Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 5 gennaio 2013

Il gioco dell'oca truccato

Luciano Granieri


“Alt! Tornare alla partenza”. Questa è una classica casella del gioco dell’oca, in cui il  giocatore che vi incappa dopo aver percorso il tabellone con la sua ochetta di plastica è costretto a ripartire di nuovo. Nel gioco dell’oca elettorale   gli elettori, in vista di una tornata, politica o amministrativa che sia, incappano sempre in questa casella e sono costretti a buttare a mare aspettative, e speranze in una seppur minima acquisizione di  valenza rappresentativa  della consultazione . Puntualmente  nella perfida casella siamo incappati anche questa volta. Infatti  il gioco dell’oca elettorale è inevitabilmente e inesorabilmente truccato.  Per cui alla fine al traguardo giungono i potentati dei comitati elettorali. Le  paperelle di plastica, in queste manche,   hanno occupato la casella dei referendum sui beni  comuni, vinti ma disattesi.   Una casella si, e una no, erano  dedicate  alla riforma elettorale, promessa fino all’ultimo ma alla fine disattesa anch’essa .  Fa troppo comodo ai comitati elettorali poter decidere chi candidare.  Scorrendo il tabellone si è passati sulla messa in mora di Berlusconi per mano dei banchieri che hanno nominato un loro rappresentate alla guida del governo italiano per gestire meglio i loro interessi. Con il risultato che il consulente Goldman Sachs Mario Monti, supportato dai comitati elettorali presenti  in paramento,  coadiuvato da una manovalanza di professori bocconiani , dirigenti di  banca, manager buoni solo a tagliare teste e diritti, dopo aver ridotto allo stremo  la popolazione, oggi è il fautore di una nuova democrazia cristiana pronto a chiedere legittimazione elettorale per il  suo attacco di classe,  contro il lavoro, la scuola e l’istruzione pubblica.  E purtroppo anche Berlusconi è resuscitato. Una ampia parte del tabellone era dedicata alle primarie. Un sistema di coinvolgimento dei militanti nella scelta del candidato a presidente del Consiglio  stridente con il dettato costituzionale,   manipolato di fatto da chi lo propone in modo che alla fine certe scelte,  nonostante il pronunciamento elettorale, rimangano sempre  a favore delle segreterie di partito.  Nel Pd il rischio che Bersani non fosse eletto candidato premier è stato reso minimo da regole e apparati che hanno assicurato al segretario  una vittoria certa. Anche le parlamentarie  del Pd organizzate nel segno della partecipazione democratica non erano altro che un modo per gettare fumo negli occhi dei militanti  attribuendo loro   un potere decisionale, a parole,  ma nei fatti ininfluente. Intanto perché  agli eletti  nelle primarie si aggiungeranno i nomi di un listino bloccato, nella completa disponibilità del segretario e dei notabili del partito . Poi perché il sistema con cui i vincitori delle primarie verranno inseriti  in lista è a forte rischio di essere squilibrato a favore dei  candidati espresse nel listino bloccato. L’esempio tipico è quello del responsabile per le questioni economiche del partito Stefano Fassina, la cui vittoria plebiscitaria a Roma non  gli eviterà la seconda piazza  in lista dietro il segretario  Bersani.  Infatti, bisogna sottostare alle minacce della nuova balena bianca capitanata da Monti, la quale ha già sentenziato  che Bersani per governare dovrà avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato.  Se  ciò non dovesse accadere ecco venire in soccorso del Pd i il grande centro moderato , riunito sotto il nome di Mario Monti . Gli ex democristiani supportati da poteri forti e dalla chiesa di Roma,  per dare il loro appoggio ai democratici pretendono  la  testa di Fassina,  un keynesiano moderato,  non un pericoloso anticapitalista,  e di Nichi Vendola,  un riformista affabulatore, non un pericoloso comunista.  Anche fra  i candidati eletti nelle primarie   le novità sono ben poche, si è assistito ad una passerella di sindaci ex sindacai, consiglieri  provinciali  comunali,  gente  che nel proprio territorio da anni comanda la politica attraverso la gestione di un bacino elettorale conquistato  a forza di “SE  MI VOTI TI FACCIO RIPARARE LA BUCA DAVANTI A  CASA”. Francesco  Scalia, eletto nel nostro territorio, può considerarsi uomo nuovo, dopo decenni passati alla guida della Provincia e su  un seggio di consigliere alla Regione Lazio ? Proseguendo nel  giro di tabellone ci si imbatte nei movimenti alternativi e conflittuali alla tirannia delle banche e dei loro condottieri.  I professori di “Alba”, il movimento “Cambiare si può”  partiti dai buoni  propositi di proporre un programma antiliberista e anticapitalista, sono stati invasi come corpi ospitanti, dai vecchi parassiti della sinistra rimasta fuori dal parlamento.  I Ferrero, Diliberto, Di Pietro, dopo aver a vario titolo infettato questi movimenti, li hanno dissolti traghettando la loro maggioranza  silenziosa e meno propositiva alla corte di Ingroia, pronto a concedere ai segretari parassiti l’ennesima possibilità di ritornare in Parlamento.  Il lancio dei dadi ha condotto le paperelle di plastica nell’area del vaffanculismo  grillino del Movimento 5 Stelle.  Il gruppo fautore della democrazia telematica ha cominciato  ad andare in crisi  dopo che qualche suo iscritto, avendo vinto  le elezioni in diverse realtà locali , ha dovuto smettere di strillare per  cominciare a prendere qualche decisione politica vera attirandosi le ire del capo.  Dopo  aver percorso tutte queste caselle arrivata alla soglia della campagna elettorale, il riquadro con scritto “Alt torna alla partenza” ci aspetta inesorabile e ci costringerà a far finta di scegliere fra i soliti noti e ad avvallare le peggiori alleanze.  IO NON CI STO’. A  questo gioco dell’oca truccato non voglio giocare più. Che se la cantino e se la suonino i signori dentro i comitati elettorali. Il primo gesto  di una protesta vera è quello di uscire dal gioco cominciando ad eroderlo con la delegittimazione.  Non è rifiuto del mio diritto-dovere di scegliere, anzi è un modo per riaffermare che il diritto  ad “associarsi liberamente in partiti per  concorrere con metodo democratico a  determinare la politica nazionale”cosi come costituzione comanda,  non si esplica con l’esercizio del voto una volta ogni 5 anni, ma si realizza con la possibilità di partecipare alla definizione degli  indirizzi di governo tutti i giorni. Oggi non è più possibile. E non perché siano spariti i partiti di massa, ma perché i partiti si sono liberati  definitivamente della massa.

