Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 7 aprile 2018

Scompare a 89 anni il pianista Cecil Taylor. Ciao vecchio amico marxista, ci mancherai

Luciano Granieri 




Noo… I’m marxist”, rispose un  tizio che suonava il piano,  nella  sua prima apparizione italiana al festival jazz di Bologna,  a chi gli domandava se appartenesse al Black Panther Party o ai Black Muslims. Era il 1968 e quel rutilante pianista era Cecil Taylor. Ma perché i giornalisti erano così interessati alle opinioni politiche di un jazzista, forse ancora di più che alla sua musica? Perché si era nel 1968, un  periodo - il cui cinquantennale viene ricordato in questi mesi  con diverse iniziative - nel quale   tutto era politica, e perché stiamo parlando di Cecil Taylor, una delle icone   più significative del panorama free insieme ad Ornette Coleman ed Archie Shepp. Ma  soprattutto uno dei musicisti più politicizzati dell’intero panorama jazzistico mondiale . 

Ironia della sorte a cinquant’anni dal suo esordio in  Italia, proprio nel 1968,  il pianista newyorkese è venuto a mancare.  E’ morto giovedì scorso  all’età di 89 anni nella sua casa di New York.  Era figlio di un domestico nero occupato come  cameriere  in una ricca casa di Long Island, il nonno era pellerossa, così come di origine americano-indiana erano la nonna e la mamma che gli trasmise la passione per le arti in genere e in particolare per la musica. Il sangue misto, africano/pellerossa, lo ha di fatto predestinato ad esprimere, artisticamente e politicamente, il disagio e la rabbia della gente discriminata e vessata non solo per ragioni razziali, ma anche per differenza di censo.  Un marxista a tutto tondo inserito nella difficile questione dei diritti civili. 

Ma la particolarità e la genialità di Taylor nasce innanzitutto dalla sua singolare evoluzione musicale. Da un lato ci sono gli studi classici, iniziati privatamente con un professore dell’orchestra sinfonica dell’Nbc, poi proseguiti al New England Conservatory, c’è l’amore per Bartok e Stravinsky. Dall’altro irrompe la fascinazione  per le percussioni ed in particolare per i batteristi Gene Krupa e Chuck Webb. Lo stile pianistico che ne deriva è   percussivo,incalzante , il pianoforte pare un grosso tamburo parlante, ma al contempo propone delle concezioni armoniche raffinate scaturite dalla profonda conoscenza di Schonberg  e Milhaud. Uno stile, determinato dal pianismo europeo moderno e dal beat di grandi batteristi, inserito nella voglia di sperimentare tipica del free jazz, rendono il linguaggio di Taylor veramente unico. 

Nel  1958 è già nel quartetto di Steve Lacy a suonare musica sperimentale,  due anni più tardi, nel 1960, collabora col suo amico, marxista anche lui, Archie Shepp  e John Coltrane. Ma l’evoluzione di Taylor è senza soste. Sia che suoni in gruppo, da solo, in duo con Max Roach, in trio, ad esempio con Jimmy Lyon e Sunny Murray, l’originalità del suo “Tamburo Parlante” tracima in modo irrefrenabile, fino a conquistare l’Europa e  l’Italia la cui frequentazione, come abbiamo visto, comincia nel fatidico 1968 ma prosegue con gli album registrati per la Soul Note  e la collaborazione con l’Italian Instabile Orchestra  attraverso l’incisione  “The Owner of a River Bank “. 

 Come è noto, il free jazz, non ebbe la capacità di diffondere appieno  il proprio messaggio rivoluzionario in America. Da un lato osteggiato dal mercato, dall’altro giudicato forse troppo intellettuale, a volte incomprensibile,  per i neri del ghetto, per cui Taylor, come altri protagonisti  del free,  nonostante avesse suonato ed inciso con i più grandi  jazzisti americani, ebbe il suo maggior successo in Europa.  

La voglia di cambiare, di sperimentare, di rivoluzionare  lo portò  ad interessarsi, oltre alla musica,  di danza, di recitazione, di tutto ciò che è arte, ma lo spinse anche  ad occuparsi di politica, travalicando la dimensione insita nella lotta dei diritti civili per la sua gente,  per collocarsi   in un area molto più vasta.  Una visione che lo convinse della necessità  di  rovesciare una società globale  piena di storture secolari. 

