Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 14 gennaio 2017

La tenda deve continuare a vivere per il lavoro e per la città

Francesco Notarcola



La tenda, simbolo della lotta per il lavoro, contro l’ingiustizia sociale e politica, contro l’illegalità e la corruzione, è crollata a causa del maltempo.

Da molte parti si sono levate voci di solidarietà con i lavoratori della Multiservizi ma anche condanna delle Istituzioni che non hanno saputo e voluto risolvere il dramma di decine di famiglie e di centinaia di cittadini adulti, bambini ed anziani.

I lavoratori della Multiservizi di Frosinone hanno dato a tutti, nel Capoluogo e nella provincia, un altissimo esempio di impegno civico, politico e culturale. Valori e comportamenti da sempre sconosciuti a tutti coloro che hanno governato la Città negli ultimi decenni. Questa lotta e questi valori debbono guidare la rinascita della città.

E’ doveroso per i cittadini democratici e progressisti, per le associazioni e per tutti coloro che si battono per cambiare la drammatica realtà di questa nostra Città, esprimere pubblicamente ai lavoratori della Multiservizi una solidarietà concreta e l’apprezzamento per la loro lotta.

Proponiamo, perciò, la convocazione di un’assemblea cittadina e l’apertura di una sottoscrizione pubblica affinchè, con il contributo di tutti, si possa acquistare una TENDA NUOVA, più spaziosa, più solida e moderna, per rimpiazzare quella esistente. La Tenda deve continuare ad essere punto di riferimento di ogni iniziativa delle forze che vogliono rinnovare la politica e il modo di gestire questo Capoluogo martoriato.

Attendiamo adesioni.

Frosinone 14 gennaio 2017

video Luciano Granieri

Nat Hentoff, le parole del jazz

Guido Festinese


Il ricordo di un dei più noti critici musicali Usa. Autore di saggi, romanzi e vera anima “radical" , è stato anche tra gli inventori delle note di copertina.



Quando nel maggio 1963, il Signor Robert Zimmermann di Duluth, Minnesota, fece uscire per la Columbia Records  il suo The Freewheelin’ Bob Dylan, il disco della consacrazione che fece del ragazzo approdato al Greenwich Village un profeta (uso malgrado) di risposte che “soffiano nel vento”, le note di copertina di quel difficile secondo disco vennero affidate a qualcuno che se ne intendeva davvero di materiale folk nordamericano di prima e seconda mano, ovvero di faccende molto “traditional” , e di nuove canzoni profumate di trad che filtravano il mercuriale “zeitgeist”, lo spirito dei tempi di un’America in subbuglio. Di lì a poco quell’America si sarebbe trovata a fare i conti con la rivolta di Berkeley, e poi con tutto il reticolare pulviscolo di iniziative di una gioventù tutt’altro che spensierata e desiderosa di andare a lasciare la pelle nel fango del Vietnam, e  di milioni di neri americani ancora privi dei più elementari diritti civili. Comrpesi i giganti del jazz che, nel ’63, ancora dovevano entrare dalla porta di servizio per suonare in un teatro. A stilare quelle note dylaniane  venne chiamato Nat Hentoff, un nome che forse ai primi appassionati di rock diceva poco ma fece fare un salto sulla sedia a chi seguiva le vicende complesse, intricate e affascinanti del mazzo di musiche africane ed europee confluite nel folk a stelle e strisce, e,  soprattutto, a chi seguiva le vicende del jazz. Nat Hentoff era una delle menti qualificate a stenderle quelle note, coniugandole, sulla macchina da scrivere , a uno stile secco, nervoso, affilato come un rasoio nei giudizi, ponderato nelle idee di fondo fino all’ultima considerazione. Nat Hentoff se ne è andato sabato scorso a novantuno anni, un bel traguardo. In piena attività. Lasciando decine di libri, centinaia di note di copertina di dischi importanti che ancora oggi fanno da spina dorsale alle discoteche più rilevanti del jazz (e del folk), ma soprattutto lasciando un patrimonio di  migliaia e migliaia di articoli e interviste in cui ha scandagliato , decennio dopo decennio, l’evoluzione della musica afroamericana in relazione alle spinte della società, della cultura, della politica. Senza mai far venir meno  le ragioni dell’estetica musicale, anche: i suoi giudizi potevano essere severi ma erano sempre vincenti, alla prova dei fatti del passare del tempo. E dunque il mero dato anagrafico  dell’età ragguardevole  deve cedere il passo subito a tutt’altra considerazione , per rendere omaggio a un grande leone “radical” della sinistra culturale statunitense che certo deve aver salutato con piacere l’avvento alla presidenza si un avvocato con la pelle scura, e contemporaneamente aver provato una pervasiva sensazione di amarezza nel vedere l’avvento  di un presidente miliardario e reazionario pronto a cavalcare ogni luogo comune  razzista e sessista, quel brodo primordiale “veleno e pancia” che spesso l’America da cui è stata espunta a forza l’idea di classe fa balenare, sul luccichio affascinante  e perverso delle armi libere. Nat Hentoff  era nato a Boston, una delle città più “intellettuali” d’America nel 1925. Era dunque, anagraficamente, di quella generazione che ereditò direttamente  il pensiero e la capacità di lavoro di quei manager, giornalisti, intellettuali bianchi (soprattutto ebrei,  perlopiù di ascendenza marxista, e assai vicini al Partito comunista americano) che soprattutto a New York crearono  e appoggiarono  alla fine degli anni  Trenta l’ìdea  di un jazz che potesse essere contemporaneamente  (all’opposto di quanto credeva  il filosofo Adorno)  musica d’arte e musica di mercato. E’ un dato poco conosciuto  nella storia della musica jazz, ma i vari John Hammond  (peraltro scopritore del citato Bob Dylan , di Billie Holiday , di Charlie Christian, di Bruce Springsteen), Marshall Stearns, Norman Granz furono veri valorizzatori del jazz e delle sue spinte progressiste in epoca non sospetta, convogliando sull’impegno concreto e fattivo- ad esempio in favore della causa repubblicana nella Guerra di Spagna- musicisti che oggi ci fanno apparire  solo come levigati e eleganti intrattenitori: Benny Goodman, Fats Waller, Lionel Hampton. Nat Hentoff ereditò quella visione del jazz, la rilanciò , la  seppe adeguare a tempi ancor più stringenti, per ansia di libertà della gente tutta, e di chi aveva la pelle un tono più scuro degli altri. Incoraggiando ed indirizzando ogni svolta estetica nel jazz che sapesse anche tener conto della spessa coltre di valenze sociali che il jazz significava per la gente nera.  Sulla carta, ai microfoni della stazione radio WMEX .  Un workaholic delle buone ragioni della musica che seppe tenere la barra dritta sul jazz per il Village Voice per un buon cinquantennio , articolo dopo articolo, una firma costante del Wall Street Journal , del Washington Post,  del New Yorker , di Jazz Times. Un pilastro di Down Beat, la rivista che fa opinione nel jazz. Pronto ad entusiasmarsi anche per le infinite possibilità che aveva saputo intuire per il jazz Su Internet, e a regalare sapere: quando dal sito “Jerry Jazz Musician” gli chiesero di poter usare parte del magnifico testo da lui scritto assieme a un altro grande , Nat Shapiro, per descrivere il jazz di New Orleans (l’uragano Katarina aveva appena messo in ginocchio la città del jazz) , lui ripsose che potevano usare liberamente  i primi cinque capitoli di Hear Me Talkin’ To Ya: The Story of Jazz as Told by Men Who Made It.  Costo? Zero dollari.  Nat Hentoff s’è detto ha lasciato un’opera imponente, poco tradotta nella lingua di Dante: una ventina abbondante di saggi sul jazz, due libri di memorie, nove romanzi in cui c’entra molto la musica, addirittura, ma scritti in un arco di tempo che spazia  tra il 1965 e il 1985. Qui è bello ricordarlo, però, per il coraggio di schierarsi, di prendere posizione e di fare, al di là e oltre  ogni comoda firma di petizioni da lontano, su quanto atteneva al suo jazz, e andava a irritare ferite già ulceranti della storia musicale degli Usa. Rischiando sulla propria pelle e carriera. Ad esempio quando, nel 1960, nel pieno delle lotte dei neri per rivendicare i diritti civili  negati, fondò assieme a Archie Bleyer la Candid Records, libero spazio discografico senza censure per far circolare idee nuove. Durò poco più di sei mesi ma fu un periodo di superlavoro e di creatività estrema: trenta dischi registrati, più di uno alla settimana. Con gente come Don Ellis, l’adorato Charles Mingus (che qui potè fare ascoltare la sua versione  “uncensored” di Fable of Faubus , dedicata al governatore razzista dell’Arkansas), Cecil Taylor, Steve Lacy. Il colpo più bello e più odiato dai razzisti  a stelle e strisce lo piazzò all’inizio pubblicando l’imponente  We Insist! Freedom Now Sweet  di Max Roach e Abbey Lincoln, ospite un vecchio poderoso leone del jazz classico, Coleman Hawkins. Erano i tempi in cui i giovani neri improvvisavano flash mob ante litteram  sedendosi nei bar nei posti riservati solo ai bianchi: Hentoff, che naturalmente firmò anche le note di copertina del disco, volle come cover un bancone di bar in cui un barista bianco serviva tre persone con la pelle scura  e l’espressione accigliata. E chi voleva capire capisse.  Qualche tempo fa, in un intervista, chiesero a Nat Hentoff cos’altro avesse in mente di fare  ormai attempato e stanco. Lui rispose: “ Fino a quando avrò una macchina per scrivere, e un giornale che ospiti i miei scritti sarò felice. Credo di essere stato una persona fortunata nel poter fare quello che davvero volevo. Uno dei miei brani preferiti è di Duke Ellington, e si intitola Per cosa sono al mondo? . Io credo di essere al mondo per questo, per scrivere delle cose  che mi piacciono. O di quelle che detesto con tutto il mio essere”.

