Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 3 gennaio 2015

I percorsi di Podemos

 Manuel Gari(i) . Pubblicato sul numero 611 di “Inprecor”. 
Traduzione di Titti Pierini

Sullo sfondo di una vasta e grave crisi economica e sociale e del susseguirsi ininterrotto di episodi di corruzione che hanno colpito quasi tutte le forze politiche con rappresentanza nelle istituzioni, è comparso nel marzo del 2011 il movimento degli indignados (indignati), seguito da manifestazioni di massa in decine di città dello Stato spagnolo. La mobilitazione sociale ha evidenziato la perdita di credibilità dei partiti principali, espressa con lo slogan “non ci possono rappresentare”, e la crisi di legittimità del sistema politico ereditato dalla transizione post-dittatura, il cosiddetto “sistema della riforma”, che ha portato alla Costituzione del 1978, risultato del patto dei socialisti e comunisti con la destra uscita dal franchismo.
Nello Stato spagnolo si è in piena situazione di emergenza sociale. Disuguaglianza e povertà sono aumentate in maniera allarmante. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) stima che disoccupazione e riduzione dei salari siano le cause di fondo di questa situazione, la cui concreta conseguenza è che il potere d’acquisto delle famiglie si è mediamente ridotto del 17%, una diminuzione che arriva fino al 43% per quel terzo della popolazione che guadagna di meno.
Nonostante le consistenti mobilitazioni, come quelle dello sciopero generale del 29 marzo 2012, le 100.000 persone radunatesi a Madrid l’11 luglio 2014 in solidarietà con i minatori, le “maree” bianca e verde contro la privatizzazione dell’insegnamento e dell’istruzione, le iniziative contro gli sfratti delle Associazioni delle vittime delle ipoteche, il milione e mezzo di firme per ottenere che il parlamento discutesse una proposta di legge di iniziativa popolare per un alloggio dignitoso, o l’impressionante manifestazione riuscita delle Marce per la Dignità del 22 marzo 2014, il governo del Partito Popolare (PP) non ha sostanzialmente ceduto. E questo, malgrado alcune parziali vittorie, ad esempio quella dei lavoratori dei parchi e giardini e della pulizia della città di Madrid contro i licenziamenti, il blocco della privatizzazione del sistema sanitario nella regione di Madrid, o la vittoria dei residenti contro progetti speculativi nel quartiere Gamonal, a Burgos.
Una sola vittoria chiara e netta su un tema centrale si è avuta a livello dello Stato: il PP è stato costretto a ritirare il suo progetto reazionario contro il diritto delle donne a decidere sull’aborto, e questo ha provocato le dimissioni del ministro della Giustizia. Agli occhi di gran parte degli attivisti, la lotta sociale non raggiungeva i suoi obiettivi perché occorreva combinarla con quella politico-elettorale.
In questo contesto, in cui si combinano la disaffezione verso i partiti istituzionali e l’incapacità della mobilitazione sociale di rovesciare la situazione politica, Podemos è stato visto come strumento del cambiamento da parte di molti attivisti sociali come pure di ampi settori della popolazione. Se ne è avuta la conferma alle elezioni europee, sia con i risultati (1.200.000 elettori, pari al 7,8% dei voti espressi e 5 deputati eletti), sia con la rapida creazione di circoli e la partecipazione ai comizi. Ma, oltre a questo, anche con l’affluenza in massa, da quel momento, di attivisti di sinistra e di persone non militanti, incluso gente senza esperienza politica, nei circoli di Podemos.

