Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 9 maggio 2020

Il 9 maggio del 1978 moriva Peppino Impastato ucciso dalla mafia.

Luciano Granieri



Come tutti i 9 maggio i Tg sono concentrati sulle  commemorazioni della morte di Aldo Moro, con annesse  analisi sulla stagione della lotta armata. Ad esse, da qualche anno a questa parte, diciamo   dopo l’uscita del film “I cento passi” di Marco Tullio Giordana,   alla vicenda di Aldo Moro si aggiunge il ricordo dell’omicidio di Peppino Impastato trucidato dalla mafia. 

Una commemorazione in tono minore, quasi sbiadente di fronte all’enormità del delitto Moro. E’ strano constatare come Peppino, un anno sia ricordato come giornalista, l’anno dopo come proprietario di una radio, mai, o raramente, si evidenzia il suo impegno politico, scomodo non solo per la mafia, ma anche per  gli establishment di ieri, di oggi e forse di domani.  

Mentre scrivo queste note, siamo alle 8,20 di sera, da tutti i Tg ascoltati fino ad ora Peppino Impastato sembra scomparso. Sarà a causa del poco spazio lasciato dalle notizie sul Coronavirus, fatto sta che si è parlato di Moro, si sono celebrati i 70 anni dell’Unione Europea - ricordando con enfasi il discorso di  Robert  Schuman del 9 maggio 1950  in cui  l’allora ministro degli esteri francese proponeva la creazione di una comunità europea del “Carbone e dell’Acciaio” (non dei popoli), in cui i membri, avrebbero messo in comune la produzione di carbone e acciaio, per l’appunto, ( non la difesa dei diritti sociali) - di Peppino nulla . 

In realtà oggi ricorre il giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e forse qui ci poteva entrare anche Peppino. Se ricordate nei giorni successivi la morte dell’attivista membro di Democrazia Proletaria, si avanzò in modo autorevole l’ipotesi che Impastato fosse saltato in aria vittima del proprio  fallito attentato  terrorista  finalizzato all’esplosione della ferrovia .  In fondo in fondo, quindi,  Peppino poteva essere considerato   vittima di un attentato terroristico uscito male e quindi meritare un ricordo. Ma sfortunatamente per i primi estensori dell’ipotesi terrorista  ad uccidere Peppino Impastato fu la mafia.

 La  commemorazione dei 70 anni del discorso di Schuman ha  forse oscurato la memoria di Peppino?  Già l’Unione Europea. Chissà cosa avrebbe pensato il ragazzo di Cinisi dell’Europa? Non lo so,  non parlo con i morti come fa Renzi.  Posso solo provare ad immaginare come Impastato avrebbe rifiutato  un’Istituzione in  cui,  ad un Paese membro che  gli chiede  aiuti economici, necessari a risolvere una catastrofe sanitaria, i soldi,  non li concede ma li  presta,  con tanto di interessi, costi annuali e di gestione.  

Avrebbe reagito male Peppino alle raccomandazioni di chi, nel prestare  quei soldi,  obbliga il Paese richiedente   a rientrare di certe pesanti condizioni debitorie aperte  in precedenza, una volta risolta l’emergenza sanitaria. Questo lo fanno le banche non un unione di popoli. Ed infatti chi pone  certe condizioni   è Klaus Regling il direttore del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes)  che, anche se non sembra,  è di fatto una banca .  

Penso che Peppino avrebbe sottolineato come  rientrare di un debito così elevato, per giunta accresciuto da necessità gravissime  come una crisi sanitaria, non sia  possibile a meno che non si faccia  altro debito. Una dinamica tesa ad    assicurare il pagamento, sempre a comunque,  di ulteriori e  sempre più alti interessi,  rimanendo in balia di strozzini che sembrano molto più vicina alla mafia che non ad una banca.  E - questo lo sappiamo per certo - Peppino Impastato è morto per averla  combattuta , la mafia.