Nella stessa intervista di Bologna,  sopra richiamata, commentando una manifestazione organizzata dai Francesi contro la guerra in Vietnam Taylor disse: “Ma come fanno i francesi a giustificare le loro manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tenendo conto del loro atteggiamento , della loro condotta in Algeria, e quando essi sono fra i maggiori fornitori di armi al governo razzista dell’Africa del Sud?”.  

Tutto sommato però, pur impegnato ad estendere  la lotta degli oppressi neri, a tutti gli oppressi del mondo vittime dell’imperialismo e del capitalismo , pur possedendo una visione marxista della società, pur avendo assimilato il linguaggio della musica colta europea, l’origine dalla sua  lotta  proveniva dal ghetto. in  un’intervista rilasciata nel 1966   disse:” Io ho imparato di più nel ghetto che al conservatorio  , nella società americana io sono un uomo “invisibile” così come invisibile era Ellington ai  tempi di Gershwin”   Una dichiarazione inequivocabile sulla ragione per cui aveva cominciato a battersi per una società più giusta. 

Un impegno e una lotta portata avanti con le armi della cultura, della musica. Ciao dannato vecchio marxista, ci mancherai.

good vibrations

venerdì 6 aprile 2018

Chi ci guadagna dal mantenere Gaza sul baratro di una catastrofe umanitaria?

Shir Hever *


Mantenere Gaza sull’orlo del collasso fa sì che l’aiuto umanitario internazionale continui a fluire esattamente dove fa comodo agli interessi israeliani