fonte “alias”14 gennaio 2017

No a Trump!

dichiarazione del Segretariato della Lit-Quarta Internazionale


          Manifestazioni nelle strade di tutto il mondo il 20 gennaio!

L'elezione di Donald Trump, un populista reazionario di estrema destra, è sia un sintomo che un punto di svolta nella storica crisi politica che stanno vivendo gli Stati Uniti. La polarizzazione della lotta di classe sta già producendo mobilitazioni senza precedenti in occasione dell'insediamento di un nuovo presidente eletto, e può generare grandi lotte contro questo governo di estrema destra, già dal primo giorno.
Dopo otto anni di governo, la farsa del "volto umano" di Obama si è rivelata come una menzogna. Ora, con Trump, la reale, oppressiva e brutale faccia dell'imperialismo è visibile dal mondo intero. E' ora di unificare le lotte contro il governo imperialista di Trump negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Per la prima volta da decadi, il sistema partitico bipolare sta affrontando una crisi profonda: i due partiti tradizionali della borghesia, quello Democratico e quello Repubblicano, hanno perso massicciamente l'appoggio popolare, in particolare del settore operaio industriale della classe lavoratrice, degli immigrati e dei giovani. Dopo le votazioni, molti giovani della classe lavoratrice, in particolare i latinoamericani, sono usciti in strada dalle scuole a protestare contro Trump e hanno iniziato rapidamente a organizzare localmente e a livello statale proteste contro l'insediamento del 20 di gennaio. Questo appello all'azione è stato raccolto dai settori più attivi del movimento sindacale, e inoltre è sorto un appello per realizzare una "marcia delle donne" il 21 gennaio a Washington D.C.
È necessario organizzare proteste in tutto il mondo contro l'imperialismo statunitense il 20 gennaio, per appoggiare i lavoratori, la gioventù, la comunità immigrata, nera e musulmana che scenderanno in lotta non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Per questo il 20 gennaio più che mai dobbiamo scendere in piazza e mostrare nella lotta che la classe operaia è internazionale, e che se toccano uno, toccano tutti noi. Dobbiamo incominciare, lottando contro Trump, a costruire anche negli Stati Uniti un'alternativa di direzione per il movimento operaio indipendente dal Partito Democratico.
Il nuovo governo di Trump: minaccia per la classe lavoratrice mondiale e per il pianeta
La nuova amministrazione di Trump si sta profilando come una delle più reazionarie, razziste, misogine, anti-operaie e aggressivamente imperialiste che gli Stati Uniti hanno eletto da decadi.
Un ex-manager di Goldman Sachs, Steven Mnuchin, guiderà il dipartimento del Tesoro; il direttore esecutivo di Exxon, Rex Tillerson, è stato nominato Segretario di Stato; il direttore esecutivo di una catena di ristoranti di fast food (Cke restaurants) che paga salari da miseria, Andrew Pudzer, sarà Segretario al Lavoro; il funzionario posto a carico dell'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (Epa), Myrin Ebell, non crede al cambio climatico e appoggia un piano energetico a base di combustibili fossili, e infine una milionaria che difende la privatizzazione dell'educazione (Betsy deVos) guiderà il Dipartimento dell'Educazione. Secondo il portale economico Quartz, i 17 membri nominati da questo Esecutivo, il più ricco della storia nordamericana, con una fortuna totale di 9.500 milioni di dollari (altri media parlano di una cifra che potrebbe raggiungere i 35.000 milioni), guadagnano più soldi che 43 milioni di famiglie statunitensi (essendo la rendita media 55.000 dollari all'anno).
La nuova amministrazione include anche vari generali dell'esercito nominati per chiudere la crisi apertasi fra le fila dell'apparato militare con la sconfitta in Iraq e Afghanistan e la mancanza di appoggio ai veterani di guerra, crisi che fu espressa chiaramente quando varie centinaia di veterani dell'esercito parteciparono alla lotta di Standing Rock contro il governo degli Stati Uniti.
Inoltre vari settori dell'estrema destra e del fascismo sionista sono rappresentati nel nuovo governo: il nuovo ambasciatore degli Stati uniti in Israele, David Friedman, che è legato all'estrema destra israeliana, sostenitore del riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele, il suprematista bianco Jeff Sessions nominato procuratore generale e Segretario alla Giustizia; e infine l'ideologo dell'ultradestra Steve Bannon proposto come Direttore Strategico e consigliere del Presidente.
L'amministrazione di Trump prepara un ampio arsenale di attacchi ai sindacati, alla lotta per il salario minimo di 15 dollari, al diritto all'aborto, alla lotta contro la brutalità poliziesca e per la riforma del sistema delle prigioni, contro i popoli nativi americani che difendono la loro terra, contro la rivendicazione di un sistema di salute e di educazione pubblica di qualità e gratuite e per una transizione energetica eco-socialista.
Nondimeno, l'impatto dell'elezione di Trump non si sentirà solo negli Stati Uniti ma anche in tutto il mondo. Gli Stati Uniti continuano ad essere ad oggi la principale potenza imperialista, che controlla le principali multinazionali e possiede l'apparato militare più forte. Lo slogan di Trump "rendere di nuovo grande l'America" si basa su un'ideologia nazionalista, razzista e aggressiva, in cui "l'America" (cioè gli Stati Uniti) è concepita come una entità superiore che ha il diritto di opprimere, invadere, super-sfruttare o eliminare qualunque popolo o nazione desideri.
Sarà la nostra lotta unitaria nei luoghi di lavoro e nelle piazze quella che determinerà se questi duri attacchi che Trump prepara potranno realizzarsi. Vogliamo richiamare i sindacati, i gruppi comunitari, i movimenti sociali e i gruppi di sinistra alla necessità di una forte lotta nel prossimo periodo, e all'importanza di farlo costruendo un fronte di lotta unitario, indipendente e democratico.
Costruire una nuova direzione per il movimento di massa per lottare contro Trump
C'è una grande crisi nel Partito Democratico, il che significa una opportunità storica per i lavoratori e la sinistra rivoluzionaria per costruire una direzione alternativa. Però c'è anche una grande crisi di direzione del movimento sindacale: la base dei lavoratori si è ribellata contro la direzione dell'Afl-Cio che ha appoggiato massicciamente la Clinton senza neanche discuterne con la base e restando cieca davanti ai risultati devastatori delle politiche neoliberali difese ed applicate dal Partito Democratico negli ultimi 30 anni.