   

Come uccidere una città a norma di legge

Rete per la tutela della Valle del Sacco

Italcementi Colleferro vuole bruciare plastica, pneumatici e fanghi:
come uccidere una città a norma di legge.”

Nell’assoluto delirio della gestione dei rifiuti nel Lazio, con dichiarazioni istituzionali sull’ipotesi di incenerire negli impianti di Colleferro o smaltire negli impianti delle province, quanto Roma Capitale non riesce a più a sostenere, restiamo esterrefatti dalla richiesta di assoggettabilità a Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) relativa al nuovo progetto presentato da Italcementi Colleferro in data 27 dicembre 2012 presso la Regione Lazio.
In una città in cui insistono una discarica di Rifiuti Solidi Urbani, sostanzialmente fuorilegge, due inceneritori di Combustibile Derivato da Rifiuti (CDR), un’area industriale con due siti di stoccaggio definitivo per rifiuti tossici, un cementificio, due industrie che devono rispondere alla legge Seveso Bis per i rischi da incidente rilevante, una centrale a turbogas, occupazioni di suolo con parchi fotovoltaici per quella che noi definiamo “militarizzazione energetica”, non ci saremmo mai aspettati che qualcuno avesse ancora la faccia tosta di proporre nuovi impianti, per usare un eufemismo, fuori luogo.

L’Italcementi di Colleferro presenta la sua “becera idea di sviluppo sostenibile” con la realizzazione di due linee di incenerimento rifiuti, la prima con “fanghi biologici essiccati provenienti dal trattamento delle acque reflue”, la seconda con “pneumatici fuori uso” e “fluff” ovvero plastica frantumata. Nel nuovo progetto, del costo di 3,3 milioni di euro, è previsto l’incenerimento di 36.000 tonnellate annue, circa 100 tonnellate al giorno di rifiuti, per alimentare i due forni esistenti di cottura del clinker in sostituzione dell’attuale petcoke ovvero combustibile fossile.

Il Ministero dell’Ambiente, già nel mese di Aprile, aveva affermato che era nelle sue intenzioni con apposito decreto, approvato in fase di regolamentazione dal Consiglio dei Ministri e in attesa dei pareri del Consiglio di Stato e delle Commissioni Parlamentari, «favorire e promuovere un accordo di programma tra il ministero dell’Ambiente, alcune regioni italiane e Aitec (Associazione italiana tecnico economica del cemento, ndr) sulla valorizzazione energetica del Css nelle regioni italiane che sono maggiormente esposte e tutt' ora in una grave situazione di emergenza», e affrontando quella di Roma, aveva chiarito che la città «non entrerà in emergenza se avrà questa prospettiva, che poi e' quella delle direttive europee e delle leggi nazionali».
In pratica il CSS - Combustibile Solido Secondario - non è altro che una ridefinizione della tipologia di rifiuti da avviare ad incenerimento che comprende materie plastiche, pneumatici fuori uso, scarti in gomma, tessili e scarti del calzaturiero, frazioni secche combustibili. Vengono quindi favoriti i processi di incenerimento consentendo di bruciare anche frazioni che in passato venivano escluse. Ulteriore gravità è che il ricorrere al CSS in luogo del combustibile fossile viene inteso come “modifica non sostanziale” permettendo di evitare l’iter autorizzativo solito mediante l’applicazione di un regime giuridico ad hoc.
In futuro, se passerà questo progetto, la qualità dell’aria complessiva a Colleferro e in aree limitrofe di certo non migliorerà, in quanto i limiti di emissione concessi ad un cementificio sono molto superiori a quelli consentiti ad un inceneritore di rifiuti classico.
Ad esempio con riferimento agli impianti di Colleferro e per una sola delle sostanze emesse in atmosfera, il biossido di azoto (NOx), è stato autorizzato un valore medio giornaliero in uscita di 70 mg/Nmc per ogni linea di incenerimento rifiuti, di 800 mg/Nmc per il cementificio.
La differenza è evidente, come è plausibile che i riferimenti normativi, nazionali ed europei, che riguardano l’industria del cemento, siano applicabili ad impianti situati lontano da nuclei urbani e non in aree già altamente compromesse come la nostra. Attualmente in nessuna parte del mondo sarebbe possibile insediare un’attività produttiva del genere a pochi passi dalle abitazioni.
Italcementi si dimostra rassicurante presentando scenari di emissione in atmosfera ridotti rispetto alla situazione attuale, segnalando però in modo poco esauriente e visibilmente di parte lo scenario di variabilità determinato dalle diverse sostanze introdotte nel processo di combustione.