Il successo di Podemos si spiega con tre fattori:
·           Innanzitutto, un discorso chiaro di radicale denuncia delle vecchie pratiche politiche antidemocratiche con cui Podemos vuole rompere e un messaggio diretto e semplice: è possibile promuovere una politica alternativa ai diktat della Troika. Messaggi accompagnati dalla denuncia della subordinazione alla Troika di una “casta” politica corrotta installata negli ingranaggi dello Stato, causa della politica di austerità e dello stesso protrarsi della crisi.
·           In secondo luogo, il fatto di avere messo in piedi una struttura aperta (quindi ravvicinata) ai cittadini, consentendo loro di partecipare alle decisioni di Podemos: sulla scelta dei/delle candidati/e alle elezioni, sulla definizione della linea politica e l’elezione dei membri degli organismi dirigenti, sinonimo di trasparenza, di orizzontalità e di prossimità. Il che significa: dare la parola ai cittadini, al di là delle strutture di partito.
·           In terzo luogo, avere lavorato e ottenuto grande risonanza mediatica sia sui grandi mezzi di comunicazione di massa audiovisivi, sia fra le reti sociali.
 Un sisma politico
 Per questo l’“effetto Podemos” ha destabilizzato il panorama politico e il sistema dei partiti, investendo in particolare il Partito Socialista Operaio spagnolo (PSOE), come pure Sinistra Unita (IU). Il primo cerca di ricomporre la propria direzione, ma si vede al contempo costretto a dimostrarsi disponibile a patti di Stato con il PP per contrastare la minaccia di “rottura”. Da parte sua IU, secondo i sondaggi attualmente la più colpita dall’ascesa di Podemos, è nel pieno di un processo di rinnovamento del suo gruppo dirigente, con l’intenzione di convergere conPodemos, senza tuttavia mettere per questo in discussione taluni aspetti della sua politica istituzionale e neanche la sua partecipazione al governo regionale andaluso insieme al PSOE o il suo atteggiamento tollerante nei confronti del governo del PP in Estremadura.
In questo momento, i sondaggi riguardanti le elezioni generali [che erano previste per la fine del 2015 alla data della stesura dell’articolo], registrano l’intenzione di voto per Podemos tra il 18% e il 22%, con la possibilità che finisca in testa, cosa che equivarrebbe al 25-27%. Podemos diventerebbe in tal modo la seconda forza e Pablo Iglesias è uno dei leader più stimati dalla popolazione.
L’ipotesi che Podemos riesca a ottenere la maggioranza sufficiente per arrivare al governo tende a diventare un incubo per i “poteri effettivi” dentro e fuori  l’Europa. La potenziale irruzione di una forza suscettibile di infrangere l’alternanza tra la destra e la socialdemocrazia al potere negli ultimi trent’anni, che aspira a spazzare via la “casta” e a cambiare rotta è sufficiente a dimostrare che la paura ha cambiato campo.
L’eventualità dell’accesso al governo di Podemos, come di Syriza in Grecia, è un’assoluta anomalia storica nei sistemi bipartitici europei: un punto di rottura elettorale che riflette la grave crisi politica degli Stati spagnolo e greco. Per quanto tuttavia si tratti di un punto di rottura elettorale, non va dimenticato, parafrasando Marx, che in certi casi processi di rottura sociale cominciano esprimendosi prima attraverso rotture politiche (diciamo, in questo caso, la rottura con la casta) e che non vanno presi alla leggera. Nella crisi sistemica che stiamo vivendo è fondamentale capirlo, perché questo ci pone di fronte a prospettive politiche e sociali assenti da decenni.
Per questo, al di là dei limiti e delle contraddizioni che possiamo scorgere attualmente in Podemos, sarebbe un grave errore non capire le dinamiche di fondo e l’importanza storica del suo slancio.
 Un progresso vertiginoso
 Con oltre 280.000 iscritti e la creazione in meno di un anno di un migliaio di circoli che comprendono migliaia di attivisti, si è costretti a riconoscere che Podemos ha conosciuto una crescita senza precedenti. Ora,Podemos nasce in un momento di riflusso sociale, in un momento in cui la crisi non si traduce in sviluppo delle dinamiche associative, né in adesione ai sindacati, ecc., ma in cui aumenta la rabbia, ma anche la disperazione.
Non vi è dubbio che un momento del genere abbia influito sulla sua strutturazione e sul processo che è sfociato nell’Assemblea cittadina dello scorso ottobre, in cui Podemos si è dotato di un orientamento politico e di una struttura organizzativa, ma che non è stata un congresso del tipo di quelli cui siamo abituati.
C’è stata una prima fase con una riunione di militanti di tutto il paese a Madrid, in cui sono stati presentati i documenti e le proposte di risoluzioni posti in discussione (senza voto), e una seconda fase in cui il voto è avvenuto via internet. Alla prima hanno assistito 7.000 persone e, al momento del voto, la partecipazione si è alzata a 112.000 per i documenti e a 107.000 per le strutture dirigenti (Comitati cittadini, segreteria generale e segretario generale).
Il successo di Podemos non è stato solo quello di avere un discorso collegato a larghi strati della popolazione (come è accaduto a suo tempo al movimento degli indignati), ma di articolare un’organizzazione “aperta” di cui la gente si sentiva parte integrante. Questo costituisce un elemento importante, che però non è esente da problemi dal punto di vista democratico, come vedremo.
Passate le elezioni, essendo riuscito a trasformare l’indignazione, o perlomeno una parte di essa, in espressione politica, a Podemos si presentava una triplice sfida per trasformarsi in leva di cambiamento sociale, non solo in macchina per vincere le elezioni:
ŸOrganizzare i settori mobilitati fino ad allora.
ŸDotarsi di un programma politico concreto, al di là delle formulazioni generiche.
ŸTrasformare la speranza suscitata in vasti strati popolari in mobilitazione sociale e in base elettorale.
Ciò che Podemos potrà fare di fronte a queste sfide dipenderà dal processo apertosi dopo l’Assemblea cittadina (i congressi). Per ora, si può solo dire che nell’indirizzo maggioritariamente adottato questa prospettiva è del tutto assente. Tuttavia, lo sviluppo futuro diPodemos non evolverà solo in funzione di quanto si è deciso nell’Assemblea, ma dipenderà anche dai nuovi eventi interni ed esterni.
Lo sviluppo di Podemos è stato ed è ancora contraddittorio. Da un lato, si alimenta di settori che si organizzano per le prospettive che apre alla sinistra e per le nuove forme di partecipazione e di democrazia che inaugura; fra queste, la parte più attiva si organizza nei circoli e dovrà pensare a decidere assi di intervento al di là delle campagne elettorali. Dall’altro lato, tuttavia, il gruppo dirigente cerca di inglobare l’attività dei circoli in un progetto politico elettorale al 100%: questa direzione ha bisogno di restare al di sopra, praticamente al riparo da qualsiasi controllo democratico.
 Che cosa è emerso nell’Assemblea cittadina?
 L’Assemblea cittadina dello scorso ottobre ha costituito il momento per stabilire l’orientamento politico – non solo elettorale – e il modello organizzativo. Dal momento in cui il gruppo dirigente ha optato per la formula di documenti alternativi, respingendo ogni diritto di emendamento (l’unica possibilità era fondere dei testi), abbiamo assistito a un procedimento falsato in partenza. Si sono mescolate l’inflazione di documenti (più di 200 documenti, che la maggio parte dei votanti non ha neanche letto) e l’assenza di dibattito collettivo. In questo modo, la democrazia formale (la partecipazione di 110.000 persone al voto via internet) ha ucciso la democrazia reale, che si nutre del processo di dibattito collettivo. In Podemos non esiste spazio alcuno per effettuare una scelta approfondita, presupposto indispensabile per la qualità democratica, in quanto le formule virtuali, a mio avviso, sono utili, ma non consentono di approfondire il dibattito.
Nonostante questo, grosso modo, ci sono state due proposte alternative sul modello organizzativo, che in qualche modo catalizzavano due distinti progetti politici per Podemos.
ŒLa proposta sostenuta dalla squadra di Pablo Iglesias e che ha ottenuto una larga maggioranza si sforza di fare di Podemos uno strumento pressoché esclusivamente orientato all’avvento al governo alle prossime elezioni. Per queste persone, l’attuale crisi politica non può protrarsi all’infinito e si deve approfittare di questa “finestra d’opportunità” prima che si richiuda. Per riuscirci, credono che un gruppo dirigente monolitico e senza contestazione interna sia la condizione imprescindibile. Ne deriva la loro proposta organizzativa, in cui la struttura organizzata di Podemos (i circoli) non ha alcun ruolo. L’attuale gruppo dirigente si regge sul “BONUS” di legittimazione del loro leader agli occhi della larga maggioranza degli iscritti a Podemos, nonché sul controllo del gruppo addetto alla stampa per fare andare avanti le sue proposte, passando sulla testa di quel che pensano i circoli.
Si tratta di un fattore importantissimo, perché l’attuale gruppo dirigente ritiene indispensabile il proprio ruolo, non solo per costruire Podemos, ma per vincere le elezioni. La permanenza e preminenza dei membri della direzione, quindi, costituiscono di per sé un fattore determinante in ogni loro ragionamento. E per vincere le elezioni sono convinti che il programma debba moderare le sue precedenti formulazioni (quelle presentate alle elezioni europee) per riuscire a conquistare il centro e contendere al PSOE la gestione del campo socialdemocratico. Analoga è la loro posizione sul governo: il nucleo di Pablo Iglesias ritiene di essere la sola squadra in grado di garantire che vada in porto il progetto sociale e politico di Podemos.
Il progetto alternativo, alla cui testa si trovano gli/le eurodeputati/e Pablo Echenique, Teresa Rodríguez e Lola Sanchez, e intorno al quale c’è stata la convergenza di vari settori, sosteneva la necessità di strutturarePodemos dal basso in alto, con organismi di direzione collegiali e pluralisti. Attribuiva maggiore importanza al movimento politico-sociale che non alla pura e semplice formula elettorale.