Oggi i dirigenti del movimento sindacale non sanno che fare e restano paralizzati. Il Partito Democratico sta cercando di "lavorare con Trump" sui punti "buoni" del suo programma, quelli che considerano "favorevoli al popolo lavoratore" - ignorando il programma e l'ideologia anti-immigrati, anti-neri, anti-musulmana e maschilista di Trump - come se questi non fossero anche loro settori della classe lavoratrice!
Nonostante questo, la gioventù e vari settori della classe lavoratrice, che stanno rifiutando in massa Trump e non sono mai stati grandi difensori della Clinton, stanno cercando una via d'uscita per lottare e organizzarsi. Siamo in una situazione paradossale e simile a quella che si produsse con le proteste di massa degli immigrati nel 2006, la ribellione in Wisconsin, il movimento Occupy o le proteste ogni volta più ricorrenti contro la violenza poliziesca e le deportazioni: molte proteste vengono pianificate a livello locale contro l'insediamento di Trump, però non esiste un'organizzazione con peso di massa a livello nazionale che abbia chiamato alla lotta. Questa è un'espressione della crisi di direzione e della necessaria riorganizzazione dei settori di classe che desiderano lottare.
È dunque anche un'opportunità per gli attivisti onesti e i rivoluzionari che intendano impegnarsi sulla via dell'organizzazione indipendente e democratica della nostra classe, per costruire e sviluppare strutture indipendenti che promuovano la lotta unitaria e la organizzazione dalla base.
Mobilitiamoci contro Trump, e nel corso di questo processo iniziamo a costruire una alternativa di direzione per i lavoratori, indipendente dal Partito Democratico!
Costruiamo insieme le mobilitazioni del gennaio 2017
In California, gli appelli alla lotta per l'iniziativa del 20 di gennaio sono stati appoggiati da diverse organizzazioni studentesche della Università della California (9 campus), dal City College di San Francisco, dalla coalizione Educatori contro Trump (che riunisce maestri e studenti a San Francisco) e dalla coalizione comunitaria di Oakland (Progetto contro il terrore poliziesco) diretta dal movimento afroamericano. Tutti hanno come obiettivo di tenere azioni coordinate a San Francisco e Oakland in quei giorni. Anche organizzazioni comunitarie a Los Angeles e San Diego pianificano proteste in quel giorno.
Al momento vari sindacati hanno sottoscritto ufficialmente l'appello: l'UAW 2865 (sindacato dei lavoratori accademici dell'Università della California), Uesf (maestri di San Francisco), UTR (maestri di Richmond), e altri, come Ilwu Local 10 (lavoratori portuali), stanno pianificando di appoggiare ufficialmente l'appello. Il Consiglio lavorativo della contea di Alameda (est della Baia), che rappresenta più di 100.000 lavoratori ripartiti in 100 sindacati locali, ha prodotto una risoluzione il 5 dicembre "esortando ciascuno degli affiliati a partecipare il giorno 20 gennaio per mostrare il nostro potere, unità e solidarietà organizzando azioni intorno ai conflitti lavorativi esistenti e invitando tutti i membri a partecipare e ad appoggiare chi desideri partecipare alle proteste contro l'insediamento". Gli attivisti sindacali dell'area che stanno organizzando azioni hanno formato un collettivo di base, Labor rising (Against Trump) che sta crescendo e costruendo basi in vari sindacati.
È certo che la California non sarà l'unico Stato che terrà proteste il 20G, anche se si sta definendo come un centro di resistenza data la sua percentuale di latinoamericani e afroamericani che sono stati fortemente attaccati da Trump e dai suoi sostenitori durante la campagna elettorale. Sulla costa ovest, anche gli studenti dell'Università di Washington organizzeranno proteste e a Seattle si stanno formando consigli comunitari per organizzare la resistenza. A Chicago, New York, Baltimora e Washington D.C. ci sono stati diversi appelli all'azione nelle reti sociali di diversi settori.
Poco dopo le elezioni, è stato lanciato per il 21 gennaio a Washington D.C. un appello indipendente per organizzare una "marcia delle donne" contro Trump e per i diritti delle donne. Questo appello non viene da nessuna organizzazione conosciuta di donne - il che non è una sorpresa visto che Now e la gran parte delle organizzazioni si sono subordinate al Partito Democratico negli ultimi decenni.
L'appello a marciare si organizza introno allo slogan "i diritti delle donne sono diritti umani" e dice di voler rispondere alla retorica e ai dibattiti durante la campagna elettorale nella quale "molte di noi - donne, immigrate di tutti i tipi, con religioni diverse però in particolare musulmane, persone che si identificano come Lgbtqia, native, nere, latine, disabili, impoverite e vittime di molestie sessuali - ci siamo sentite insultate, demonizzate e minacciate". Varie marce locali verranno organizzate per chi non potrà viaggiare fino a Washington D.C.
La marcia ha un programma democratico-borghese, sulla parità e l'equità, senza nessuna analisi di classe (o di etnia) reale: "non ci stancheremo finché le donne non otterranno la parità e l'equità a tutti i livelli di direzione nella società. Lavoreremo pacificamente finché non ci sarà una vera pace finché non ci sia giustizia e equità per tutti".
Nonostante le nostre differenze programmatiche con l'appello, è molto importante mobilitare e partecipare a queste marce con uno spezzone separato, indipendente, proprio per portare ai settori lavorativi, e in particolar modo alle donne immigrate, il nostro programma di azione e rivendicazione e per unirci all'azione unitaria.
Pertanto esistono al momento due giorni di azione nazionale:
- il 20 gennaio per protestare contro l'insediamento di Trump come presidente
- il 21 gennaio con una grande marcia nazionale di donne a Washington D.C. e varie marce locali
Come Lit-Quarta Internazionale ci impegniamo a costruire queste azioni nazionali negli Stati Uniti e a proporre mobilitazioni unitarie in tutto il mondo per il 20 gennaio. Vogliamo organizzare proteste con sindacati, movimenti contro l'oppressione imperialista del governo statunitense e organizzazioni di sinistra. Ci saranno proteste nelle piazze contro Trump! Lotteremo contro l'imperialismo nordamericano e il dominio delle multinazionali in ognuno dei nostri Paesi!

venerdì 13 gennaio 2017

Per una riforma elettorale coerente con la Costituzione

Coordinamento Democrazia Costituzionale.