Il paradosso è che nella stessa area prima si autorizza una centrale a turbogas funzionante a combustibile fossile, giustificandola come migliorativa in sostituzione dell’esistente; il giorno dopo si richiede l’autorizzazione per sostituire un’alimentazione da combustibile fossile con combustibile derivato, giustificandola sempre come migliorativa.
Evidentemente il legislatore non ha previsto che potessero esistere situazioni folli come quella di Colleferro.

Nel caso in cui il decisore pubblico che verrà chiamato alla valutazione del progetto abbia la memoria corta, siamo a disposizione per ricordare tutte le azioni che nel passato recente sono state compiute con autorizzazioni che non hanno tenuto in alcuna considerazione l’alta concentrazione di problematiche ambientali e sanitarie.

Con estrema rabbia ci troviamo per l’ennesima volta a fare ciò che qualsiasi amministrazione locale decente dovrebbe fare, cioè informare la popolazione sui pericoli incombenti e far valere i diritti dei cittadini. Come sempre questo silenzio è imbarazzante, inquietante, assordante. Segno di una reiterata volontà ad occultare, unica capacità che ci risulti essere peculiare.

Invitiamo pertanto, nell’imminenza della consultazione elettorale, le forze politiche candidate ai governi regionali e nazionali, nonché i rappresentanti locali , a dichiarare in modo inequivocabile le loro intenzioni e la loro disponibilità ad aprire un tavolo di confronto serio dove si possano esporre tutte le problematiche ambientali in soluzione unica, al fine di stilare una serie di provvedimenti volti al reale risanamento ambientale, sanitario, economico e sociale. Senza questi presupposti i soggetti menzionati abbiano almeno il pudore di evitare le nostre piazze per nominare, come in passato, il nome “ambiente invano.

Nel frattempo ci stiamo organizzando per porre in essere tutte le azioni che riescano a far decadere questo ennesimo schiaffo alla nostra dignità.

venerdì 4 gennaio 2013

SEI SCELTE PER IL VOTO POI PASSERÀ

Paolo Cacciari da "il manifesto" del 03/01/2013


Bene, ora la griglia di partenza per la prossima competizione elettorale è completa. Per noi (per quella certa sinistra ancora attiva che si è entusiasmata con i referendum sull'acqua, che si sente compartecipe dei movimenti per il lavoro e per la scuola, che si indigna per la povertà crescente e per le diseguaglianze sociali e che spera ancora di riuscire a cambiare le cose) quali sono le scelte che ci vengono prospettate?
Votare Bersani-Renzi-Vendola. Come dice Alberto Asor Rosa, per un «ragionamento semplicissimo»: per chiudere definitivamente l'era berlusconiana e per prendere le distanze dal governo dei banchieri. Il contro-ragionamento è altrettanto semplice: come si fa a «governare senza condizionamenti» se le dichiarazioni programmatiche del centro-sinistra giurano fedeltà alle politiche economiche liberiste? Già un paio di governi Prodi-D'Alema ci hanno insegnato che persino un Hollande in Italia sarebbe giudicato troppo di sinistra dal centrosinistra.
Dare allora fiducia alla novità della lista Ingroia. Avere in Parlamento una opposizione intransigente è una condizione imprescindibile per il buon funzionamento della democrazia. Ma basterà il collante giustizialista per riassemblare i frammenti della sinistra? Non ci aveva già provato Di Pietro? Non sarebbe necessaria anche una visione condivisa di società, un'idea positiva di socialismo per questo secolo?
Votare le persone scegliendo attentamente i primi candidati presenti nelle varie liste (attenti però agli scorrimenti dei nomi civetta delle candidature multiple che servono per far passare i fidati e gli affiliati prenegoziati). Un lavoro da veri esperti che rischia cocenti delusioni.
Mandare a "vaffa..." tutti e votare Grillo. È certamente espressione di una sottocultura qualunquista, ma meglio i suoi candidati naif piuttosto che la riproposizione del solito ceto politico cooptato e fidelizzato dai partiti.
Lavorare per l'astensionismo attivo. In fondo si tratta di una partita truccata dal porcellum, dall'anticipazione dello scioglimento delle camere pilotato da Napolitano per poter scegliere il prossimo presidente del Consiglio a prescindere dal risultato delle elezioni, dalla spettacolarizzazione e dai costi esorbitanti delle pubblicità elettorali... Le elezioni andrebbero sempre un po' disconosciute e delegittimate. Se non altro per rammentare che la democrazia è (soprattutto) altro.
Ultima scelta: disinteressarsene del tutto e pensare al dopo. In fondo si tratta di chiudere la tv e non comprare i giornali per poco più di un mese. È quello che già fa la maggioranza degli italiani. E non sarà per caso.

mercoledì 2 gennaio 2013

TRA IL DIRE E IL CAMBIARE C'E' DI MEZZO IL MARE

 Andrea Cristofaro, collettivo ciociaro anticapitalista


Girando in internet ho trovato questo annuncio, e incuriosito l'ho letto: è il quesito al quale hanno risposto con un si o un no i militanti del movimento cambiare#sipuò.