Quanto al documento politico adottato dall’Assemblea, contiene una buona analisi della situazione, ma non vi si trova alcune proposta. L’unico messaggio è che lo sforzo va concentrato sulla vittoria alle legislative. Di conseguenza, il compito è quello di costruire l’apparato elettorale diPodemos e di non mettere in gioco il suo prestigio partecipando alle elezioni comunali (veto che non esiste per i governi delle regioni autonome), il che pone un problema politico di primo piano per l’importanza delle elezioni comunali nella configurazione dei rapporti di forza politici. A parte questo, però, un vuoto profondo. Scarsi elementi strategici, scarno bagaglio programmatico e nessuna riflessione o proposta sul movimento sociale.
Così come lo si è formulato, il modello di partito uscito dall’Assemblea cittadina è molto convenzionale, gerarchico e in mano a una élite assai ristretta. Benché secondo il modello organizzativo varato i responsabili eletti di Podemos possano essere revocati, esso non consente l’esercizio di un dibattito democratico con potere decisionale nelle strutture organizzate: Tutto rimane alla merce’ di quel che si decide in seno alla partecipazione cittadina via internet, in cui l’opinione pubblica, non essendo articolata a livello territoriale, è “dominata” dal nucleo dirigente tramite i mezzi di comunicazione di massa, dato che per la gente la figura di riferimento è Pablo Iglesias.
Così, un elemento positivo – la partecipazione aperta alle decisioni – si trasforma in un elemento dalla dubbia efficacia democratica nella misura in cui non si struttura attraverso naturali spazi territoriali. Così, quello che può sembrare uno spazio autenticamente democratico si traduce in spazio basato sulla disuguaglianza, senza alcun correttivo: non tutti hanno gli stessi accessi ai mezzi di comunicazione di massa. Così, la democrazia si trasforma in plebiscito, due cose in certo senso antagonistiche. Ad esempio, al momento di eleggere i candidati agli organismi dirigenti, il sistema delle liste bloccate elette a scrutinio maggioritario comporta che con il 75% dei voti si ottenga il 100% della rappresentanza, cosa che normalmente andrà bene per la candidatura che verrà appoggiata pubblicamente da Pablo Iglesias.
 La natura del progetto
 L’Assemblea cittadina ha chiuso una fase e ne ha aperta un’altra, i cui elementi essenziali sono tre: la trasformazione di Podemos in partito politico centralizzato e verticistico al massimo, l’esclusione dalla direzione dei settori più a sinistra e la svolta verso la preparazione della vittoria elettorale alle prossime politiche. Un obiettivo deciso come centrale ed esclusivo.
Il progetto verrà attuato tramite un modello organizzativo centralizzato e basato su una “macchina da guerra elettorale”, con alla testa la leadershipcarismatica di Pablo Iglesias, e con la ratifica delle sue decisioni grazie a un meccanismo plebiscitario, come è stato fino ad ora.
La sua strategia passa per l’adeguare il discorso alle esigenze elettorali e al “senso comune” dominante al livello di coscienza del grosso della popolazione cui si rivolge. Non si tratta dunque di un partito di militanti né di un partito-movimento. Si tratta di un partito elettorale di tipo nuovo, che non sembra aspirare a un ancoraggio territoriale, grazie alla deliberazione interna e alla partecipazione dei circoli alla sua costruzione.
Podemoscombina la scarsa concretizzazione del suo progetto di cambiamento sociale e il continuo riadattamento di questo in funzione delle esigenze elettorali e del sostegno sociale, con la formulazione di proposte concrete sempre più pragmatiche  volte a ricercare consenso nei ceti medi e a rafforzare la propria “rispettabilità” come forza politica. In questo senso, relega in secondo piano il rapporto con i movimenti sociali.
Il bilancio provvisorio che ne va ricavato è che in questo processo è risultato vincente il progetto rappresentato da Pablo Iglesias e dal gruppo che è stato eletto a far parte del Comitato cittadino. Un progetto che aspira ad agglutinare una maggioranza elettorale intorno alla polarizzazione di “gente” contro “casta”, “popolo” contro “oligarchia”, e che tende a subordinare a questa polarizzazione l’inserimento nel suo discorso e nel suo programma di altre risposte e domande in funzione del criterio: aiutano o no a costruire l’unità nazional-popolare la più ampia possibile per “vincere” le prossime elezioni politiche.
Ora, la legittima aspirazione a non perdere l’opportunità offerta dall’attuale crisi del regime e, ancor più, dal declino dei due principali partiti, porta a un’evoluzione del gruppo dirigente tendente a moderare il programma con cui si era presentato alle europee su problemi chiave. Si cerca così di apparire come un’alternativa di governo “realistica”, con il senso della “responsabilità di Stato”, di cui farebbero parte “i migliori” (le persone esperte in ogni singolo campo). La moderazione del programma elettorale e del discorso di Podemos è stata parallela alla crescita delle sue aspettative elettorali e al suo sviluppo verso un modello di comportamento vicino a quello dei partiti “acchiappa-tutto”.
Si è passati dalla ricerca della “centralità” – mettendo in primo piano temi cruciali che interessano larghi strati della popolazione, a prescindere dai riferimenti ideologici – al tentativo di contendere al PSOE il “centro” politico. Di qui la nuova immagine socialdemocratica che si progetta per cancellare il passato più a sinistra del programma elettorale delle europee.
Il progetto di programma economico, affidato a due docenti universitari, è economicamente keynesiano e politicamente socialdemocratico. È stato lo strumento che ha permesso di condurre in porto l’operazione. Il modello di comportamento populista della direzione fa sì che nel rapporto diretto e senza mediazioni con l’elettorato sia possibile combinare messaggi molto diversi. La strategia populista non è soltanto un “discorso vuoto”: Gli argomenti e le proposte della direzione di Podemos possono variare a seconda di quel che ritiene più opportuno ad ogni momento, e potremmo conoscere svolte in varie direzioni.
Non dobbiamo dunque analizzare Podemos come una forza anticapitalista o con vocazione a diventare tale, ma come un disegno nazional-popolare spagnolo (incluso con la contraddizione che questo gli crea in Catalogna e altrove), anti-neoliberista e a favore della rottura democratica con il regime del 1978. Una forza che – benché nella sua direzione, al vertice, non si sia lasciato spazio a coloro che sostenevano proposte diverse durante il percorso delle assemblee – fa i conti al suo interno con una pluralità di sensibilità e attivisti disposti a continuare a dare battaglia per “vincere” – non solo sul piano elettorale, ma anche su quello politico e sociale – creando e costruendo potere popolare.
 Verso avanti
 Ora resta da vedere il risultato che avranno sia il processo di articolazione interna (che include l’elezione dei Comitati locali e poi regionali e si concluderà a gennaio), sia quello delle elezioni comunali (maggio 2015), a cui Podemos non parteciperà con candidati propri ma all’interno di candidature di unità  popolare. La conclusione di entrambi questi processi consentirà di avere un quadro più completo della realtà organizzativa e istituzionale di Podemos, e del peso delle differenti sensibilità che ne fanno parte.
Finora, il nucleo dirigente – lo sottolineo, perché non mi riferisco ai militanti  di Podemos mantiene una calcolata ambiguità quando deve impegnarsi nelle iniziative di mobilitazione, come ha fatto di recente rispetto alle Marce per la dignità del 29 novembre. L’unico gesto mobilitante che abbia fatto il nuovo Comitato cittadino (organismo di direzione larga) è stato quello di fare appello a una manifestazione il 31 gennaio in difesa di Podemos dagli attacchi della destra, come strumento per misurare il sostegno sociale di cui dispone. Una manifestazione le cui modalità restano da decidere e che, da parte nostra, cercheremo di trasformare in denuncia della corruzione e delle politiche antisociali da condurre in modo unitario con altre forze, poiché come mera autoproclamazione di Podemos non andrebbe molto avanti.
A parte questo, tuttavia, il fenomeno Podemos ha innescato la comparsa in seno alle Comisiones Obreras (CCOO) di una tendenza critica,Ganemos-CCOO, che ha lanciato un manifesto sottoscritto da 1001 delegati/e sindacali. Questa tendenza esige la rivitalizzazione del sindacalismo, le dimissioni del segretario generale, si oppone al dialogo sociale [concertazione] e si richiama a un sindacalismo di lotta. Resta da vedere quale sarà l’evoluzione, ma non è assurdo puntare sul fatto che il fenomeno Podemos - come espressione della crisi politica e sociale – vada ben oltre l’angusto quadro elettorale che attualmente costituisce il suo progetto dominante.