Il voto del 4 dicembre ha bocciato l’Italicum insieme alle deformazioni della Costituzione. È un bene per il paese. Non solo per la necessità di un sistema elettorale omogeneo nelle due Camere ma soprattutto per il carattere ipermaggioritario e distorsivo del voto dell’italicum.
E’ inaccettabile che questo Parlamento, sostanzialmente delegittimato dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 1 del 2014, abbia dapprima approvato l’Italicum, poi abbia tentato di modificare la Costituzione pur non essendo rappresentativo del paese, e ora non riesca ad assolvere al compito, sollecitato dallo stesso Capo dello Stato, di approvare una nuova legge elettorale coerente per le due Camere, dimostrandosi incapace di raccogliere il segnale venuto dal popolo italiano con la vittoria del NO.
Il sistema elettorale deve essere coerente con i principi costituzionali in modo che il sistema politico possa agire per la loro attuazione ed evolvere per rispondere ai mutamenti della vita sociale. I rappresentanti debbono sempre essere eletti dai rappresentati, anche nelle Provincie, il cui rinnovo sta avvenendo con modalità oscure. Il sistema elettorale non può e non deve distorcere la volontà degli elettori e tanto meno privilegiare la governabilità a scapito della rappresentatività e deve restituire agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Quando il parlamento legifera sul sistema elettorale occorre che l’intervento non sia finalizzato a favorire o danneggiare qualcuno dei partiti in campo, ovvero a scoraggiare la nascita di nuovi soggetti politici. Anzi, nel nostro paese la legge elettorale deve favorire la ricostruzione di forme organizzate  della politica come canali stabili di partecipazione da parte dei cittadini. Solo così si possono ricostruire i connotati fondamentali di una partecipazione democratica effettiva, come prefigurata dall’art. 49 della Costituzione, che non si esaurisca in periodiche ordalie elettorali o primariali.
Per gli obiettivi indicati una legge elettorale sostanzialmente proporzionale è la scelta più coerente con l’impianto costituzionale in un sistema politico ormai stabilmente articolato su almeno tre poli. Deve essere respinta la pretesa, alla base dell'Italicum e del Porcellum, di ricavare direttamente dal voto popolare un vincitore e una maggioranza parlamentare, trasformando le elezioni in una mera procedura per l’investitura di fatto del Capo del Governo. Quest’impostazione mina le basi della democrazia parlamentare e comporta un’artificiosa e forte distorsione tra il numero dei seggi assegnati e i voti effettivamente ottenuti, dando vita a governi blindati in parlamento, ma deboli e minoritari nel paese.
Oggi si discute del Mattarellum, certamente migliore dell'Italicum e del Porcellum, da cui è stato sostituito perché inidoneo a creare delle maggioranze precostituite per legge.
Tuttavia non possiamo ignorare che un sistema elettorale misto con prevalenza del collegio uninominale maggioritario a turno unico - calato in un sistema politico almeno tripolare e con forti squilibri territoriali della distribuzione  delle forze politiche - presenta gravi inconvenienti in quanto può produrre una non proporzionalità significativa tra voti e seggi; può  massimizzare il vantaggio di soggetti marginali nei consensi ma decisivi per la vittoria delle coalizioni; può esaltare la frammentazione territoriale e ridurre il pluralismo; può penalizzare i soggetti portatori di risposte politiche generali. 
Vengono ventilate "correzioni" del Mattarellum del tutto inaccettabili, come la soppressione della quota proporzionale o la sua trasformazione in "premio di governabilità".
Nella riforma elettorale vanno anche riviste le normative per il voto degli italiani all'estero per superare difetti evidenti per quanto riguarda la segretezza e il carattere personale del voto.
In conclusione va segnalato che la scelta del sistema elettorale deve essere ricercata con la più ampia condivisione, a partire dal Parlamento che, seppure largamente delegittimato, non può e non deve sottrarsi al compito politico di scegliere la legge elettorale oggi più opportuna per il paese. Di questa scelta il Parlamento rimane responsabile, nel rispetto di quel che la Corte deciderà il 24 gennaio quando verificherà la compatibilità dell'Italicum con il dettato costituzionale, come richiesto dal Comitato per il No e dal Comitato contro l’Italicum.
Paradossalmente, quand’anche l'Italicum non fosse demolito dalla Corte costituzionale, rimarrebbe comunque l’esigenza imprescindibile di superarne radicalmente l'impianto. In tale prospettiva il Comitato contro l’Italicum conferma fin d’ora l’impegno a promuoverne il referendum abrogativo ove si rendesse necessario.

Sulla base di quanto sopra e alla luce dell'imminente sentenza della Corte sull'Italicum verrà predisposta una proposta politica che sia alla base di una iniziativa ampia e di massa.

E’ GRAVISSIMO LA REGIONE LAZIO AFFIDA LA MANUTENZIONE ELETTRICA E TERMOIDRAULICA ALLA MANUTENCOOP IMPLICATA NELLO SCANDALO DI MAFIA CAPITALE

Ufficio Stampa del Deputato Luca Frusone Movimento 5 Stelle 


“Una cooperativa implicata in diversi scandali tra cui Mafia Capitale, denunciata già da tantissimi lavoratori d’Italia che si occupano della pulizia nelle scuole, perché retribuiti con contratti da fame e privi di qualsiasi diritto, grazie alla Regione Lazio gestirà tutte le risorse del comparto manutenzione elettrica e termoidraulica della ASL di Frosinone. La cooperativa è la Manutencoop che prenderà il posto della Siram S.p.A. La situazione è davvero preoccupante, non solo per i lavoratori stessi, ma anche per la salute dei cittadini che si recheranno in ospedale per avere assistenza.” – a denunciarlo è il deputato 5 Stelle Frusone che continua – “Non ci sono parole per descrivere l’assurdità che sta accadendo, perché come dicevo non soltanto mi preoccupa il destino dei lavoratori che stanno manifestando il loro dissenso a questa manovra regionale attraverso presidi e manifestazioni, ma anche la salute dei pazienti, perché una malagestione della cooperativa ricadrebbe ovviamente sul funzionamento dell’ intera ASL, quindi sale operatorie, macchinari e quant’altro. Sono stati spesi fiumi d’inchiostro su questa cooperativa, tra giornali e interrogazioni parlamentari del MoVimento 5 Stelle, possibile che Zingaretti o Buschini, assessore eletto del territorio, reputino questa cooperativa affidabile? Ma come si fa ad essere così ciechi o spregiudicati? Ma cosa deve ancora subire la sanità pubblica di questo territorio? I lavoratori si stanno battendo per far valere i propri diritti, perché pare che la Manutencoop non solo voglia ridiscutere la tipologia contrattuale passando da un contratto da metalmeccanico a un contratto multiservizi, con annesso abbattimento di stipendio ancora non meglio definito, ma voglia anche non riconfermare tutte le risorse, si tratterebbe di circa 80 persone tra personale della ASL e ditte esterne.” – e conclude – “Ho intenzione di porre la questione all’attenzione dei ministri della salute e del lavoro, per chiedere come sia stata possibile l'ammissione alla gara di un'azienda già sottoposta a sanzioni dell'autorità antitrust e richiederò anche l’intervento di un organo di vigilanza.”