Risultati della Votazione telematica di "Cambiare si può"
alle ore 00.00 del 1.1.2013

IL QUESITO IN VOTAZIONE  era:
Ritieni che, nella mutata situazione di fatto rispetto all’assemblea del 22 dicembre (vedi report precedente), si possa proseguire nell’iter di formazione di una lista comune, avente come
candidato premier non contendibile Antonio Ingroia (che ha dichiarato la disponibilità ad accogliere nel programma i nostri dieci punti irrinunciabili), con attribuzione a un comitato di garanti della formazione delle liste, nelle quali è comunque previsto l’inserimento dei segretari politici di IDV, Comunisti italiani, Verdi e Rifondazione comunista?

Hanno votato SI 4.468 pari al 64,7% dei votanti
Hanno votato NO 2.088 pari al 30,2% dei votanti
Si sono astenuti 352 pari al 5,1%
I voti validi sono stati 6.908 su circa 13.200 aderenti all'Appello
 


Il  movimento non mi aveva mai appassionato, però ne ho seguito il cammino. Senza entrare nel merito della lista, giudicando da fuori, è stupefacente come nel quesito si dichiari candidamente che le riunioni finora fatte non contano più niente e che coloro che finora dovevano essere i protagonisti delle scelte sono stati invece chiamati a votare semplicemente un si o un no riguardo ad una forzatura che ribalta tutto, non discussa in assemblea ma decisa dai segretari dei partiti che fino a ieri stavano elemosinando al Pd un posto in coalizione: decisa da questi appunto, insieme a Ferrero e ad Ingroia, alla faccia delle migliaia di militanti che hanno partecipato alle assemblee locali e nazionali.
Cambiare#sipuò non esiste più, esiste invece una cosa molto simile alla lista arcobaleno, e si chiamerà Rivoluzione Civile: prendere o lasciare. I votanti a maggioranza hanno telematicamente  ceduto al ricatto, quindi Diliberto e Di Pietro hanno vinto: Io ci sto ha ufficialmente inglobato Cambiare si può. Un particolare: in val di Susa i militanti hanno tutti respinto la proposta,
significherà qualcosa? Personalmente arrivo a due conclusioni. Punto primo: i 4468 si probabilmente sono riconducibili in gran parte ad iscritti al Prc, visto che il partito si era schierato fermamente per il si e anche le assemblee in gran parte erano formate da iscritti al Prc. Nello stesso tempo viene fuori l'inconsistenza numerica di coloro che dentro il movimento chiedevano un passo indietro definitivo al Prc. Infatti 4468 rappresenta un terzo degli iscritti a votare, quindi il problema della vittoria dei si è ribaltato: i professori di Alba avrebbero avuto i numeri per vincere il referendum telematico, ma questi numeri evidentemente non c'erano. La famosa società civile che chiedeva il passo indietro si è dimostrata incapace di fare il passo in avanti. E questo è
un primo elemento che viene fuori, visto che chi aveva ottenuto il controllo del movimento lo stava facendo senza essere l'espressione della maggioranza della base del movimento stesso. E c'è da dire che il prc pur sapendo di avere i numeri dalla propria parte aveva comunque fatto il passo indietro. Ma la cosa non era sfuggita a navigati politici come Diliberto e Di Pietro, i quali dopo
aver ricevuto il rifiuto da parte del Pd hanno provato il colpo di mano e tramite "Io ci sto" sono entrati nel movimento "Cambiare si può" per egemonizzarlo usando il nome di Ingroia per tentare in seguito un nuovo approccio con il Pd, una volta in possesso di un potere contrattuale maggiore
rappresentato dal movimento conquistato. E qua arriviamo al secondo punto: senza la collaborazione di Ferrero e del Prc questa operazione sarebbe andata in porto? Qui entra in gioco il gruppo dirigente del Prc, che si è trovato a poter scegliere fra due opzioni. Continuare il percorso intrapreso con la "società civile" rispedendo al mittente l'approccio speculativo di Io ci sto, e
quindi scegliere di girare finalmente lo sguardo a sinistra. Questa scelta avrebbe anche rafforzato le potenzialità di due importanti movimenti nati a sinistra: il No Debito e il movimento nato dal No Monti Day. L'altra opzione era invece cedere al richiamo delle sirene (metaforiche) Diliberto e Di Pietro, e quindi fare la scelta di non differenziarsi dal gretto ceto politico italiano, che mischiando tattica e strategia si perde nella affannosa ricerca di un posto in parlamento e uno a porta a porta o a ballarò, dimenticando la ricerca del consenso basato sui contenuti e sulla coerenza politica. Il Prc ha fatto sicuramente i suoi conti, e ha scelto la seconda opzione: ha scelto di dare vita ad un secondo arcobaleno che avrà più di metà del proprio programma elettorale incentrato sugli argomenti della mafia e della legalità, senza accenni alla lotta contro il capitalismo, cosa che fa storcere sicuramente il naso a molti militanti. Secondo me il Prc ha perso un'occasione unica per
tornare ad essere un partito credibile in grado di essere sponda politica per i tanti compagni dispersi e anche un soggetto in grado di dialogare con i movimenti e i partiti organizzati alla sua sinistra. Rimangono le assemblee locali che Cambiare si può aveva indetto per i primi di gennaio: in tali assemblee si incontreranno tanti militanti che avranno il compito facilitato rispetto a quanto avevano messo in conto alla fine dell'assemblea nazionale del 22 dicembre: molte decisioni sono infatti già state prese da Ingroia e dai quattro segretari di partito, compresi simbolo e nome del movimento, quindi le cose su cui discutere e soprattutto le cose da decidere saranno sicuramente
molte meno.