La striscia di Gaza è sull’orlo di una crisi umanitaria. Vi suona familiare? Abbiamo sentito parlare di continuo dell’imminente collasso del sistema dell’acqua potabile, delle fogne, della salute e dell’elettricità di Gaza almeno dallo scoppio della Seconda Intifada, 18 anni fa.
Nel loro libro The One State Condition Ariella Azoulay e Adi Ophin cercano di dare una risposta alla domanda: che interesse ha Israele a mantenere Gaza sull’orlo del collasso? La loro risposta rimane valida pure 15 anni dopo: mantenere i palestinesi perpetuamente sull’orlo del baratro è una prova della vittoria finale di Israele. I palestinesi non possono prendere in mano le proprie vite, poiché Israele può sottrargliele in ogni momento. Questa è la base della chiara relazione di dominio sui palestinesi.
Ma anche se la risposta è vera, non è sufficiente. C’è anche una risposta economica. Finché Gaza rimane sull’orlo del collasso, i donatori internazionali mantengono il flusso di denaro tipico  dell’aiuto umanitario. Se la crisi finisse e l’assedio fosse tolto, si può assumere che i donatori internazionali cambierebbero il tipo di aiuto offerto il quale  si trasformerebbe da umanitario a funzionale allo  sviluppo dell’economia di Gaza (come fecero dal 1994 al 2000, fino allo scoppio della seconda intifada). Questo quadro di cooperazione porterebbe l'economia  della striscia  a   competere  con diversi  settori delle imprese israeliane e pertanto minaccerebbe l’economia israeliana. Mantenere Gaza sull’orlo del collasso fa si che il flusso monetario di aiuto umanitario internazionale scorra esattamente dove beneficia gli interessi israeliani.
Alla luce del crescente rafforzamento della destra populista che raffigura i palestinesi come nemici totali dello stato di Israele, dobbiamo chiederci perché il governo israeliano abbia rifiutato la sua seconda opportunità di fuoriuscire “dall’orlo del baratro” – cioè determinare una crisi umanitaria peggiore e causare morti in massa a Gaza e in generale nei territori occupati. Nonostante l’odio che si acutizza sempre più contro i palestinesi, il governo israeliano ha chiaramente agito per evitare questo tipo di scenario, permettendo la consegna di medicine e di macchine di desalinizzazione (finanziate da aiuti internazionali) al fine di evitare morìe di massa a Gaza. Ma perché?
Nonostante numerose proteste dal lato palestinese, gli Accordi di Parigi siglati nel 1994 continuano a costituire il quadro delle principali regolamentazioni economiche tra Israele e l’Autorità palestinese, includendo la Striscia di Gaza. Israele controlla il regime doganale, e perciò non ci sono dazi su beni importati da Israele per i  territori occupati, mentre ce ne sono sui beni importati dall’estero.
Alle organizzazioni umanitarie internazionali viene richiesto di dare aiuto nel modo più efficiente possibile. Devono comprare il cibo più economico disponibile per aiutare il più alto numero possibile di persone con il loro budget. Anche se il cibo è più economico in Giordania ed Egitto, il cibo importato da Giordania e Egitto nei territori occupati palestinesi è tassato. Le tasse, in linea principio, vanno nelle casse della Autorità palestinese, ma questa non può essere una considerazione da tenere in conto per le organizzazioni umanitarie. Al contrario a queste viene richiesto di acquistare la maggior parte dei beni che distribuiscono da imprese israeliane, a meno che importarle da un altro paese, inclusi i dazi doganali, sia ancora più economico del prezzo in Israele.
In aggiunta, le regole di sicurezza israeliane richiedono alle organizzazioni umanitarie di usare imprese di trasporto e veicoli israeliani, poiché alle imprese palestinesi non è concesso entrare in Israele a prendere i beni dagli aeroporti o dai porti. Ancora più significativo è il fatto che i palestinesi non hanno una propria moneta né una banca centrale: il supporto finanziario deve essere dato in Shekel israeliani. La moneta straniera rimane nella Banca di Israele e le banche commerciali israeliane ne approfittano con numerosi ricarichi nel corso delle transazioni.
Nei fatti questo significa che Israele esporta l’occupazione: fino a che la comunità internazionale é disponibile a contribuire finanziariamente per evitare una crisi umanitaria a Gaza, le imprese israeliane continueranno a fornire beni e servizi e ricevere in cambio pagamenti in moneta straniera.
In uno studio che ho condotto per l’organizzazione palestinese Aid Watch nel 2015, ho osservato la correlazione tra l’aiuto internazionale, da un lato, e il deficit in commercio di beni e servizi tra le economie israeliana e palestinese dall’altro. I dati per lo studio vanno dal 2000 al 2013. Ho trovato che il 78 per cento dell’aiuto ai palestinesi trova la sua strada verso l’economia israeliana. Questa è una cifra approssimativa, di sicuro. Dobbiamo ricordare che non è semplicemente un profitto pulito per le imprese israeliane ma una entrata. Le imprese israeliane hanno bisogno di offrire beni e servizi per i soldi e si fanno carico dei costi di produzione.
Alla luce di queste statistiche, è facile capire il gap tra le dichiarazioni populiste del governo contro i palestinesi e i passi che vengono fatti in modo consistente per aumentare l’aiuto internazionale ai palestinesi.
Durante un incontro di emergenza dei paesi donatori a gennaio, il ministro della cooperazione regionale Tzahi Hanegbi ha presentato un piano da milioni di dollari per ricostruire la striscia di Gaza- finanziato dall’estero, ovviamente. Il piano del ministro dei trasporti Yisrael Katz’s di costruire un isola artificiale a largo della costa di Gaza parimenti ha suggerito che i finanziatori stranieri si assumano parte del costo dell’occupazione, portando cash straniero nelle casse israeliane, e, al tempo stesso, evitando che la situazione a Gaza si deteriori fino a un punto di non ritorno.
Il quadro qui presentato non è nuovo. È chiaro agli stati contribuenti, alle organizzazioni internazionali di aiuto umanitario, all’esercito israeliano e al governo israeliano. Ovviamente è chiaro pure ai palestinesi, che hanno bisogno di aiuti ma che capiscono che questo rende il lavoro dell’occupazione più facile per le autorità israeliane.
Comunque c’è anche un serio problema in questo quadro. Presuppone l’esistenza di uno stato chiamato “l’orlo del baratro” della crisi umanitaria e genera infinite discussioni sul fatto che lo stato attuale costituisca una crisi o no. Ma quando esattamente la situazione economica a Gaza costituirà una crisi umanitaria? Quante persone devono morire prima che l’assedio sia levato per evitare di raggiungere quel punto, oltre il quale masse di persone affamate, malattie e disintegrazione del tessuto sociale non si potranno fermare?
La più importante iniziativa recente di aiuto per superare questa situazione è quella della flottilla. Le flottilla hanno portato aiuto ai palestinesi in coordinamento con le richieste specifiche degli abitanti di Gaza, per beni ai quali non è concesso di passare la frontiera di Kerem Shalom. Senza usare la moneta israeliana e senza pagare tasse al tesoro israeliano, le navi hanno cercato di portare aiuto direttamente, senza mediazioni. Non ci sorprende che la risposta israeliana è stata violenta – l’esercito ha ucciso 9 attivisti sulla nave Mavi Marmara nel maggio 2010.
Ma cosa farebbe il governo israeliano se le maggiori agenzia di aiuto adottassero una simile modalità di azione per dare ai palestinesi aiuti diretti, senza usare imprese israeliane e senza pagare tasse alle autorità israeliane? La strategia dimostrerebbe l’interesse economico che Israele ha nel mantenere Gaza “sull’orlo baratro” e forzerebbe il governo israeliano a scegliere: prendere direttamente il controllo delle vite dei palestinesi e pagare il costo correlato, o permettere alle agenzie internazionali di offrire aiuto nelle condizioni che possono scegliere i palestinesi: aiutandoli a venire fuori dalla crisi. Questo non cancellerebbe la responsabilità Israeliana per i palestinesi – come è definita dal diritto internazionale – ma eliminerebbe l’incentivo finanziario a mantenere l’occupazione e l’assedio di Gaza.