Il ruolo di Sinistra Anticapitalista

Podemoscatalizza ed agglutina migliaia di attivisti, che vedono in questa forza politica uno strumento utile a far cadere il regime della riforma e ad affrontare la Troika. Sinistra Anticapitalista (IA), che ha partecipato al lancio dell’iniziativa, al di là delle importanti divergenze che ha con l’evoluzione attuale della direzione, non può e non deve rinunciare alla costruzione di questa alternativa.
Podemoscostituisce, di gran lunga, la migliore iniziativa che sia riuscita a promuovere la sinistra radicale da anni nello Stato spagnolo. Per questo è necessario seguire il lavoro di costruzione e di sviluppo di questa organizzazione, ricercando la convergenza al suo interno con altri settori e sensibilità con cui ci si possa mettere d’accordo vista dei problemi che si presenteranno in futuro, ad esempio: la democrazia interna, la partecipazione politica a partire dal basso, la sfida per un programma di rottura e l’inserimento nei movimenti sociali.
Ancor più, salvo novità che al momento non è dato prevedere, lavorare a consolidare i circoli di Podemos, al loro ancoraggio ai movimenti sociali e l’inserimento nelle mobilitazioni contro le politiche in atto, costituisce il migliore antidoto per evitare che Podemos resti limitato a un mero apparato elettorale o subordinato ai suoi eletti.
Nulla è scritto in partenza. Nel caso in cui arrivasse al governo, Podemossarà sottoposto a molteplici tensioni e pressioni, per lo scarso margine di manovra che hanno le politiche di cambiamento, anche quelle riformiste, nell’attuale contesto di crisi. Podemos non tarderà a vedersi costretto a scegliere se sottomettersi per “realismo” ai diktat dei mercati o sostenere con la mobilitazione sociale un programma di rottura con questi. Non si può neanche scartare l’eventualità che una vittoria elettorale di Podemosincoraggi la ripresa della mobilitazione sociale contro l’establishmentpolitico ed economico, cosa che aprirebbe lo spazio a un fronte di pressione popolare favorevole a un cambiamento a vantaggio del popolo e perché il governo non ceda al ricatto dei poteri finanziari.
Per questo, al di là delle sue contraddizioni, Podemos è lo spazio prioritario per avanzare verso la rottura con il regime del 1978 e l’austerità della Troika. Podemos è il progetto che debbono sospingere gli anticapitalisti dello Stato spagnolo. La referenza più forte di Podemosnella società è il fatto che rappresenta un movimento di rottura più che un possibile gestore “sano” del sistema.
Trasformare Podemos in strumento di necessario cambiamento sociale non sarà un lavoro facile: Di fronte all’impasse della mobilitazione sociale, le aspettative elettorali incidono pesantemente e ci sono difficoltà ad animare vita e funzionamento delle strutture di Podemos. Occorre cominciare a costruire un’organizzazione robusta in grado di affrontare le sfide attuali e porre freno alle dinamiche elitarie imposte dalla presente direzione di Podemos, che lasciano scarso spazio alla partecipazione militante.
Per gli anticapitalisti è fondamentale capire che, perché Podemos vada nella giusta direzione, è indispensabile animarne il funzionamento collettivo e riuscire a impegnarlo nelle dinamiche sociali. L’obiettivo è trasformarlo in un’organizzazione capace di rispondere ai bisogni della gente e di dare impulso alle mobilitazioni e all’autorganizzazione degli/delle oppressi/e. Riuscirci richiederà uno sforzo raddoppiato per IA, su vari terreni. Ad esempio, senza voler essere esaustivi: dare impulso al lavoro collettivo per consolidare i militanti anticapitalisti come quadri politici di Podemos, in grado di capire la situazione politica e le sfide che presenta, di avere la duttilità sufficiente per reagire a un processo mutevole e di sviluppare iniziative politiche a livello sia dei movimenti sociali sia delle istituzioni.
Concretamente, visto che il regolamento interno di Podemos vieta che al suo interno esistano partiti di portata nazionale, IA dovrà modificare la sua forma giuridica. La strategia di promuovere le mobilitazione e l’autorganizzazione degli oppressi implica che gli anticapitalisti diano vita a uno spazio di lavoro e di elaborazione che permetta che si generino idee, coesione, proposte. Ma presuppone anche che lo si faccia con quei settori che, in seno a Podemos, condividono gli obiettivi di trasformazione democratica e di rafforzamento delle posizioni di sinistra.
Non sfuggono a nessuno le difficoltà del momento e le contraddizioni esistenti in Podemos. La soluzione non è né sfuggirle né adattarsi alla dinamica predominante, ma di mantenere la necessaria tensione. È la sola garanzia per avanzare nella costruzione di un’alternativa anticapitalista. I progressi lungo questo cammino sono importanti non solo per la situazione nello Stato spagnolo. I successi di Podemos alle elezioni europee e il folgorante sviluppo che ne è seguito hanno avuto un’eco importante e costituiscono un argomento di riflessione nella sinistra anticapitalista europea. I passi che si faranno nello Stato spagnolo avranno rilevanza anche per questi settori, impegnati nella costruzione di alternative politiche anticapitaliste in tutta Europa.