Cambiare si potrà

Pierluigi Sullo da http://www.democraziakmzero.org


Talvolta le coincidenze aiutano. E talvolta quel che accade molto lontano può suggerirci qualcosa di utile. Parlo in particolare del nodo che si era creato attorno all’appello “Cambiare si può”, del dilemma se coloro che lo avevano sottoscritto avrebbero dovuto partecipare alla “lista arancione” (quella che porta il nome di Antonio Ingroia) o no. Cioè se quell’esito fosse coerente con le premesse. Il nodo è stato sciolto grazie a un “voto telematico” in cui il 60 per cento degli aderenti all’appello ha detto sì, dobbiamo andare con Ingroia. Ma, proprio nei giorni in cui – in rete e via Facebook – si discuteva accanitamente di questo problema, gli zapatisti messicani, dopo un lunghissimo silenzio, sono tornati a farsi vedere e ascoltare: prima, con l’occupazione pacifica di cinque città del Chiapas, 40 mila indigeni “bases de apoyo” (cioè non militari dell’Esercito zapatista) ordinatamente schierate nelle piazze a dichiarare, passamontagna calati sul viso e bocche chiuse, “siamo qui”, “esistiamo”. Qualche giorno dopo, vigilia della fine dell’anno, l’Ezln ha reso noti alcuni suoi comunicati , annunciando per i prossimi tempi ulteriori iniziative e proposte.
Bene, cos’hanno a che fare, reciprocamente, queste due vicende? Nel comunicato firmato dal subcomandante Marcos, portavoce dell’Ezln, si dicono due o tre cose nuove. Ad esempio questa (riassumo con parole mie): in passato siamo stati famosi perché i grandi media parlavano di noi. Poi ci hanno dimenticati, tralasciati, in generale diffamati. Da ora in poi, scrive il “sup”, noi saremo visibili solo per i media indipendenti, quelli che nascono dai movimenti dal basso e sono in grado di entrare in sintonia con noi. L’allusione era anche alla stampa di sinistra o democratica del Messico, la quale, sei anni fa, decise che gli zapatisti non erano più così interessanti come erano stati per molti anni. Era accaduto che l’Ezln dicesse: non abbiamo interesse per le elezioni. Era il momento in cui, dopo la presidenza di Vicente Fox, già manager della Coca Cola, il centrosinistra messicano sperava finalmente di vincere le presidenziali, avendo per candidato Andrés Manuel Lòpez Obrador, già sindaco di Città del Messico.
Quando l’Ezln manifestò il suo scetticismo, i politici, i giornalisti, la quasi totalità degli intellettuali di sinistra che per molto tempo avevano simpatizzato per gli indigeni ribelli cambiò totalmente atteggiamento e divenne distratto, quando non apertamente ostile. Lòpez Obrador poi perse – grazie soprattutto agli eterni brogli – e la colpa ricadde proprio su quegli irresponsabili con il passamontagna, e in particolare del loro portavoce, Marcos.
Passati sei anni e trascorsa un’altra elezione presidenziale (nel luglio scorso), regolarmente persa dal centrosinistra e vinta questa volta dal risorto Pri (il partito regime che aveva governato per 70 anni) e dal suo candidato Enrique Pena Nieto, gli zapatisti – nel comunicato di qualche giorno fa – si tolgono un paio di sassi dagli scarponi: “Loro – si legge – non hanno bisogno di noi per fallire, noi non abbiamo bisogno di loro per sopravvivere”. Già, nel frattempo gli indigeni zapatisti hanno organizzato la loro democrazia (quella del consenso, che non contempla il dominio della maggioranza), nonché la loro economia, le loro scuole, i loro posti di salute, ecc. Tutte cose che funzionano tanto bene da respingere gli attacchi subdoli dei paramilitari addestrati dall’esercito federale e da attrarre gli indigeni non zapatisti che, nei villaggi “assistiti” dal governo, stanno molto peggio.
Ma l’Ezln insiste. Nel comunicato si legge che da ora in poi non solo l’Ezln parlerà solo con i media indipendenti, bensì che terrà relazioni con organizzazioni e movimenti – in Messico e in tutto il mondo – che lavorino per “un’alternativa non istituzionale di sinistra”.
Che cosa sia, esattamente, nel sud del Messico, un’”alternativa non istituzionale di sinistra” è ormai chiaro: è il fatto che i ribelli indigeni hanno voluto e saputo organizzare un altro modo di vita della società – alle loro condizioni ambientali e culturali – senza sentire il bisogno di affidare questo cambiamento a una qualche “rappresentanza” e a un cambio elettorale. Siccome un cambio elettorale è impossibile, in un paese come il Messico dominato dai grandi poteri economici e dal narcotraffico e dai media di massa (qualche mese fa vi fu una rivolta studentesca contro la televisione principale, Televisa, e le sue sistematiche menzogne e manipolazioni), allora – comunicano gli zapatisti con la loro esperienza concreta – il cambiamento ce lo facciamo da soli, autogovernandoci e creando un’economia utile a tutti, e ad esempio – dice sempre quel comunicato – “costruendo case che rispettino l’ambiente”.
Parrebbe molto lontano, il Messico. E tanto più lontana è la Selva Lacandona. Eppure questa vicenda dovrebbe far fischiare le orecchie a chi ha creduto di poter inaugurare un altro modo di fare politica, diverso da quello dei partiti. E di poter allo stesso tempo partecipare alle elezioni con questo nuovo stile (e i contenuti conseguenti). Bene, può essere che, di questa equazione valesse il primo enunciato, far politica in modo differente, ma non il secondo. Almeno, questo è quel che suggerirebbe l’esito dell’incontro con i partiti e del tentativo di fare con loro una lista elettorale. Come dice uno di quelli che – sulla pagina Facebook di Alba, promotore principale dell’appello “Cambiare si può” – spiegano perché hanno votato “no” al referendum telematico: “Non ci sto a vecchie forme di politica in cui le scelte sono calate dall’alto, avevo firmato un altro appello di una politica ‘dal basso’”.