*Shir Hever è un economista e giornalista israeliano, Tra i suoi libri ricordiamo The Political Economy of Israeli occupation,  2010, e The Privatization of Israeli Security, 2017.  Purtroppo i suoi libri non sono mai stati tradotti in italiano.
L’articolo è stato pubblicato per +972mag.com
Traduzione a cura di DINAMOpress

giovedì 5 aprile 2018

Al ritorno, all'Olimpico tre glieli famo sicuro.

Luciano Granieri marxista romanista




Discee…dopo la sveja ar Camp Nou, dovemo gioca’ caa’ Fiorentina, dovemo fa’ er ritorno cor Barcellona e poi er derby co’ quell’artri.  Ce sta in ballo er terzo posto.  Quarcuno  dovemo fa’ riposa’.S'ha dda fa’  er turn over. Co chi o’ famo?  Sarebbe da fa’cor Barcellona, dopo er 4 quattro a uno la coppa è annata. Così  se sente dì  in giro. Ma io dico come cor Barcellona?  Ma che semo matti! So sicuro  che tre go’ all’Olimpico glieli famo,  co’ tutta la squadra ar completo tre glieli famo…….Nun so’ quanti ce ne fanno loro , ma sicuro tre gleli famo.  

O vedi a’ differenza col borghese juventino?  Loro se li piji pe’ culo su’ a' cempion se’ncazzano, noi ce ridemo e se pijamo pe’ culo da soli. Certo però che si  quer   fregnone de arbitro olandese c’avesse dato i du’ rigori, che ce stavano, mo’ stavamo a fa’ artri discorsi.  Ma che ce voi fa, stamo in Europa, l’Europa dell’UEFA, della Bce, dell’euro…..Mo' che cazzo c’entra l’euro e la Bce? C’entra e qui finisce di parlare il romanista e comincia il marxista. 

Mi chiedo: perché  l’UEFA  non adotta il Var  e la prova TV?  Eppure la stessa  FIFA  nei prossimi mondiali, introdurrà la video tecnologia. Probabilmente con il Var non solo avremmo ottenuto il rigore su Dzeko, ma anche l’espulsione di  Semedo, autore di un fallo da ultimo uomo. Probabilmente avremmo perso ugualmente, ma dopo 10 minuti, uno a zero per noi , dieci contro undici forse la partita cambia. Senza contare come lo stesso Var, avrebbe documentato che il fallo subito da Pellegrini, da parte di Umtitì era dentro l’area per cui la punizione dal limite si sarebbe trasformata in rigore. 

Ma perché la UEFA, l’organismo europeo di gestione del calcio, non vuole il Var?  Eppure servirebbe ,perché come ha detto Dzeko a fine gara, arbitri alla prima direzione di una partita importante al Camp  Nou, sono talmente  condizionati dal blasone del Barcellona e dalla pressione della tifoseria , che difficilmente hanno il coraggio di prendere  decisioni importanti contro i blau grana. Con il Var questa inconscia sudditanza troverebbe rimedio. Allora, ripeto la domanda,  perché l’UEFA non adotta il Var? 

Perché come tutte le istituzioni europee (UE-BCE) anche l’UEFA, favorisce chi  ha più possibilità di assicurare introiti economici, chi è in grado di attirare maggiori capitali, quindi la sudditanza arbitrale serve a scongiurare sorprese per cui una Rometta qualsiasi, impedisca alla potenza Barcellona di accedere alla semifinali di Champions.  Da quando è entrato in vigore il fair play finanziario -altro artificio per cui, in teoria, non è consentito alle squadre di spendere più di quanto guadagnano, ma in realtà la diversificazione degli introiti stravolge  le virtuose finalità del sistema - i team  più ricchi diventano  ancora più ricchi  e quelli meno dotati finanziariamente s’impoveriscono ulteriormente .   