[i] Manuel Garí è membro della redazione della rivista “Viento Sur”, militante di Izquierda Anticapitalista (IA, sezione della Quarta Internazionale nello Stato spagnolo) e membro di Podemos. Per altri articoli su Podemos si veda dello stesso autore http://www.vientosur.info/?article9668 (Somos todos Podemos?) e anche, di Martí  Caussa,Podemos y el derecho a decidir, http://www.vientosur.info/?article9681 (su una prima verifica in Catalogna della pericolosità dell’adattamento al senso comune teorizzato da Pablo Iglesias).

Come cambia la sanità provinciale dopo l'approvazione dell'atto aziendale

COORDINAMENTO PROVINCIALE SANITÀ FROSINONE


          Il prossimo mercoledì 7 gennaio, alle ore 11.00, presso la Sala Consiliare della Provincia, il Coordinamento Provinciale Sanità terrà una conferenza stampa, alla quale sono invitati i 91 sindaci della provincia, per illustrare e confrontare  la situazione attuale della sanità con quella del recente passato. Saranno, altresì, illustrate le prossime iniziative per garantire il diritto alla salute, per difendere e ottenere una sanità dignitosa ed a misura d’uomo.
Saranno esaminati i risvolti inerenti al depotenziamento che le strutture ospedaliere subiranno (o meglio stanno già subendo) in seguito all’approvazione dell’Atto Aziendale da parte della Regione. Per non tacere delle scelte strategiche sbagliate, quali: le case della salute; quelle della maternità; riduzione degli screening (in particolare quelli della mammella) ed, infine, programmi di abbattimento delle liste d’attesa da migliorare. Sarà dedicata particolare attenzione al polo oncologico provinciale e al DEA di II livello.
Il tema della conferenza è: “L’organizzazione sanitaria ospedaliera e territoriale della provincia, alla luce dei provvedimenti adottati e di quelli futuri della dirigenza Asl di Frosinone e dalla regione Lazio. Le iniziative del coordinamento per il dea di 2° livello e per una sanità’ efficiente e di qualità sull’intero territorio provinciale”.
All’appuntamento sono invitate a partecipare  tutte le Associazioni della Provincia, con l’auspicio che possa nascere un serio confronto ed un’azione ancor più forte, nel segno della massima partecipazione, condivisione e trasparenza, che da sempre sono le colonne portanti che da sempre caratterizzano il Coordinamento.

Frosinone, 3 gennaio 2015
Il Coordinamento Provinciale Sanità

venerdì 2 gennaio 2015

Il lato oscuro della Germania: l'ascesa dei nazionalisti di Pegida

Jacopo Di Miceli  fonte: http://tagli.me/

Esiste una Germania sconosciuta, molto lontana da quella osannata dai media. Una Germania povera, senza LAVORO e semispopolata a causa dell’emigrazione. Una Germania impaurita, in cui, 70 anni dopo la fine del nazismo, l’estrema destra sta inaspettatamente risorgendo.
PEGIDA – Nel giro di poche settimane, il 41enne Lutz Bachmann, figlio di un macellaio, è diventato «l’uomo che minaccia il futuro della Germania». A inizio ottobre ha creato su Facebook un gruppo anti-islamico con poche centinaia di iscritti. Mentre sto scrivendo, la pagina conta più di 90 mila fan, un trend in CONTINUA crescita. Si chiama Pegida, acronimo che in tedesco significa “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”.
Ogni lunedì sera, a Dresda, organizza una manifestazione contro le politiche di immigrazione del governo. Erano meno di 500 persone all’inizio, poi, a dicembre, l’exploit: 10 mila l’8 dicembre, 15 mila il 15 dicembre, più di 17 mila il 22 dicembre. In Germania è improvvisamente nato un movimento nazionalista di massa.
Giornalisti, politici e commentatori sono sconcertati. «Nessuno ha presagito la nascita del movimento: né la politica né la stampa», ha scritto Claus Christian Malzahn sul quotidiano Die Welt. Il ministro della giustizia, Heiko Maas, ha definito il movimento «una vergogna per la Germania», mentre Ralph Jäger della Spd ha spregiativamente chiamato i suoi componenti «neonazisti in doppiopetto». Per reazione, manifestazioni anti-Pegida si sono nel frattempo tenute in varie città del Paese.
Il 22 dicembre, parlando in un microfono da un palco improvvisato, un container scoperchiato nell’affascinante Theaterplatz di Dresda, Bachmann ha scandito frasi contro gli immigrati che vivono alle spalle dei tedeschi. «Noi siamo per i veri valori tedeschi, oggi Neukoelln (il quartiere turco di Berlino, ndr) è dappertutto, spendono tutto per i profughi e se ne infischiano dei nostri anziani poveri. Noi lottiamo per il futuro dei nostri figli»[1].Per Bachmann i veri valori tedeschi sono quelli cristiano-ebrei contenuti nella Costituzione.

Davanti a lui sventolavano bandiere della Germania e striscioni contro l’islamizzazione dell’Europa. «Wir sind das Volk», “noi siamo il popolo”, urlava la folla. È lo stesso slogan delle “manifestazioni del lunedì sera” che si svolgevano a Lipsia venticinque anni fa, quando gli abitanti dell’ex Ddr reclamavano la democratizzazione dell’Est comunista. 
Stavolta, però, l’impressione che suscita lo slogan è ben diversa: quando i seguaci di Pegida usano la PAROLA “popolo” (Volk) non sembrano suggerire una semplice contrapposizione tra una CLASSE politica chiusa e una massa di cittadini privi di diritti, come nel 1989, ma sembrano piuttosto conferire al termine Volk un’allarmante connotazione etnica, come a separare nettamente i tedeschi, i “patrioti”, dagli immigrati, gli stranieri.