Invece, ha prevalso la legge ferrea che ha ispirato i media e gli intellettuali di sinistra, sei anni fa in Messico, e la maggioranza dei firmatari dell’appello “Cambiare si può”, una massima che qualcuno, in quella pagina Facebook, riassume in modo efficace: “Andare a votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”. Nessuna obiezione, nessun ragionamento e nessuna esperienza pratica (di quelle che si posso trovare qui in Italia, non parlo degli zapatisti) è riuscita a incrinare questa certezza ferrea. Andare a votare si deve. Votare per il meno peggio è obbligatorio.
Siamo proprio sicuri che sia vero? Intanto, è obiettivamente constatabile che al meno peggio non c’è fine. Io voto per Ingroia perché è l’opposizione di sinistra (va bene, facciamo lo sconto: Di Pietro è di sinistra?). Ma se si vuole essere ancora più realisti, allora è meglio votare il Pd, che è certamente (insomma, un po’) meglio di Monti. Anzi si deve votare per Vendola, che del Pd è la variante “di sinistra”. Ma se la gara fosse tra Monti e Berlusconi, per chi bisognerebbe votare?
Questo è il meno. Ammettiamo pure che con la “lista arancione” si possano eleggere venti o trenta parlamentari, e che tra essi non compaiano gli eterni capi e capetti di partito (ma non è così). Cosa potrebbe fare una tale pattuglia, poniamo venti deputati e dieci senatori, a voler essere ottimisti? Rifondazione comunista aveva, dopo il voto del 2006, ottanta parlamentari, che non sono riusciti a opporsi alla Tav, alla base di Vicenza, alle “missioni” militari all’estero, e non hanno saputo modificare la legge Bossi-Fini e cancellare i centri di detenzione per migranti, solo per citare i casi più clamorosi. E Rifondazione era al governo. Oggi, dopo l’affermazione della dittatura finanziaria, dell’”austerità” e del fiscal compact, che ha reso il parlamento (tutto intero) un’appendice inerte della Banca centrale europea e del Fondo monetario, trenta parlamentari “arancione” cosa potranno fare, se non gridare, sbracciarsi e andare in tv a protestare (cosa niente affatto certa, e comunque nei talk show tutti sembrano pazzi allo stesso modo)?
Viceversa, quale prezzo si è pagato per questo risultato? Un prezzo molto alto, il principale dei quali consiste nel fatto che un movimento nato per rovesciare modo d’essere e scopi della politica di sinistra ha finito con il contribuire – per quanto a maggioranza – a un lista elettorale creata a tavolino, con un leader inventato e con un simbolo in cui la sola cosa visibile è il cognome del “candidato premier”. E questo non potrà purtroppo che provocare delusione e depressione, tra le molte persone che non pensano che “votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”.
C’è da sperare che queste persone, quasi sempre collegate a movimenti reali, sul territorio e nella società, sappiano guardare a questa vicenda attribuendole l’importanza che ha: molto scarsa. Alla fine di febbraio la febbre elettorale calerà bruscamente e si potrà riprendere a lavorare su quell’altro modo di far politica. Quello che appunto gli zapatisti – e con loro decine di movimenti sociali in tutto il mondo – hanno dimostrato che è possibile, anzi necessario, cercare.