Preciso uguale al principio dell’austerity che, con la scusa dei pareggio di  bilancio, favorisce l’accaparramento di beni e servizi pubblici  da parti di una comunità finanziaria sempre più ricca, assicura un aumento della potenza economica di Paesi già iper ricchi, come, ad esempio la Germania,  costringendo gli altri a campare con l’elemosina della BCE condizionata alla macelleria sociale imposta dalla UE. 

Allora allo slogan, fuori dall’Europa, fuori dall’euro io aggiungo fuori dall’UEFA. Comunque ar Barcellona, all’Olimpico, tre glieli  famo sicuro, nun so’ quanti ce ne fanno loro ma noi tre gleli  famo.


martedì 3 aprile 2018

Come nascondere un massacro?

Fonte: Dinamo Press. video a cura di Luciano Granieri


Media internazionali e nazionali hanno raccontato in modo vergognoso, parziale e profondamente scorretto quanto accaduto   a Gaza venerdì scorso . Ma i fatti e le immagini parlano più di qualunque menzogna.
La popolazione palestinese è stata abituata negli anni alla disinformazione per quanto riguarda la narrazione dominante rispetto alle proprie vicende.
Quanto accaduto il 30 marzo , nel primo giorno della Great Return March ha ampiamente superato il limite della vergogna e della decenza e non solo in Italia.
I fatti sono abbastanza espliciti ed inequivocabili, quasi 20.000 persone si sono avvicinate alla barriera tra la Striscia e Israele a partire da sei accampamenti lungo il perimetro, invadendo quella buffer zone, o zona cuscinetto che percorre tutta la frontiera, permanentemente interdetta alla coltivazione e all’accesso. A parte un singolo isolato caso di due militanti della Jihad islamica che erano armati (e sono stati subito uccisi dall’esercito israeliano) tutti i manifestanti hanno utilizzato esclusivamente modalità di protesta popolari e nonviolente,avvicinandosi al muro di separazione disarmati, a volto scoperto, assieme a bambini e donne.
La repressione si è trasformata in un vero e proprio massacro, si parla ad oggi di 17 morti e più di mille feriti. Hamas, pure ovviamente presente durante la marcia, non ha avuto un ruolo centrale: questa è stata convocata da una larga coalizione che include anche tutti i pezzi laici e di sinistra della società civile palestinese. Non a caso, parti della sinistra israeliana si sono organizzate nei giorni scorsi per manifestare il proprio supporto dall’altra parte del muro. Nessun soldato israeliano è stato ferito nella giornata di ieri.
Vediamo cosa riportano i giornali.  Repubblica parla di «violenti scontri» «violentissima battaglia». Perché un massacro di persone disarmate diventa improvvisamente una battaglia? Una battaglia linguisticamente parlando è un confronto tra due entità armate.  La Stampa titola «Hamas sposta le masse al confine e punta al ritorno dei profughi del 1948» mentre l’articolo è ancora peggiore: «La strategia adottata da Hamas ha messo in difficoltà Israele e costretto i suoi militari nella difficile posizione di chi deve sparare sui civili. L’esercito se lo aspettava, perché i preparativi andavano avanti da giorni, ma non era facile trovare contromisure».  Del resto, cosa altro si può fare davanti a migliaia di persone disarmate che vanno verso un confine invalicabile, se non sparare?
Il Corriere  riporta «La “Marcia del ritorno” finisce in un bagno di sangue: l’esercito ebraico risponde con caccia e blindati all’attacco dei manifestanti: bombardati 3 siti di Hamas». A quale attacco si risponde con caccia e blindati? A quello di migliaia di persone disarmate?
Il Messaggero si unisce alla definizione «scontri al confine» e riporta un articolo in cui sono virgolettati solo comunicati dell’esercito israeliano e di media israeliani, i palestinesi non meritano neanche il microfono, strana deontologia professionale.
Anche a livello internazionale la giornata è stata riportata in modo non meno grave, come Mondoweiss sottolineariportando la lettura estremamente parziale e ingiusta dello stesso New York Times.
Venerdì 30 marzo la popolazione di Gaza ha dimostrato coraggio e capacità di mobilitazione impensabili dopo anni di prigionia dentro la Striscia dove le condizioni di vita sono impossibili, come ha raccontato recentemente Dinamo.
Per ricordare chi ieri è stato ucciso, per sostenere chi ha creduto nella Great Return March e continuerà a crederci nei prossimi giorni, pubblichiamo questa video clip (composta da foto e filmati tratti da vari siti indipendenti tra cui +92mag.com

E' corretta la tariffa che Alatri paga alla Saf?