Una sfumatura di non poco CONTO, visto che, diversamente dall’italiano, in tedesco “popolo” è un vocabolo denso di significati: nel corso del romanticismo evocava una suggestiva comunione dell’anima tedesca con la natura e il cosmo, nonché un ideale nazional-patriottico, ma all’inizio del Novecento il suo SIGNIFICATO degenerò, impregnandosi di accezioni razziste, e il Volk divenne il cuore dell’ideologia hitleriana. «La Germania si sta svegliando. Per la nostra patria (Vaterland), per la Germania, per il nostro Paese, il Paese dei nostri antenati, dei nostri discendenti e dei nostri figli», ha detto uno dei leader di Pegida, riesumando un altro termine dell’era nazista, Vaterland.
NEONAZISTI? – Recatosi alla manifestazione del 22 dicembre, il corrispondente di Repubblica, Andrea Tarquini, è rimasto sorpreso dal «clima da festa paesana» che regnava nella Theaterplatz. Non ha visto emblemi nazisti, razzisti o antisemiti, soltanto una «folla di gente normale: più uomini che donne, ma molti giovani, coppie e famiglie con bambini. Teste rasate? Poche, qua e là miste nella folla, ma a bocca chiusa e senza distintivi»[2]. 
Le osservazioni di Tarquini, riconducendo la protesta nell’alveo di un tranquillizzante ritratto familiare da Oktoberfest, appena guastato da qualche mela marcia, paiono a prima vista rassicuranti ed escluderebbero il paventato ritorno del “tedesco cattivo”. D’altronde potrebbe suonare avventato bollare come estremiste più di 17 mila persone, come ha anche riconosciuto il ministro dell’interno della Sassonia, Markus Ulbig della Cdu, il partito di Angela Merkel.

Eppure, non si può fare a meno di giudicare inquietante il fatto che decine di migliaia di persone “normali” trovino a loro volta “normale” marciare al fianco di neonazisti e hooligan contro la minaccia, ritenuta da loro ormai imminente, dell’islamizzazione della Germania.

Mentre Bachmann sosteneva che presto persino l’espressione “albero di Natale” sarà abolita in nome della scristianizzazione del Paese, la folla di gente normale applaudiva. Allo Spiegel un dimostrante ha espresso il sincero timore di VEDERE un giorno le sue nipoti costrette a indossare il velo islamico, mentre una donna si è lamentata perché, a suo dire, i rifugiati acquistano costosi cellulari che lei non potrebbe mai permettersi. «L’Islam non è una religione pacifica. È una cosa con cui dobbiamo fare i conti. La nostra vita in Germania, così come la conosciamo, è minacciata», ha dichiarato alla BBC un normale uomo sulla cinquantina sorreggendo un’enorme croce cristiana dipinta con i colori della bandiera tedesca.
I servizi di SICUREZZA tedeschi (BfV) non prendono il movimento sottogamba. Sotto l’ombrello di Pegida si stanno infatti raccogliendo diverse frange estremiste, alcune delle quali già monitorate dalle autorità. Ci sono i neonazisti dell’Npd, il Partito Nazional Democratico di Germania, che alle ultime elezioni europee sono riusciti a eleggere un loro rappresentante e che a settembre hanno ottenuto il 4,9% in Sassonia. Ci sono elementi del Reichsbürgerbewegung, il Movimento dei Cittadini del Reich, il cui scopo è ripristinare i vecchi confini dell’Impero (Reich) tedesco. Sono stati poi identificati circa 300 hooligan della squadra di CALCIO locale, la Dynamo Dresda, anche loro appartenenti all’area dell’estrema destra.

A Pegida si sono inoltre aggregati seguaci di teorie della cospirazione. Udo Ulfkotte, ex giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung e autore del libro complottista Giornalisti comprati (un bestseller in GERMANIA), ha apertamente appoggiato il movimento ed è sceso in piazza nelle manifestazioni di Bogida, la succursale di Bonn di Pegida. Nel suo libro Ulfkotte denuncia di aver collaborato per 17 anni con la Cia e sostiene che una RETE di gruppi elitari, tra cui annovera il solito club Bilderberg, manovri l’informazione globale. La sua video-confessione, ripresa anche dal blog di Beppe Grillo, è stata rilasciata alla televisione Russia Today.

Non a caso i membri di Pegida, come ormai molte FORMAZIONI di destra in Europa (dal Front National in Francia alla Lega di Salvini in Italia), sono ferventi ammiratori di Putin: «Putin, hilfe uns!», “Putin, aiutaci”, gridavano il 15 dicembre, mentre qualcuno esponeva un cartello con su scritto «Germania fuori dalla Nato!». I media occidentali vengono così accuratamente evitati in quanto bugiardi, e quelli russi, considerati invece estranei alla manipolazione americana, accolti a braccia aperte.
Lo stesso leader di Pegida, Lutz Bachmann, ATTUALMENTE titolare di un’agenzia di pubbliche relazioni, ha alle spalle un passato criminale. Un giornale sassone locale, la Sächsische Zeitung, ha recentemente riportato la fedina penale di Bachmann, tra cui spiccano 16 furti, guida in stato di ebbrezza e senza patente, e spaccio di cocaina. Per sfuggire alla condanna, Bachmann scappò in Sudafrica prima di essere estradato in GERMANIA e scontare la sua pena.
L’unico politico tedesco di rilievo espressosi a favore di Pegida è Bernd Lucke, leader di Alternativa per la Germania (AfD), un partito anti-euro in rapida ascesa (ha preso il 7% alle europee di maggio) nonostante sia stato fondato appena nel 2013. Su posizioni conservatrici (è contro i matrimoni gay), Alternativa per la Germania «per certi versi assomiglia al Tea Party americano», osserva l’Economist. «In Sassonia [la cui capitale è Dresda, epicentro di Pegida, ndr], dove è più forte, ha puntato sempre di più sull’inasprimento dei controlli all’immigrazione e alla criminalità transfrontaliera, spesso con posizioni xenofobe». 
Un sito tedesco (afdodernpd.deGIOCA sulle ambiguità politiche della formazione di Lucke mettendo provocatoriamente a confronto le affermazioni degli esponenti di Alternativa per la Germania con quelle dei neonazisti dell’Npd e sfidando gli utenti a indovinare a chi attribuirle.