Rferendum CGIL. Una garbata critica alla Corte Costituzionale

Pietro Adami, Coordinamento Referendum Costituzionale Roma


Cari,
tempo fa (nel 2012) depositai una memoria alla Corte Costituzionale , in relazione al referendum elettorale, per chiederne l'ammissione (a nome del Giuristi Democratici).
Avevo una tesi, molto articolata che vi risparmio.
Però svolgevo con garbo una critica al ruolo che la Corte si è ritagliata in questi anni.
Vi riporto il passaggio di allora:

"L’art. 75 recita:  E` indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
I casi in cui non è ammesso il referendum abrogativo sono dunque un numerus clausus.
Questa norma è integrata con altra norma di rango costituzionale, l’art. 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1:
“2. - Spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.”
La tradizionale giurisprudenza della Corte ha esteso il novero dei controlli ed valorizzato la necessità della permanente funzionalità di organi costituzionalmente necessari: “ciò che può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, è soltanto una valutazione liminare e inevitabilmente limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se, nei singoli casi di specie, il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all'applicazione di un precetto costituzionale, consistente in una diretta e immediata vulnerazione delle situazioni soggettive o dell'assetto organizzativo risultanti a livello costituzionale» (sentenza n. 45 del 2005). Ed in tema di referendum elettorali: “Questa Corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi”. (Sentenza Corte Costituzionale N° 15 del 2008).
La Corte ha quindi valutato di dover estendere il proprio sindacato alla normativa di risulta, non tanto per verificare la costituzionalità della stessa, quanto per accertare se l’abrogazione referendaria può condurre alla paralisi della funzionalità di un organismo necessario costituzionalmente.
In questi casi la Corte ha dichiarato inammissibili i referendum.
2.2. Vi è però da verificare se la soluzione adottata dalla Corte sia stata quella che ha maggiormente consentito il pieno dispiegarsi della previsione costituzionale dell’art. 75.
Concorrono infatti due interessi: da un lato il pieno dispiegarsi della sovranità popolare ‘diretta’ ed il diritto costituzionalmente garantito alla sottoposizione di una norma al referendum popolare. Dall’altro la necessità di garantire che l’abrogazione della norma non generi una cesura nella funzionalità di un organo. 
Nella scelta adottata dalla Corte, però, piuttosto che una composizione tra i due interessi si è generato un sacrificio totale del primo, in tutti gli innumerevoli casi in cui il referendum poteva incidere su un precetto costituzionale nel senso sopra esposto.
Con il risultato di snaturare completamente l’istituto referendario. E’ infatti possibile , ma non certo, che attraverso un intervento manipolativo si possa garantire la perdurante funzionalità dell’organo. Inoltre, di fatto, è lasciato alla più completa causalità la possibilità di sottoporre una norma al referendum abrogativo. 

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Fin qui quello che ho scritto all'epoca. quello che mi interessava riferirvi è che nel caso di specie sembra che la Corte abbia deciso di non ammettere il quesito sull'art.18 in quanto 'manipolativo'. 
Ora a me pare che siamo andati oltre i limiti, visto che , alla fin fine , è solo la legge che dice quando la Corte può non ammettere il quesito. 
 E la legge è chiara "Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.".
Ogni altro giudizio non spetta alla Corte. 
Non spetta loro verificare cosa accadrebbe dopo il referendum. La normativa di risulta non è chiara? C'è un Parlamento ed un Governo.
C'è la norma dell'art. 37 della legge del 1970 che prevede "Il Presidente della Repubblica nel decreto stesso, su proposta del Ministro interessato, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, può ritardare l'entrata in vigore della abrogazione per un termine non superiore a 60 giorni dalla data della pubblicazione”
Dunque è espressamente previsto che la normativa di risulta possa essere confusa, e si dà tempo per sistemarla. 

Insomma, quello che dico è che con garbo, alla Corte questa critica va fatta. 
Infatti ora la Corte adotta tre principi giurisprudenziali che generano un effetto pericoloso:
- il quesito non può lasciare un buco che lede i diritti costituzionali. 
Posta la larghezza degli stessi è facile capire quanto incide questo principio.
- l'abrogazione referendaria non genera la reviviscenza delle precedenti norme. Ed è corretto, ma il problema aumenta.
- ed ora si valorizza anche il profilo della manipolatività del quesito.

In sostanza, il buco non va bene, ma neanche la manipolazione. E quindi? 
Se tirò giù tutta la norma, mi dici che il buco non posso lasciarlo, se tiro giù solo una parte e lascio una norma modificata, mi dici che il referendum è abrogativo e dunque deve fare buchi totali e non modificare.

A questo punto in alcuni settori, di fatto, il referendum non si può più fare, e resta possibile per materie residuali. 
Criticherei questi principi anche se fosse compito della Corte definirli, ma a maggior ragione quando non trovo una norma in cui si dice che le viene attribuito questo compit

Saluti
Pietro Adami

giovedì 12 gennaio 2017

Perchè il quesito sul jobs act è stato scritto male?

Luciano Granieri


Se il verdetto della Corte Costituzionale sulla non ammissibilità del quesito referendario,  inerente l’abrogazione della norma  del jobs act  che elimina le tutele dell’art.18,  sia politico e non tecnico,   è fatto discutibile. 

E’ certo comunque che le conseguenze di questo verdetto sono decisamente politiche. Consentono al governo Renzi-Gentiloni di rimanere aggrappato all’unico simulacro rimasto di una stagione riformatrice fallimentare. Il decreto Madia sui servizi pubblici a rilevanza economica è stato spazzato via dalla Consulta, la legge elettorale,  Italicum, quella che tutti ci avrebbero dovuto invidiare, sta per subire la stessa sorte, la normativa  sulla scuola  ha nauseato  gli stessi promotori, i quali, con la scusa del cambio di governo la stanno rinnegando, la riforma costituzionale è stata clamorosamente bocciata dal popolo sovrano. 

In mezzo a tali desolanti macerie, rimane in vita il jobs act,  Se  la corte costituzionale avesse ammesso il quesito referendario proposto dalla CGIL  e sottoscritto da più di tre milioni di cittadini, anche quest’ultima riforma, forse la più odiosa, sarebbe andata al macero, certificando l’assoluta incapacità ed inettitudine del governo e dei suoi componenti. 

Sono stati ammessi  i referendum sull’abrogazione dei voucher  e sul ripristino della responsabilità in solido  tra appaltatore e appaltante. Ma non c’è dubbio che il cuore politico dei quesiti referendari era quello sul jobs act. Proprio per salvare l’unica zattera rimasta,  identificata in una norma molto gradita dall’establishment finanziario industriale, l’impegno a giocare sporco non è venuto meno.  