Ufficio stampa del Deputato Luca Frusone M5S



Tra lampioni spenti e predissesto finanziario il Comune di Alatri non sta vivendo uno dei suoi migliori momenti. Uno dei grandi punti di discussione dei prossimi mesi sarà il rinnovo del contratto per il servizio di raccolta dei rifiuti. Al momento tutto è fermo per via di un ricorso della De Vizia, la società uscente ma sicuramente dovranno esserci nuove condizioni e si parla già di un contratto più oneroso. Tutte queste preoccupazioni hanno allertato il Movimento 5 Stelle di Alatri che sta seguendo il discorso della tariffazione della Saf, l’impianto dove il Comune di Alatri manda i rifiuti indifferenziati e l’umido. “Alcuni Comuni si stanno attivando per analizzare meglio la tariffa della Saf. Pare ci siano state delle voci non dovute relative ai benefit ambientali. Questa possibilità apre ad una richiesta risarcitoria del Comune verso la Saf che potrebbe portare nelle casse dell’ente molti soldi” questo è il primo commento dei pentastellati di Alatri, che proseguono spiegando che “tali risorse, se possibile recuperarle, potrebbero essere messe a disposizione per coprire gli esuberi di personale che si è occupato della raccolta dei rifiuti fino ad oggi, ma al di là di questo aspetto il Comune ha il dovere di capire se la tariffa sia stata gonfiata perché è una componente fondamentale del prossimo contratto dei rifiuti”. Anche il Deputato Frusone prende la parola sull’argomento con un discorso di lungo termine “Il Comune di Frosinone chiede indietro oltre un milione di euro, se queste pretese sono fondate il Comune di Alatri potrebbe vantare un credito di centinaia di migliaia di euro. Sarebbe l’occasione giusta per creare un impianto di compostaggio comunale come dicevamo in campagna elettorale: creerebbe posti di lavoro, abbasserebbe la tari a tutti i cittadini e sarebbe anche una risposta al problema dei roghi di frasche che fanno alzare il livello delle polveri settili nel nostro Comune. Serve qualcosa per risollevare Alatri e puntare ad un progetto così ambizioso potrebbe essere il primo passo”.

lunedì 2 aprile 2018

Come gli Stati Uniti utilizzarono il jazz alla stregua di arma segreta durante la guerra fredda

Billy Perrigo 
fonte : Time.com, traduzione Luciano Granieri


Circa 60 anni fa,  nella frizzante aria  di una primavera appena iniziata del  1958, un giovane ragazzo proveniente dalla California, avanzava spaesato lungo le vie di Varsavia. Rabbrividì: sembrava ancora inverno, e la neve congelava i buchi dei proiettili che disseminavano come grani di pepe i palazzi della città, una tetra testimonianza del fatto che la seconda guerra mondiale era finita da solo poco più di dieci anni. La Polonia era nella sfera d’influenza della Russia e Darius si trovava li come membro di una missione orchestrata  dal Dipartimento di Stato  Americano. Il suo scopo:  far guadagnare visibilità alla cultura americana   presso le culture straniere senza causare altri guai.

Darius Brubeck, a sinistra, giovane ragazzo in tour con suo padre nel 1958. Era accompagnato da sua madre,Mike e l'impresario di jazz Ronnie Scott.


Era  un nuovo esperimento   che veniva definito come “diplomazia culturale” Da tempo Darius si occupava di questo incarico perché  suo padre,  il famoso pianista Dave Brubeck, era stato un ambasciatore del jazz.

Il Dipartimento di Stato sperava  che, promuovendo la popolare musica americana in giro per il mondo,   non solo questa   avrebbe suscitato attenzione da parte del pubblico  verso la cultura americana, ma avrebbe potuto conquistare alleati ideologicamente schierati nella guerra fredda.  I dodici concerti del quartetto di Brubeck  in Polonia furono solo i primi  di un lungo tour che non sarebbe arrivato non molto lontano dal perimetro dell’Unione Sovitica. Attraversò l’Europa dell’est, il Medio Oriente , L’Asia Centrale ed il subcontinente indiano.  Nuovi  tours  avrebbero permesso ad altre leggende del jazz come Louis Armostrong e Dizzy Gillespie  di diffondere, attraverso la loro maestria nel suonare la tromba, i valori americani negli stati di recente decolonizzazione in Africa ed Asia.  Lo scopo era sempre lo stesso, tenere le derive comuniste sotto controllo  ovunque fosse stato possibile.