La POSIZIONE di Alternativa per la GERMANIA riguardo a Pegida non è ancora ben definita, dato che la stessa ideologia del partito è in una fase embrionale («per esempio, nel partito si discute se criticare Vladimir Putin o coccolarlo», spiega sempre l’Economist), ma il sospetto è che Lucke si stia facendo ingolosire dalla possibilità di cavalcare l’onda della protesta di Pegida per aumentare i suoi consensi.
Un allarmante sondaggio dello Spiegel ha d’altronde rivelato che ben il 34% dei tedeschi concorda con la tesi di Pegida: la Germania rischia di essere islamizzata. Sembra quasi per la gente “normale” esprimere opinioni intolleranti, xenofobe e razziste stia diventando socialmente accettabile, in una PAROLA: “normale”.
ESCALATION XENOFOBA – La Germania è il primo Paese al mondo per richieste di asilo. Le guerre in Medio Oriente hanno fatto schizzare negli ultimi anni il numero di rifugiati: le DOMANDE di asilo (circa 110 mila nel 2013) sono quasi quattro volte superiori a quelle PRESENTATE in Italia, dato che la maggior parte dei migranti che sbarcano sulle nostre coste (in particolare i siriani) aspirano a trasferirsi in terra tedesca. Le stime per il 2014 delineano uno scenario inaudito per la Germania: 200 mila profughi, l’80% in più rispetto allo scorso anno, il che porta il Paese della cancelliera Merkel ad accogliere un terzo di tutti i rifugiati d’Europa.
Come accade nelle periferie di Roma, anche in quelle tedesche l’estrema destra soffia sul fuoco, sobillando gli abitanti dei quartieri contro l’apertura di nuovi CENTRI di accoglienza. Nel 2013 gli attacchi xenofobi contro i rifugiati sono stati il doppio rispetto al 2012. Nel 2014 sono persino aumentati (86 fino a settembre), ma le cifre potrebbero essere sottostimate. Secondo le autorità, in tutta la Germania vi sono circa 10 mila estremisti di destra disposti a ricorrere alla violenza contro gli immigrati stranieri.
Il politologo tedesco Werner Patzelt, interpellato dal Washington Post, ha criticato il governo Merkel, osservando che al momento manca una strategia politica efficace per integrare i migranti nella società. Questo sta inevitabilmente determinando l’insorgere fra la popolazione di una crescente insofferenza nei confronti dei rifugiati.


Pegida appare, insomma, come la RISPOSTA sbagliata a un problema concreto che sia il governo tedesco sia l’Unione Europea faticano a risolvere. La situazione, di per sé già drammatica, è poi acuita dalle notizie che provengono dalla Siria e dall’Iraq, e dal conseguente timore che emuli dell’Isis approdino nel vecchio continente per compiere attentati.
Tuttavia, una contraddizione non trascurabile rischia di alterare lo spaccato che abbiamo tratteggiato.

In Sassonia, dove è nato Pegida, gli stranieri rappresentano solamente il 2,5% della popolazione, e i musulmani sono appena 4000 su 4 milioni di abitanti, lo 0,1% [3]. Inoltre, le stesse circostanze che hanno condotto alla fondazione di Pegida sembrano immerse in un gigantesco equivoco. Alla Bild Bachmann ha infatti raccontato di aver creato il gruppo Facebook, da cui sarebbe poi scaturito il movimento, dopo aver visto in Prager Strasse, la via dello shopping di Dresda, un sit-in a FAVORE del Pkk, il partito dei curdi. Eppure i curdi sono di fatto le uniche forze terrestri su cui l’Occidente e i Paesi arabi moderati possono contare per sconfiggere il Califfato islamico. Possibile che Bachmann lo ignori?
Perché allora Pegida sta avendo più successo a Dresda che nella multiculturale Berlino? Perché l’islamizzazione è percepita incombente in una REGIONE in cui i musulmani sono una parte infinitesimale del totale della popolazione?
DRESDA, EX GERMANIA EST – Quando ancora si trovava imprigionata nei confini dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (Rdt), Dresda era soprannominata “la valle degli ignari”: era infatti l’unica AREA dell’Est comunista a non ricevere le emittenti televisive della Germania Ovest. Per più di 40 anni gli abitanti della valle dell’Elba sono rimasti isolati dal resto del mondo: non solo non potevano viaggiare, a causa delle limitazioni imposte dal regime comunista, ma non potevano nemmeno assistere da lontano ai cambiamenti che nel frattempo investivano i loro compatrioti a occidente, come l’imponente fenomeno migratorio dei turchi. 
La riunificazione, la globalizzazione e l’inizio di un seppur debole flusso di stranieri devono aver rappresentato uno shock culturale per molti tedeschi orientali.

Ma lo shock culturale non è nulla in confronto a quello economico patito dai cinque Länder dell’ex Rdt in seguito alla riunificazione tedesca, o – meglio – alla vera e propria annessione dell’Est alla Germania Ovest (la Repubblica Federale Tedesca, Rft). Da un giorno all’altro, senza alcuna gradualità, un’economia socialista, mai vissuta in un regime di libero mercato, fu costretta a dover fronteggiare la concorrenza spietata delle ben più produttive aziende occidentali e, per di più, a dover rinunciare alla propria moneta per adottare la pregiata valuta dell’Ovest. Nessun efficace paracadute fu fornito ai tedeschi dell’Est per sopravvivere al cambiamento radicale in atto.
La produzione industriale della Germania Est ha subito, negli anni successivi alla riunificazione, un tracollo dell’80%, una catastrofe che nessuno dei Paesi dell’ex blocco comunista è riuscito a eguagliare [4]. Il processo di deindustrializzazione è stato così marcato che in Sassonia, la REGIONE di Dresda, i posti di LAVORO nell’industria erano appena 160 mila nel 2008, a fronte degli 1,2 milioni pre-1989. Nel 1992 la disoccupazione effettiva, calcolando sia i fuoriusciti dal lavoro sia i lavoratori da ricollocare, era superiore al 30%. Appena due giorni dopo l’entrata in vigore dell’unione monetaria il prezzo della latte raddoppiò. Nel complesso il costo della vita all’Est è aumentato del 70,2% in un decennio.
Lo shock economico indotto dall’affrettato passaggio dal socialismo al capitalismo ha provocato un’emigrazione di massa dalla Germania orientale a quella occidentale: a emigrare sono in particolare giovani, donne e lavoratori qualificati, che partendo privano così l’Est delle uniche energie che potrebbero risollevarlo. 
All’emigrazione si sommano gli effetti deleteri causati dalla crollo della natalità e dell’invecchiamento della popolazione: era dai remotissimi tempi della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che in una regione dell’Europa centrale non si verificava un calo così pronunciato della popolazione (circa del 10%), per di più in un periodo di pace. 
La città di Dresda, ad esempio, ha perso 50 mila abitanti in 25 anni, 1/10 della popolazione, che sono stati rimpiazzati soltanto artificialmente, assorbendo nel comune i sobborghi circostanti. Le città dell’ex Rdt sono talmente spopolate che le amministrazioni locali non hanno avuto altra scelta che abbattere gli edifici vuoti per evitare un’eccessiva caduta dei PREZZI degli immobili.