Le esternazioni dell’avvocatura dello stato, strombazzate a destra e a manca,   sull’inammissibilità del quesito referendario, avevano  indubbiamente l’obbiettivo di  mettere pressione sui giudici costituzionali.  Così come sono state scorrette le anticipazioni  sull’orientamento degli stessi giudici, evidentemente ritenuti  favorevoli al jobs act. Singolare poi è stata la defezione dell’ex presidente Criscuolo, già fatale al governo Renzi   nel 2015 per la sentenza relativa alla rivalutazione delle pensioni.  Grazie a questa assenza il numero dei giudici si è ridotto da 14 a 13 un entità dispari utile ad evitare un esito di pareggio. Eventualità che avrebbe sancito l’ammissibilità del quesito perché, in caso di parità, il voto dell’attuale presidente Grossi ,schierato a favore della domanda referendaria, avrebbe pesato il doppio. 

Al netto di queste stranezze che fanno ritenere il voto della Corte, politico, ci ha pensato la stessa CGIL a fornire l’appiglio tecnico per giustificare il giudizio contrario. Il quesito è stato scritto male. Infatti avrebbe dovuto contenere esclusivamente l’abrogazione della parte relativa ai licenziamenti sancita dal jobs act e non aggiungere la possibilità di estendere le tutele dell’art.18 alle aziende con un numero di dipendenti compreso fra i 5 e i 15. Intendiamoci in termini di giustizia sociale questa integrazione  è sacrosanta, ma secondo l’avvocatura dello stato, e probabilmente anche per i giudici costituzionali, (bisognerà leggere le motivazioni della sentenza)  essa  supera   il carattere   abrogativo del referendum, evidenziando l’intento dei promotori di introdurre una nuova norma. Il quesito  si presenta  come eccessivamente manipolativo del testo  difettando in quella “matrice razionalmente unitaria” che è il requisito fondamentale richiesto dalla Consulta ai referendum abrogativi per essere ammessi. 

 Una domanda sorge spontanea: possibile che nel formulare il quesito referendario ai consulenti  giuridici della CGIL non sia venuto il dubbio di correre il rischio della bocciatura  presentando  un testo che non si limitasse  a chiedere l’abrogazione di parte del jobs act? L’avvocatura dello stato  ha subito sventolato l’intento manipolatore   come elemento decisivo per la non ammissibilità. Dubbi in merito sono stati espressi da altri esperti giuristi.

 Allora i casi sono due. O chi ha scritto il quesito non è giuridicamente   ferrato, o lo stesso quesito  è stato appositamente così strutturato  per sancirne  l’inammissibilità e fornire al governo, amico fino  a ieri, ma forse anche oggi, un’ancora di salvezza. Il dubbio emerge in modo preponderante  anche in virtù di certi atteggiamenti tenuti in passato dalla CGIL. Perché, anziché raccogliere la firme utili ad  abrogare una legge devastante per i lavoratori,  con il rischio di non vedersi ammettere  il referendum , la CGIL   non si è mobilitata prima,  chiamando  alla  lotta i propri iscritti,  e tutti i militanti  affinchè un tale obbrobrio non  passasse?   Lo  hanno fatto i sindacati francesi mobilitandosi fortemente  contro la Loi  Travail.   Mobilitazioni, lo ricordiamo, che hanno paralizzato la Francia e  messo in seria difficoltà il governo transalpino.  

Come mai la CGIL  (Fiom a parte) non ha partecipato alla raccolta firme per i referendum sociali, buona scuola compresa? Perché  la scelta di votare no alla Deforma Renzi-Boschi è arrivata così in ritardo?  Chissà  forse il posizionamento  antigovernativo sulla costituzione prevedeva, in cambio,   il favore sul jobs act?  E'  evidente, infatti,  come questa brutta figura del sindacato, restituisca  un po’ di ossigeno all’asfittico esecutivo Renzi-Gentiloni. 

Al di là della vicenda CGIL, la stagione referendaria ha mostrato  come ormai la gente abbia  capito la natura fortemente liberista e anti popolare di ogni provvedimento, o riforma, proveniente dal blocco di potere guidato  dai potentati finanziari. Questa consapevolezza popolare è estremamente fastidiosa per chi comanda. Da qui la paura di ogni evento elettorale ed in particolare referendario. Sindacato o non sindacato, questa storia insegna che difficilmente anche un’istituzione indipendente come la Corte Costituzionale si azzarda a smontare i capisaldi di un Paese che è a forte indirizzo capitalista.  Per questo motivo sarebbe utile ribadire, sempre e comunque, che secondo il dettato costituzionale il lavoro è cittadinanza, è promozione della dignità umana e non merce da svendere. Se non lo fanno i sindacati, l’onere tocca a qualcun altro. 

mercoledì 11 gennaio 2017

Sentenza della Corte Costituzionale riguardo i quesiti referendari sul lavoro promossi dalla Cgil.

Alfiero Grandi 



La sentenza della Corte Costituzionale apre la strada a due referendum su tre promossi dalla Cgil. Dispiace che la decisione della Corte tolga il ripristino dell'articolo 18 dalla possibilità di un pronunciamento degli elettori. La questione che il referendum abrogativo sull'articolo 18, come modificato dal governo Renzi, tentava di risolvere resta quindi - purtroppo - una ferita aperta nei diritti dei lavoratori. E' auspicabile che il futuro parlamento affronti e risolva positivamente la ferita aperta dal jobs act.
Dovremo tutti porre il ripristino dei diritti dei lavoratori come una condizione per il voto alle future elezioni politiche.
Restano ora in campo due referendum di grande valore: l'abolizione dei voucher e la responsabilità in solido sugli appalti. Non si può che appoggiare questi due referendum, la cui vera difficoltà sta essenzialmente nel raggiungere il quorum di validità. Se si raggiungerà il quorum il risultato dell'abrogazione è largamente possibile e dopo il 70 % di votanti al referendum costituzionale è un obiettivo oggi raggiungibile.
Ora governo e parlamento debbono garantire che le ventilate elezioni anticipate non diventino l'occasione per il rinvio dei due referendum. Quindi questi referendum vanno calendarizzati prima di un eventuale voto politico e in ogni caso va approvata una norma che come nel 1987 garantisca la possibilità di votare per i referendum nello stesso anno di eventuali elezioni.
Sappiamo infatti che il tentativo di fare slittare i referendum con la scusa del voto anticipato è forte.

I Comitati per il No si impegneranno a sostegno della vittoria del Si in questi due referendum che pongono l'obiettivo di tutelare diritti essenziali dei lavoratori, in coerenza con la Costituzione, che per fortuna il referendum del 4 dicembre ha difeso e rafforzato.

martedì 10 gennaio 2017

Frosinone: gaudio e giubilo dei dirigenti Pd per la straordinaria vittoria elettorale.

Luciano Granieri


foto tratta dal sito perteonline.it


Straordinaria affermazione elettorale del Pd nella Provincia di Frosinone. Alle ultime elezioni il Partito Democratico ciociaro ha ottenuto una maggioranza schiacciante. Sei consiglieri su dodici sono  di provenienza dem,   così come il  presidente Antonio Pompeo . Il resto dell’assise è composto da  quattro consiglieri del centro destra ,un consigliere per i  centristi e uno della coalizione composta da socialsti-sinistra italiana-possibile-comunisti fiancheggiatori. 