In  Polonia il pubblico era abituato a espressioni più formali imposte dalla cultura sovietica:  come il balletto  l’opera .  Le prime tracce di jazz fiorirono nel Paese a partir dagli anni ’30, ma dopo l’occupazione sovietica successiva alla  fine della guerra,  le trasmissioni  di jazz per radio furono  proibite, un’ espressione musicale bollata come inferiore alle alte arti che il governo aveva supportato. Un microcosmo  underground, resisteva alla repressione . Alcuni  si sintonizzavano, quando potevano,  su “Jazz Hour”una trasmissione radiofonica diffusa dall’emittente ad onde corte “Voice of America” .  I concerti di Brubeck, i primi tenuti da una jazz band oltre la cortina di ferro, costituirono  veramente una rara opportunità per i Polacchi di sentire del jazz suonato dal vivo.

Il risultato del primo concerto di Brubeck, tenutosi a Szczecin al confine fra Polonia e Germania est fu estatico. “Fu confortante e disarmante allo stesso tempo” ha dichiarato al Time Darius Bruebeck oggi settantenne. “Tutta la nostra era di propaganda e demonizzazione evaporò subito in pochi secondi”.

Suo padre, che rimase commosso dall’entusiasmo dei jazz fan polacchi, avrebbe voluto che più  spesso la gente avesse potuto assistere ai suoi  concerti . “Nessuna dittatura può tollerare il jazz” disse. “E’ il primo segno del ritorno alla libertà”.

Il Dipartimento di Stato aveva già intuito  la potenza del jazz come un’arma fredda già tre anni prima che la famiglia Brubeck arrivasse  in Polonia. “ In quel periodo   sia Gli Stati Uniti che la Russia si consideravano il modello della  nazione in pieno sviluppo” Sostiene  Penny Von Eschen, docente a Cornel ed esperto  del programma jazz ambassador. “Avevano ingaggiato una feroce battaglia per conquistare il cuore e la mente del mondo”. Adam  Clayton Powell jr. ,un membro del congresso  con stretti legami verso la comunità del jazz,  per primo propose, nel 1955,  di mandare musicisti jazz in giro per il mondo in un tour promozionale per lo Stato americano. Non fu perso tempo  ed entro il  1956 il primo ambasciatore del jazz, Dizzy Gillespie, soffiava   dentro la  sua tromba americana  nei Balcani ed in  Medio Oriente.  “L’arma segreta dell’America era una blue note suonata in chiave minore” Scrisse il New York Time.

Il primo tour di Gillespie fu un grande successo e aprì la strada ad altri protagonisti  per molti decenni  a seguire. Le jazz band giravano  per  il mondo in modo autonomo   da anni ma il Dipartimento di Stato  decise di aiutare   i musicisti che portavano la loro musica in aree strategicamente significative.

La musica jazz strutturata sull’improvvisazione, all’interno di confini armonici stabiliti collettivamente  ,  costituiva una perfetta metafora dell’America , così come propagandata  dal Dipartimento di Stato. Qui c’era la musica  della democrazia e della libertà.  Ma quello che le band spesso rimandavano nelle loro esibizioni era ugualmente importante e critico . "Il razzismo e la violenza negli Stati Uniti stavano  assurgendo all’attenzione internazionale “ sostenne Von Eschen.  “Per il presidente  Eisenhower  ed il suo  Segretario di Stato, John  Fosters  Dulls ciò fu un vero imbarazzo”.  Inviando gruppi  composti da musicisti bianchi  e neri  per suonare insieme  in giro per il mondo, il Dipartimento di Stato voleva esportare   un quadro    di armonia razziale per controbilanciare ciò che di negativo  la stampa interna riportava sul razzismo.

“Sul finire del 1950, quando i movimenti per i diritti civili presero piede, la violenza s’intensificò”  dice Hugo Berkeley, il regista del   nuovo film   “Jazz Ambassador”, la cui prima proiezione è stata inserita  nel circuito PBS la primavera scorsa. Il film mostra come , nel 1957,  per protestare  contro la crisi di Little Rock,( dove nove studenti neri furono ammessi, per meriti,  in un liceo pubblico, frequentato da soli bianchi e dove subirono  gli insulti di tutti gli altri studenti, suscitando profonde proteste  ndt) , Louis Armstrong cancellò il tour,  pianficato dal Dipartimento di Stato, in Unione Sovietica. Non se ne fece nulla fino al 1961, quando il movimento per i diritti civili progredì in modo decisivo,  allora  Armstrong cambiò la sua visione delle cose e accettò di fare un tour in Africa. “ C’era la  sensazione  che una pagina  nella discussione politica sui diritti civili si dovesse  girare” sostiene Berkley.

