Se il verdetto della Corte Costituzionale sulla non
ammissibilità del quesito referendario, inerente
l’abrogazione della norma del jobs act che elimina le tutele dell’art.18, sia politico e non tecnico, è fatto discutibile.
E’ certo comunque che le
conseguenze di questo verdetto sono decisamente politiche. Consentono al
governo Renzi-Gentiloni di rimanere aggrappato all’unico simulacro rimasto di
una stagione riformatrice fallimentare. Il decreto Madia sui servizi pubblici a
rilevanza economica è stato spazzato via dalla Consulta, la legge elettorale, Italicum, quella che tutti ci avrebbero
dovuto invidiare, sta per subire la stessa sorte, la normativa sulla scuola ha nauseato gli stessi promotori, i quali, con la scusa
del cambio di governo la stanno rinnegando, la riforma costituzionale è stata
clamorosamente bocciata dal popolo sovrano.
In mezzo a tali desolanti macerie,
rimane in vita il jobs act, Se la corte costituzionale avesse ammesso il
quesito referendario proposto dalla CGIL
e sottoscritto da più di tre milioni di cittadini, anche quest’ultima
riforma, forse la più odiosa, sarebbe andata al macero, certificando l’assoluta
incapacità ed inettitudine del governo e dei suoi componenti.
Sono stati
ammessi i referendum sull’abrogazione
dei voucher e sul ripristino della responsabilità
in solido tra appaltatore e appaltante.
Ma non c’è dubbio che il cuore politico dei quesiti referendari era quello sul
jobs act. Proprio per salvare l’unica zattera rimasta, identificata in una norma molto gradita dall’establishment
finanziario industriale, l’impegno a giocare sporco non è venuto meno.
Le esternazioni dell’avvocatura dello stato, strombazzate a destra e a manca, sull’inammissibilità
del quesito referendario, avevano indubbiamente l’obbiettivo di mettere pressione sui giudici costituzionali. Così come sono state scorrette le
anticipazioni sull’orientamento degli
stessi giudici, evidentemente ritenuti favorevoli al jobs act. Singolare poi è stata la
defezione dell’ex presidente Criscuolo, già fatale al governo Renzi nel
2015 per la sentenza relativa alla rivalutazione delle pensioni. Grazie a questa assenza il numero dei giudici
si è ridotto da 14 a 13 un entità dispari utile ad evitare un esito di pareggio.
Eventualità che avrebbe sancito l’ammissibilità del quesito perché, in caso di
parità, il voto dell’attuale presidente Grossi ,schierato a favore della
domanda referendaria, avrebbe pesato il doppio.
Al netto di queste stranezze
che fanno ritenere il voto della Corte, politico, ci ha pensato la stessa CGIL
a fornire l’appiglio tecnico per giustificare il giudizio contrario. Il quesito
è stato scritto male. Infatti avrebbe dovuto contenere esclusivamente l’abrogazione
della parte relativa ai licenziamenti sancita dal jobs act e non aggiungere la
possibilità di estendere le tutele dell’art.18 alle aziende con un numero di
dipendenti compreso fra i 5 e i 15. Intendiamoci in termini di giustizia
sociale questa integrazione è
sacrosanta, ma secondo l’avvocatura dello stato, e probabilmente anche per i
giudici costituzionali, (bisognerà leggere le motivazioni della sentenza) essa supera
il carattere abrogativo del referendum, evidenziando l’intento
dei promotori di introdurre una nuova norma. Il quesito si presenta come eccessivamente manipolativo del testo difettando in quella “matrice razionalmente unitaria” che è il requisito fondamentale
richiesto dalla Consulta ai referendum abrogativi per essere ammessi.
Una domanda sorge spontanea: possibile che nel
formulare il quesito referendario ai consulenti giuridici della CGIL non sia venuto il dubbio
di correre il rischio della bocciatura presentando
un testo che non si limitasse a chiedere l’abrogazione di parte del jobs
act? L’avvocatura dello stato ha subito
sventolato l’intento manipolatore come elemento decisivo per la non
ammissibilità. Dubbi in merito sono stati espressi da altri esperti giuristi.
Allora i casi sono due. O chi ha scritto il quesito non è giuridicamente ferrato,
o lo stesso quesito è stato appositamente così strutturato per sancirne l’inammissibilità e fornire al governo, amico
fino a ieri, ma forse anche oggi, un’ancora
di salvezza. Il dubbio emerge in modo preponderante anche in virtù di certi atteggiamenti tenuti
in passato dalla CGIL. Perché, anziché raccogliere la firme utili ad abrogare una legge devastante per i lavoratori,
con il rischio di non vedersi ammettere il
referendum , la CGIL non si è mobilitata prima, chiamando alla
lotta i propri iscritti, e tutti
i militanti affinchè un tale obbrobrio
non passasse? Lo hanno fatto i sindacati francesi mobilitandosi
fortemente contro la Loi Travail. Mobilitazioni, lo ricordiamo, che hanno paralizzato
la Francia e messo in seria difficoltà il
governo transalpino.
Come mai la CGIL (Fiom a parte) non ha partecipato alla
raccolta firme per i referendum sociali, buona scuola compresa? Perché la scelta di votare no alla Deforma
Renzi-Boschi è arrivata così in ritardo? Chissà forse il posizionamento antigovernativo sulla costituzione prevedeva,
in cambio, il favore sul jobs act? E' evidente, infatti, come questa brutta figura
del sindacato, restituisca un po’ di
ossigeno all’asfittico esecutivo Renzi-Gentiloni.
Al di là della vicenda CGIL,
la stagione referendaria ha mostrato come ormai la gente abbia capito la natura fortemente liberista e anti
popolare di ogni provvedimento, o riforma, proveniente dal blocco di potere guidato
dai potentati finanziari. Questa
consapevolezza popolare è estremamente fastidiosa per chi comanda. Da qui la
paura di ogni evento elettorale ed in particolare referendario. Sindacato o non
sindacato, questa storia insegna che difficilmente anche un’istituzione
indipendente come la Corte Costituzionale si azzarda a smontare i capisaldi di
un Paese che è a forte indirizzo capitalista. Per questo motivo sarebbe utile ribadire, sempre e comunque, che secondo il dettato costituzionale il lavoro è
cittadinanza, è promozione della dignità umana e non merce da svendere. Se non
lo fanno i sindacati, l’onere tocca a qualcun altro.
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