La situazione per i cittadini dell’ex Germania Est è dunque tuttora critica. Il reddito di un tedesco orientale (come misura la MAPPA a lato tratta dal Washington Post) corrisponde circa ai 2/3 di quello percepito da un tedesco dell’Ovest. Il tasso di disoccupazione, superiore al 10%, equivale più o meno a quello delle regioni dell’Italia settentrionale (mentre nell’ex Rft è solo del 6%), ma si tratta di un dato che va integrato con il fenomeno tutto tedesco dei mini-job, i lavori precari scarsamente retribuiti (non più di 450 euro al mese) che interessano addirittura il 25% dei lavoratori in Germania. L’insieme combinato di questi fattori comporta che un tedesco orientale su cinque vive al di sotto della soglia di povertà: nell’area di Dresda 100 mila persone sono bisognose. Molte altre sono a rischio povertà.
Il MODELLO tedesco tanto acclamato sui nostri organi di informazione non potrebbe essere più distante.

LA COSTRUZIONE DEL NEMICO – A furia di essere concimata a dosi di shock economico-sociali, non sorprende che l’ex Ddr si sia tramutata in un terreno fertile per l’ascesa dell’estrema destra. Accanto alla Linke – la sinistra erede del partito comunista, che all’Est CONTINUA a prendere più voti che all’Ovest – si è presto affiancata la destra neonazista, pronta a offrire la solita terza via fra il capitalismo selvaggio e il vecchio comunismo.
Nelle ultime elezioni tenutesi a settembre in Sassonia, e quindi anche a Dresda, i neonazi dell’Npd non sono riusciti a entrare nell’assemblea regionale per appena 809 voti, in gran parte a causa della COMPETIZIONE con Alternativa per la GERMANIA, balzata oltre ogni previsione al 9,7%. Un’analisi dei flussi di voti ha infatti dimostrato che «l’elettorato di AfD coincide in gran parte con quello del neonazista Npd, con cui condivide le posizioni politiche contro gli immigrati e a favore della famiglia tradizionale». In Sassonia Alternativa per la Germania ha inoltre rubato voti ai liberali, ormai quasi spariti, e alla Cdu di Angela Merkel, che ha minimizzato l’exploit di AfD definendolo un «voto di protesta».
Il NUOVO “patriottismo nazionalista” di Pegida sta perciò diventando uno strumento funzionale per incanalare il (giustificato) malcontento degli abitanti della Germania orientale verso la pericolosa RICERCA di un capro espiatorio. Nelle manifestazioni del lunedì sera i seguaci del movimento di Bachmann stanno sperimentando una sorta di sollievo emotivo dalla loro paura: unita nella rinnovata comunità etnica del popolo (Volk) tedesco, una folla di gente “normale” separa da se stessa chi non ne fa parte. 
Nel processo di costruzione del nemico, gli islamici sono il bersaglio perfetto: poiché ammontano ad appena 4000 su tutto il territorio della Sassonia, la maggioranza della popolazione tedesca non li conosce e può dunque sfogare su di loro le proprie frustrazioni senza provare alcuna remora. La fantasia INIZIA a correre, e persino le strampalate teorie del complotto di Ulfkotte, secondo cui gli islamici contaminano il cibo europeo con i loro escrementi, diventano improvvisamente plausibili

Pegida non poteva che nascere nella Germania orientale, perché più il nemico è immaginario, più esso suscita i brividi. È un fenomeno tanto antico quanto spaventoso, come spiega mirabilmente Daniel Goldhagen:
«L’antisemitismo senza ebrei fu la norma generale nell’Europa medioevale; persino dove si permetteva loro di vivere con i cristiani, ben pochi li conoscevano o avevano l’occasione di osservarli da vicino. [...] L’antisemitismo non si basava su alcuna familiarità con gli ebrei reali: essa non sarebbe stata possibile. È probabile che anche la maggioranza dei violenti antisemiti nella Germania di Weimar e del periodo nazista avesse avuto scarsi CONTATTI con gli ebrei, o non ne avesse avuti affatto. Gli ebrei erano praticamente assenti da alcune regioni, dove costituivano meno dell’un per cento della popolazione [...]. Le convinzioni e le emozioni di tutti quegli antisemiti non potevano certo fondarsi su una valutazione obiettiva di loro, ma per forza di cose su ciò che avevano sentito dire».[5]
Le politiche economiche d’austerità e la pessima GESTIONE dei flussi migratori da parte dei governi europei stanno involontariamente ricreando le condizioni per l’emergere di un NUOVO razzismo, ormai sempre più legittimato, persino dai partiti moderati. All’inizio di dicembre l'Unione Cristiano Sociale (Csu), alleata del partito di Angela Merkel, è addirittura arrivata al punto di proporre che tutti gli stranieri vengano obbligati a parlare tedesco sia in pubblico sia in famiglia, senza peraltro precisare a quali mezzi orwelliani stesse pensando per far rispettare una tale coercizione. Per Marinella Colombo, autrice italiana che per anni ha vissuto in Germania, il MODELLO tedesco di integrazione «riconosce le differenze solo per screditarle e punta solo all’assimilazione nella cultura tedesca».
La storia ci avverte che, quando il livello di disoccupazione cresce eccessivamente e la povertà straripa inghiottendo anche il ceto medio, la popolazione diviene di colpo ricettiva ai richiami dell’estremismo politico. Vuole soluzioni semplici e totalitarie, e le vuole immediatamente. Ma, sopra ogni cosa, vuole un colpevole. Purtroppo, però, ignorare la storia è ormai una prassi consolidata nella nostra società, e il menefreghismo per il passato sta conducendo a conseguenze rovinose.
Se Angela Merkel non vuole passare alla storia come il cancelliere che aprì di NUOVO la strada in Germania e in Europa all’ascesa dell’estrema destra, come fece Heinrich Brüning negli anni ‘30, non può più aspettare: deve ripensare radicalmente le politiche migratorie e d’integrazione ATTUALMENTE in vigore, con l’ausilio degli altri partner internazionali, e deve soprattutto rilanciare i consumi interni, per alleviare il disagio sociale non solo dei tedeschi orientali ma anche dei popoli mediterranei, così come prescrivono numerosi economisti.

Diversamente, il numero dei tedeschi che appoggeranno le proteste di Pegida continuerà a salire (secondo il settimanale Die Zeit sono già il 49%), e sarà sempre più comune imbattersi in una folla di persone “normali” impegnate a urlare slogan di estrema destra.


[1] Citato in La Repubblica del 24/12/2014.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] I DATI sull’ex Germania Est qui citati sono tratti, dove non diversamente indicato, da Vladimiro Giacchè, Anschluss. L’annessione, Imprimatur, Reggio Emilia 2013.
[5] Daniel Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, trad. it. Mondadori, Milano 2009, p. 45