Il film di Berkley  prova a rispondere alla domanda sul perché musicisti neri scelgono di partecipare alla missioni dei Dipartimento di Stato finalizzate a fornire un’  immagine dell’America  come il  più grande Paese del mondo. “Questa questione era chiaramente un paradosso” dice Berkley “Fu chiesto ai jazzisti neri di fare questa cosa, ma essi non sopportavano il modo in cui il loro Paese trattava la gente afroamericana. A seguito di ciò la domanda era:  come potevano, dunque, questi  andare a presentare un’ immagine positiva della loro  Nazione? “

Il primo ambasciatore, Gillespie, era un uomo di colore cresciuto nel Sud, che non nutriva  alcuna illusione sull’ironia di promuovere lo spirito libero americano all’estero, mentre rimaneva un cittadino di seconda classe in patria. Rifiutò di essere sfruttato dal Dipartimento di Stato americano prima dei  concerti “Ho 300 anni di sfruttamento alla spalle” disse. “So cosa loro ci hanno fatto e non mi scuserò con nessuno”.


Quando Dave Brubeck e Louis Armstrong tornarono dai loro tours, fecero emergere tutti gli aspetti ironici del programma in un musical intitolato “The Real Ambassador”. La sceneggiatura fu scritta principalmente  dalla moglie di Brubeck, Iola,  che lo accompagnò insieme ai figli nel tour del 1958. Coinvolse  Armostrong affidandogli la parte di se stesso, un ambasciatore del jazz in giro per il mondo. La storia comincia con lui a disagio nei panni di un vero ambasciatore, situazione che lo spinge a considerare la sua posizione. “ Chi è un  vero ambasciatore?” Chiede Armstrong in un interludio musicale “Nonostante io rappresenti il governo il governo non rappresenta alcune condizioni che mi sono proprie”.

Il musical fu destinato  a “sottolineare l’assurdità delle politiche razziste istituzionalizzate  presenti negli Stati Uniti.” Disse Darius, ricordando quei fatti dieci anni più tardi.  Lo spettacolo servì “per chiedere come potevamo insegnare al  mondo la democrazia  quando avevamo una situazione interna  per cui il Sud era ancora segregato?” Il musical andò in scena  una volta sola nel  ventesimo secolo al Festival Jazz di Monterey nel 1962 poi cadde in un relativo oblio. 

Un rifiorire di attività si sta riproponendo recentemente  ed un interesse nuovo sta crescendo ancora sul fenomeno della diplomazia culturale . Spettacoli sono stati organizzati in sedi di alto profilo come il Lincoln Center di New York, e l’interesse di documentaristi come Berkley sembrano pronti a riportare alla ribalta gli ambasciatori del jazz.

Dopo tutto, non sembrerà una grande esagerazione sostenere che gli ambasciatori del jazz hanno salvato il mondo . “La guerra fredda  fu un conflitto militarizzato che si diffuse attraverso un cambiamento culturale “. Sostiene Berkley , durante il montaggio del suo documentario in uno studio di Londra.”Entrambi questi elementi sono stati necessari , perché senza una mutazione culturale il conflitto militarizzato sarebbe potuto sfuggire di mano”.

Trent’anni dopo i concerti in Polonia nel 1988, Dave Brubeck fu invitato, come colonna sonora,  nei colloqui sul disarmo nucleare  intercorsi fra Ragan e Gorbaciov in Russia” Assolse realmente al suo compito, nella misura in cui ruppe il ghiaccio fra le due delegazioni”. Disse Darius.” Propose un tema  sui cui concentrare l’attenzione e sul quale entrambe la parti avrebbero potuto  divertirsi insieme e cominciare a diventare umani”.  Il trattato di intermediazione sugli armamenti nucleari  fu firmato subito dopo, riducendo significativamente la possibilità che una guerra nucleare potesse  avere luogo.

Lo spirito del programma Jazz Ambassador  sta ancora andando forte, nonostante i fondi destinati dallo Stato si siano quasi prosciugati. Oggi una proliferare di iniziative sta sostenendo l’idea  di una diplomazia culturale ben viva, comprendente istituzioni come il Fulbright  program e l’Istituto per la diplomazia culturale . Darius Brubeck ne  rimane un sostenitore chiave tenendo viva la fiamma di suo padre che morì nel 2012.