Esulta il segretario del Pd locale Simone Costanzo definendo  stratosferico il risultato della tornata elettorale. “Abbiamo sgombrato il campo da equivoci e   divisioni presentando un partito unito dalla chiara identità politica” è la dichiarazione di Sara Battisti, presidente dei democratici frusinati. “Siamo pronti a ricostruire il centro sinistra” è la valutazione  comune a tutta la dirigenza dem.  

Ma anche Mauro Abruzzese consigliere regionale di Forza Italia  esulta per il risultato del centro destra definito ottimo: “Siamo pronti a fare proposte  ed a far valere  le nostre posizioni per il bene di questo territorio”. Andrea Amata, dei centristi è estremamente  soddisfatto del risultato ottenuto dalla sua lista, che  si schiererà, manco a dirlo, affianco del Pd. Contenti  anche i “diversamente sinistri”. La consigliera regionale, Daniela Bianchi, Sinistra Italiana,  è entusiasta  dell’ingresso in consiglio di Luigi Vacana e offre, senza indugi ,la collaborazione di tutto lo schieramento per lavorare a proposte utili per il territorio.  Insomma a partire dai comunisti fiancheggiatori, fino ad arrivare ai fascisti xenofobi, passando per i dem, hanno vinto tutti . 

Ma allora chi ha perso?  E’ chiaro, sconfitti ne sono usciti gli elettori che non hanno potuto votare. Risulterà evidente, a questo punto, che stiamo parlando del risultato delle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Frosinone. Contesa elettorale  in cui votano consiglieri comunali e sindaci,  ma non i cittadini .   Sono escluse proprio   le persone in carne ed ossa  che comunque dovranno subire sulla loro pelle  le decisioni di questi allegri dopolavoristi.  

Neanche l’elezione della presidenza di una  scalcinata bocciofila, avrebbe potuto essere più misera della pastetta provinciale.  Del consiglio precedente sono stati confermati otto consiglieri su dodici, tutto è rimasto com’era. Se la sono cantata e se la sono suonata, come era prevedibile, non avendo in mezzo alle scatole quei rompicoglioni di elettori. Non è un caso che il Pd torni  a vincere  una contesa elettorale, dopo le sberle prese alle amministrative, e soprattutto  al referendum, proprio quando il voto è “cosa loro”.  

Questa squallida vicenda valorizza ancora di più il risultato del referendum costituzionale. La grande affermazione del no ha evitato che un’allegra e più agguerrita  masnada di dopolavoristi,stile consiglio provinciale,  andasse a bivaccare in Senato, in spregio alla sovranità popolare.  Proprio il risultato referendario dovrebbe far riflettere sull’evidenza che la gente , vuole scegliere i propri rappresentanti sia a livello nazionale che  a livelli locale, consigli provinciali compresi. 

Ma in un contesto sociale politico ed economico in cui bisogna assicurare gli interessi dei potentati finanziari il popolo non deve disturbare. Meno si esprime e meglio è.  Si dimentica che un caposaldo delle dinamiche democratiche è la partecipazione. Questa, oltre ad esigere la prerogativa,  del voto prevede la possibilità di disturbare quel manovratore che non si adoperasse  per gli interessi della collettività.  Da tali  semplici rivendicazioni dovrebbe partire e procedere l’azione politica di quei movimenti che così efficacemente hanno difeso la Costituzione dall’assalto renziano pidduista. Potrebbe essere una buona base di partenza.

lunedì 9 gennaio 2017

NON SI MUORE DI FREDDO MA DI ABBANDONO SOCIALE

 Agenzia Stampa CARC



Esistono norme di prevenzione e sicurezza per le calamità naturali e le emergenze climatiche del paese (piani di intervento in occasione di terremoti e frane, per ripulire dalla neve paesi e strade e soccorrere le zone più impervie e meno raggiungibili, piani territoriali di prevenzione del dissesto idrogeologico ecc) che non vengono applicate e seguite. Solo nella regione Toscana sono 400 mila gli alloggi vuoti, che si aggiungono ai centinaia di migliaia nelle altre regioni, che potrebbero essere utilizzati da un governo per mettere mano all’emergenza abitativa.
I senza-tetto morti per il freddo, così come gli enormi disagi di viabilità e i danni causati dal maltempo, le problematiche che quest’ultimo provoca alle popolazioni colpite dal terremoto (per via delle strutture poco idonee a resistere al freddo, soccorsi allo sbando, le attività dei piccoli produttori come l’allevamento non tutelate ecc) non sono effetti di eventi imprevedibili e straordinari: sono l’effetto della mala gestione del paese da parte di una classe dominante che non ha interesse e non trova profitto dal fare ciò che è necessario e negli interessi delle masse popolari. Basti guardare alla celerità con cui vengono stanziati miliardi per salvare i debiti di banche e speculatori finanziari (ultimo è il caso MPS!) e alle briciole che vengono destinate agli sfollati dei terremoti degli scorsi mesi, alla tutela del territorio, delle infrastrutture, all’emergenza abitativa e così via. Morti, disagi, sofferenze fanno tutti parte della guerra di sterminio non dichiarata che la classe dominante promuove a danno delle masse popolari, mentre sventola come spauracchio la paura del terrorismo. Nel frattempo i morti in casa nostra aumentano giorno dopo giorno: quelli per il freddo si aggiungono a quelli sul posto di lavoro, per la malasanità, la disoccupazione. Il vero terrorista, nel nostro paese, è la classe dominante che si lava la coscienza con l’elemosina del clero, piangendo lacrime di coccodrillo sulle disgrazie evitabili, con le passerelle televisive, le promesse di un futuro migliore che non può garantire mentre a mani basse approfitta e sfrutta, ruba e specula, inquina e devasta.
Sta alla classe operaia e alle masse popolari quindi prendere in mano le redini del paese, sta a tutti quegli organismi operai e popolari che già oggi resistono a questa guerra (esempio su scala nazionale sono le Brigate di Solidarietà Attiva, il Movimento NO TAV ecc), e che devono rivoltarla contro la borghesia stessa costruendo un proprio governo, un governo d’emergenza popolare che si occupi da subito dello stato d’emergenza in cui versa il paese.

domenica 8 gennaio 2017

2017: un anno in cui rievocare tre tristi anniversari palestinesi

Richard Falk

Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano avere forse la capacità di adoperarsi per cambiamenti positivi dello status quo.

I palestinesi sembrano sempre più condannati a diventare sudditi, o al massimo cittadini di seconda classe, nella loro terra d’origine. L’espansionismo israeliano, l’incondizionato appoggio degli USA e l’impotenza dell’ONU si combinano per creare fosche prospettive per l’autodeterminazione dei palestinesi e per una pace negoziata che sia sensibile ai diritti e alle rivendicazioni sia dei palestinesi che degli ebrei.

Rievocare tre importanti anniversari da commemorare nel 2017 può aiutarci a comprendere meglio quanto questa dolorosa narrazione palestinese si sia sviluppata nel corso degli ultimi 100 anni.

Forse tali rimembranze possono persino incoraggiare la correzione degli errori passati e i deboli tentativi di trovare una via d’uscita, seppure in ritardo. Le iniziative più promettenti sono ora legate al crescente movimento di solidarietà internazionale impegnato a raggiungere una pace giusta per entrambi i popoli.