martedì 1 gennaio 2013

Sbagliando ci si azzecca

Luciano Granieri


Il dado è tratto.  Gli iscritti di "Cambiare si può"  hanno deliberato  con votazione in  internet. Il neo movimento tenuto a battesimo da Livio Pepino, Marco Revelli e Chiara Sasso  -   che rifiuta il leaderismo, che non vuole riproporre l’esperienza della lista arcobaleno composta da Pdci, Prc e Verdi,  che non vuole più segretari di partito protagonisti -  deve confluire in “Rivoluzione Civile”. La nuova forza  è guidata da un  leader acclamato come  il magistrato in aspettativa elettorale , Antonino  Ingroia  e  candida  i segretari, di Rifondazione, Ferrero, dei verdi, Bonelli e dei Comunisti  Italiani, lo schifato Diliberto, che dopo aver  inciuciato con il Pd ha scelto il cavallo di “ Ingroia”  per provare a rientrare in Parlamento.  Cioè  la maggioranza degli iscritti di "Cambiare si può", il 64,7%,  ha deciso di confluire in un movimento che è l’esatto contrario di quanto prefigurato  nell’appello di adesione lanciato dai promotori.   Gli stessi iscritti decretando il  dissolvimento di cambiare si può, in Rivoluzione Civile, hanno deciso di accettare il decalogo, non propriamente anticapitalista,  che sta alla base del movimento di Ingroia,  nonostante ne avessero preso le distanze  fino a ieri, anzi lo avessero praticamente bocciato.  Ora questi iscritti dovranno “INGROIARE”  il decalogo tutto d’un fiato, compreso l’indigesto articolo sei, che si preoccupa di difendere gli imprenditori dalla mannaia delle tasse,   dovranno digerire anche quello che non c’è , ossia l’abolizione del fiscal compact. A me francamente interessa il giusto, ma quei compagni che , a chiacchiere, parlate e scritte sui social network,  se la prendono con l’ondivago Diliberto, con l’incoerenza dei comunisti italiani, con la possibilità di fare accordi con il Pd,  e poi si incaponiscono , dentro la federazione della sinistra prima,  e ora in Rivoluzione Civile, a stare insieme con i suddetti reietti  e a correre il rischio di subire scenari indigesti ,  mettono un po’ tristezza.  Qualche giorno fa sono stato severamente ripreso perché in un  POST PRECEDENTE avevo scritto che “Cambiare si può” era un tutt'uno   con “Io ci sto” , il movimento guidato da Ingroia, trasformatosi ora in “Rivoluzione civile” . Chissà forse gli iscritti  di Cambiare si può  si sono convinti  che non meritavo quell’ignominia  per l’errore commesso e dunque con il loro voto,  hanno pensato di rendere esatto ciò che avevo scritto. Grazie di cuore compagni. 

Dov’è la sconfitta?

