portare acqua a quel mulino.
La lotta per una patrimoniale giusta è una necessità, un dovere politico. Per poter condurre questa lotta in maniera coerente e non solo testimoniale, siamo però costretti a muoverci oltre i confini del possibile che ci sono imposti dall’Unione europea. Siamo costretti a mettere in discussione i Trattati, la libera circolazione del capitale e tutti i vincoli che impediscono ai lavoratori di ambire ad una vita migliore.