Per il momento, né le Nazioni Unite né la diplomazia tradizionale sembrano avere molto potere sul gioco delle forze sociali e politiche che si trovano al centro della lotta dei palestinesi. Solo una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della società civile internazionale sembrano forse avere la capacità di esercitare cambiamenti positivi dello status quo.

1917

Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, venne convinto a mandare una lettera al barone Lionel Rothschild, uno dei principali sostenitori del sionismo in Gran Bretagna, in cui esprimeva il sostegno alle aspirazioni del movimento. Il concetto più importante della lettera era la seguente:

“Il governo di sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare per il popolo ebraico, e farà uso del proprio massimo impegno per agevolare la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.

Una prima e scontata osservazione è per quale motivo la Gran Bretagna si sia attivata per prendere una simile iniziativa nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale. La risposta più immediata è che la guerra non stava andando molto bene, alimentando nei dirigenti inglesi la convinzione e la speranza che, schierandosi con il movimento sionista, avrebbero incoraggiato gli ebrei in tutta Europa a sostenere la causa degli alleati, soprattutto in Russia e in Germania.

Una seconda motivazione era favorire gli interessi britannici in Palestina, a cui l’allora primo ministro Lloyd Geroge guardava come strategicamente vitale per proteggere la via commerciale terrestre verso l’India così come salvaguardare l’accesso al Canale di Suez.

Fin dal giorno della sua emanazione la Dichiarazione Balfour fu controversa, persino tra alcuni ebrei. Innanzitutto un simile impegno da parte dell’ufficio del ministero degli Esteri era prettamente colonialista, senza il benché minimo tentativo di prendere in considerazione i sentimenti della popolazione prevalentemente araba che viveva in Palestina all’epoca (gli ebrei erano meno del 10% della popolazione nel 1917) o di tener conto del crescente appoggio internazionale al diritto di auto-determinazione di cui gode ogni popolo.

Opposizione ebraica a Balfour

Ebrei importanti, guidati da Edward Montagu, all’epoca segretario di Stato per l’India, si opposero alla dichiarazione, temendo che ciò avrebbe fomentato l’antisemitismo, soprattutto nelle città europee e nordamericane.

Oltre a ciò, gli arabi si sentirono traditi in quanto l’iniziativa di Balfour era vista sia come una violazione delle promesse agli arabi durante la guerra di un’indipendenza politica dopo il conflitto in cambio della partecipazione alla lotta contro i turchi. Inoltre ciò faceva presagire futuri problemi che sarebbero scoppiati tra la promozione dell’immigrazione ebraica in Palestina da parte dei sionisti e le proteste della popolazione autoctona araba.

Bisognerebbe anche riconoscere che neppure tutti i dirigenti sionisti erano contenti della dichiarazione Balfour. C’erano deliberate ambiguità nella sua formulazione. Per esempio, i sionisti avrebbero preferito la parola “il” piuttosto che “un” davanti a “focolare nazionale [ebraico]”. Inoltre l’impegno a proteggere lo status quo dei non ebrei era visto come causa di guai futuri, benché, come si è visto in seguito, questo attestato di responsabilità colonialista non sia mai stato messo in pratica.

Infine i sionisti ricevettero un appoggio per un focolare nazionale, non per uno Stato sovrano, benché colloqui riservati con gli inglesi convenissero che uno Stato ebraico potesse nascere in futuro, ma solo dopo che gli ebrei fossero diventati maggioranza in Palestina.

Questo sguardo all’indietro alla Dichiarazione Balfour è utile per comprendere come le ambizioni coloniali si siano trasformate in senso di colpa liberale ed empatia umanitaria per la tragedia degli ebrei europei dopo la Seconda Guerra Mondiale, determinando invece un inferno senza fine di delusione e oppressione per la popolazione palestinese.

1947

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con scontri in Palestina che raggiunsero livelli molto intensi, e con l’impero britannico in caduta libera, la Gran Bretagna abbandonò il proprio potere mandatario e lasciò alla nascente ONU il compito di decidere cosa fare.

L’ONU creò un gruppo di alto profilo per abbozzare una proposta, che risultò essere una serie di raccomandazioni che contenevano la partizione della Palestina in due comunità, una per gli ebrei, un’altra per gli arabi. Gerusalemme fu internazionalizzata senza che nessuna comunità esercitasse l’autorità di governo né avesse il diritto di reclamare la città come parte della propria identità nazionale. Il rapporto dell’ONU venne adottato come proposta ufficiale nella forma della Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale.

Il movimento sionista accettò la 181, mentre i governi arabi e i rappresentanti del popolo palestinese la rigettarono, sostenendo che questa violava i diritti di autodeterminazione ed era palesemente ingiusta. All’epoca gli ebrei rappresentavano meno del 35% della popolazione ma gli venne assegnato più del 55% della terra.

Com’é noto, ne derivò una guerra, con eserciti dei Paesi arabi vicini che entrarono in Palestina sconfitti da milizie sioniste ben addestrate ed armate. Israele vinse la guerra, ottenendo alla fine il controllo sul 78% della Palestina nel momento in cui fu raggiunto un armistizio, espropriando oltre 700.000 palestinesi e distruggendo molte centinaia di villaggi palestinesi. Questa vicenda è stata il momento più cupo vissuto dai palestinesi, noto tra loro come la nakba, o catastrofe.

1967

Il terzo anniversario del 2017 è relativo alla guerra del 1967, che portò a un’altra disfatta militare dei vicini arabi e all’occupazione israeliana di tutta la Palestina, comprese tutta la città di Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

Gli Usa, alleati strategici

La vittoria israeliana ha cambiato in modo drastico la dimensione strategica. Israele, che in precedenza era stato visto come un peso strategico per gli USA, improvvisamente fu considerato un partner strategico degno di un appoggio geopolitico incondizionato.

Nella famosa risoluzione 242, il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU decise all’unanimità che dovesse essere negoziato il ritiro delle forze israeliane, con qualche accordo di modifica dei confini, nel contesto della ricerca di un accordo di pace che includesse una soluzione amichevole della disputa relativa ai rifugiati palestinesi che vivevano in tutta la regione.

Durante i successivi 50 anni siamo arrivati alla conclusione che la 242 non è stata messa in atto. Al contrario, Israele ha ulteriormente invaso la Palestina occupata attraverso un’estesa colonizzazione e con le relative infrastrutture, e si è arrivati al punto che pochi credono che uno Stato palestinese indipendente che coesista con Israele sia ancora realizzabile o persino auspicabile.

Questi anniversari rivelano tre fasi della situazione dei palestinesi in continuo peggioramento. Rivelano anche l’incapacità dell’ONU o della diplomazia internazionale a risolvere il problema di come palestinesi ed ebrei dovrebbero condividere la terra.

E’ troppo tardi per invertire tutte queste solide tendenze storiche, ma la sfida per raggiungere una soluzione umana che consenta in qualche modo a questi due popoli di vivere insieme o in comunità politiche separate rimane acuta.

Speriamo ardentemente che una soluzione soddisfacente sia trovata prima che un altro anniversario si imponga alla nostra attenzione.

– Richard Falk è un docente di diritto e relazioni internazionali che ha insegnato per 40 anni all’università di Princeton. Nel 2008 è stato anche nominato dall’ONU per sei anni come Rapporteur speciale sui diritti umani dei palestinesi.

Fonte: http://zeitun.info/