Antonio Moscato. Fonte http://antoniomoscato.altervista.org


Assurdo parlare di vincitori e vinti in una contesa che ha coinvolto meno di 7.000 compagne e compagni. Parlo delle elezioni tra gli iscritti a “Cambiare si può” per decidere se accettare la trasformazione in “Rivoluzione civile” con simbolo e guida di Ingroia. Mi sembra assurdo esultare perché il SI si è conquistato il 64,7% dei votanti (cioè esattamente 4.468). Un po’ pochi per portare avanti un progetto che era giustamente apparso interessante e positivo, e che invece conferma la drammatica crisi dei quattro partiti che hanno fortemente sponsorizzato il voto a favore.
In realtà sarebbe meglio parlare di un solo partito, che a differenza degli altri tre esiste ancora e non solo sulla carta, e di cui abbiamo incontrato nelle assemblee generosi militanti (che magari scambiavano come un attacco preconcetto al partito in quanto tale quella che era solo legittima diffidenza per quei loro dirigenti che hanno effettivamente gravi responsabilità per la crisi della sinistra). Ma il PRC avrebbe fatto meglio se in questi anni avesse utilizzato le sue forze come le ha mobilitate in questi giorni con una campagna di mail e sms di denigrazione di chi non era convinto dell’imposizione di Ingroia.
Ingroia suscita diffidenze tra molti compagni, perché è un candidato leader che non solo si preoccupa più degli imprenditori che dei lavoratori, ma perché continua testardamente a riproporre un’alleanza con il PD, e a lamentare che Bersani rifiuta il dialogo. Non solo all’inizio, ma perfino nell’intervista a “Repubblica” di ieri, 31 dicembre, Antonio Ingroia ha ribadito che la “battaglia antimafia ha bisogno dell’unità di tutti”. E ha continuato a rivolgersi al PD, che logicamente non solo “risponde con freddezza”, ma gli contrappone un altro magistrato con la stessa valenza: Pietro Grasso. A cui Ingroia, certo mal consigliato, non è riuscito a rispondere senza la caduta di stile delle delegittimazioni offensive e quindi controproducenti.
Non occorre essere “puri e duri” (termine ereditato dal peggior repertorio burocratico dell’ultimo PCI, e non a caso usato largamente nelle mail di questi giorni) per temere di delegare la rappresentanza di un movimento largo e articolato a un leader assoluto, con tanto di nome scritto a caratteri cubitali, che usa per giunta a volte argomenti poco efficaci: la sua unica quasi ossessiva preoccupazione, è la mafia, come se tutti i mali dell’Italia e dell’Europa dipendessero dalla mafia e non dal normale funzionamento del capitalismo, che fin dai tempi di Marx era intrecciato  largamente con svariate forme di criminalità. Eppure Ingroia, se si fosse fermato un po’ più in Guatemala, avrebbe scoperto che il fenomeno in forme diverse è presente in gran parte dell’America Latina, non necessariamente ad opera di baffuti esponenti siciliani. E non parliamo poi della Russia e dei Balcani. La mafia siciliana è solo una particolare variante, rispetto ad altre con diversa origine. Per giunta non è efficace ridurre le accuse al PD di voler solo arginare e non estirpare la mafia: a parole lo hanno detto tutti i governi, anche di centro sinistra, e la mafia e le altre forme di criminalità stan tutte lì… E c’è un Grasso a togliere forza a questi argomenti.
Il gruppo dirigente del PD non sa far politica, ma non al punto di non saper scovare alleati contro la concorrenza di Ingroia, da Grasso a Pisapia (vediL'ingenuo Pisapia)
Ed è possibile che i compagni, tanto attivi con le mail contro chi vuole “stare a guardare dalla finestra del salotto”, non sospettino che a molti compagni può legittimamente dar fastidio l’elogio che Ingroia, nella stessa intervista di ieri fa alla “magistratura e le forze dell’ordine”? Soggetti “che dovranno sentire rinnovato e ancora più forte il sostegno nel loro operato, che ha consentito gli straordinari successi che conosciamo”… Occorre essere puri e duri per non sentirsi rappresentati da queste parole?
Avevo scritto più volte che qualunque fosse stato l’esito del voto bisognava continuare a ragionare tutti insieme sulle cose da fare, ma anche sulle ragioni del progressivo sprofondamento delle sinistre. Ma come farlo con chi per delegittimare il NO, lo attribuisce alla “aristocrazia della casta giornalistica di Viale, Ginsborg ed altri”, mentre invita a “stare assieme e intervenire sull’aristocrazia, ma onesta, degli Ingroia, che ricorda il segnale di classe del codice penale”? Incredibile ma vero. Ovviamente l’altra “aristocrazia” sarebbe disonesta…
Ho pensato, leggendolo, che a scrivere questo sarà stato forse un poliziotto o un carabiniere (ne avevo trovati come segretari di circolo in qualche paese del Salento, ma credevo che fosse un’aberrazione locale). Ma come si fa dopo questi argomenti a trovarsi ancora insieme? La denigrazione non assumeva solo la forma ridicola di presentare come appartenenti a una presunta “casta giornalista” compagni che non sono neppure giornalisti di professione ma hanno solo la colpa di saper scrivere. C’era la contrapposizione sistematica tra “i poveri bidelli” e “i professori”, o i “nomoni” (traduco: chi ha un nome conosciuto, magari per decenni di militanza, mentre il criterio ovviamente non vale per Ingroia).
Lasciamo da parte il repertorio di critiche sprezzanti ai “professori col lapis rosso e blu” che farebbero “l’analisi grammaticale di ogni contributo” allo scopo di “ricercare in essi un purismo ideologico”. Si arriva perfino a considerare una bizzarra forma di settarismo la preoccupazione per il ruolo corruttore delle istituzioni borghesi (in cui dietro l’ironia, traspare che chi scriveva così aspirava evidentemente ad “infiltrarsi” nuovamente al loro interno), come se il discredito di un partito che era nato bene, e aveva fatto un buon passo avanti nel 1998 rifiutando di ingozzare altri rospi, non fosse stato potentemente alimentato poi dalla discordanza tra le enunciazioni programmatiche e la grossolana pratica di adattamento alle regole di lorsignori quando finalmente è arrivato al governo, o meglio nell’anticamera del governo…
Possibile che questi compagni non si rendano conto dell’effetto repulsivo del “ritorno di un ceto politico della sinistra già «radicale» che si ripresenta sulla scena senza aver mai davvero fatto i conti con le sue scelte degli anni passati”? Sono osservazioni del lucido articolo di Piero Maestri, Oltre le elezioni , che proseguiva notando quanto fosse “imbarazzante vedere che all’intervento di un’attivista contro la base Dal Molin come Cinzia Bottene” seguissero il 23 dicembre poi “quelli di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi che quella base militare ha accettato e sottoscritto (così come l’acquisto degli F35) senza fare nemmeno un briciolo di autocritica (e magari le loro scuse a quelle e quegli attiviste/i) e senza nemmeno chiedersi se in fondo l’assenza della «sinistra radicale» dal parlamento non sia avvenuta proprio per quella partecipazione al governo e l’incapacità di pensarsi davvero come alternativi al centrosinistra (siamo infatti ancora all’infausto detto «in politica mai dire mai» di bertinottiana memoria).”

Buon anno compagni

a cura di Luciano Granieri


lunedì 31 dicembre 2012

... e per finire, musica da ballo e cotillon

Luciano Granieri


Dal Savoy Ballroom di Harem, New York, la redazione di Aut nella persona del sottoscritto, presenta una serata  indimenticabile di musica da ballo. Con le stupende voci di De De Bridgewater, dei Manhattan Transfer,  fra i quali spiccano Janis Siegel e Cheril Quentyl, chiudiamo l’anno vecchio  e iniziamo l’anno nuovo nel segno dello swing. Jazz a parte auguro a tutti un buon 2013. Non nascondiamoci dietro  a un dito, se il 2012 è stato un anno di lotta, il 2013 sarà ancora più duro.  Godetevi la musica. Buon anno resistente a tutti.