Ricordiamo Peppino, riascoltando la sua voce.



venerdì 8 maggio 2020

BCE: la sentenza della Corte costituzionale federale tedesca, 5 maggio 2020


Franco Russo





Questa vuole essere una nota breve sulla sentenza della Corte federale costituzionale tedesca del 5 maggio, una sorta di avviso sugli effetti deflagranti che essa avrà sulle politiche della BCE e dell’Unione Europea nella gestione della drammatica crisi sociale ed economica provocata dal coronavirus. Non può che essere breve perché esporre analiticamente  i 236 punti della sentenza richiederebbe innanzitutto più tempo per studiarla a fondo al fine di coglierne il significato nel lungo periodo sia delle sue argomentazioni sia delle sue decisioni. 

Tanto per dare l’idea dell’importanza di questa sentenza, basta dire che rispetto ad altre famose sentenze, per esempio la Solange I e II o il Maastricht-Urteil, che pure hanno inciso sui rapporti tra la Germania federale e  l’UE, e tra la Corte di Karlsruhe e la Corte di Giustizia europea, questa relativa alle politiche della BCE avrà effetti molto più dirompenti. Infatti mette in discussione l’armamentario messo su da Mario Draghi dal famoso ‘whatever it takes’ del luglio 2012 , per gestire la crisi esplosa quatto anni prima. Certo la sentenza riguarda solo il Public Sector Purchase Programme, il PSPP, e non l’insieme degli strumenti attivati in questi anni, o solo predisposti e mai usati come l’OMT; tuttavia ciò che viene sollevato dalla sentenza riguarda il fondamentale rapporto tra la politica economica e fiscale e la politica monetaria. 

Sono ben note le prescrizioni del Trattato sul Funzionamento dell’UE contenute nell’articolo 123, che al primo paragrafo afferma: ‘Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell'Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali’. Con ciò si vieta la  monetizzazione del debito, una delle più tradizionali prerogative delle banche centrali, che nella loro funzione di prestatore di ultima istanza possono acquistare direttamente sia titoli del debito pubblico sia titoli di emittenti privati. In Italia la Banca d’Italia smise di acquistare titoli pubblici invenduti all’asta in seguito ad un semplice scambio di lettere nel 1981 tra Andreatta, ministro del Tesoro, e Ciampi, governatore della Banca d’Italia.

La necessità di salvare banche e Stati membri dell’UE ha spinto la BCE, attraverso vari strumenti indicati genericamente come quantitave easing, a intervenire sui mercati secondari per  acquistare titoli pubblici (e non solo). Una sentenza della Corte di Giustizia Europea dell’11 dicembre 2018 - sollecitata da una richiesta di interpretazione giurisprudenziale da parte della Corte costituzionale tedesca - aveva sancito la legalità delle decisioni della BCE in relazione al PSPP. Ebbene è contro questa sentenza della Corte di Giustizia Europea che si scaglia, con virulenza, la Corte tedesca. Ripeto, non è questa la sede per affrontare i molteplici temi sollevati negli anni da pronunce della Corte di Karlsruhe, che si è eretta a difensore della sovranità del Bundestag e dello Stato tedesco rispetto alle sempre più invasive decisioni dell’UE, che hanno via via sottratto ai Parlamenti nazionali competenze fino all’espropriazione delle politiche di bilancio con i regolamenti del Semestre europeo e con il Fiscal Compact, e al contempo a paladina dell’ortodossia liberista nel campo della politica economica. Nella recente sentenza si sollevano di nuovo con estrema forza i temi della Kompetenz-Kompetenz, per ribadire il principio di attribuzione  delle competenze di cui gli Stati membri si spogliano, o della supremazia della Corte di Lussemburgo nell’interpretazione e applicazione del diritto dell’UE, o della riaffermazione dell’UE come ‘unione di Stati’, che rimangono i  ‘signori dei Trattati’, e dunque i garanti ultimi della loro applicazione.

Ciò che occorre mettere a fuoco è l’attacco che la Corte tedesca fa allo sconfinamento compiuto dalla BCE nei campi della politica economica e fiscale. In nome del principio di proporzionalità, prescritto nell’articolo 5 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Corte tedesca afferma che la BCE non può assumere di nuovo i compiti di una tradizionale banca centrale e dunque sostenere con i suoi interventi le politiche di deficit spending, monetizzando il debito pubblico attraverso l’acquisto di titoli sui mercati secondari. Sostenere questa tesi in un periodo in cui molti degli Stati membri si vanno indebitando contando sugli acquisti della BCE, come è il caso dell’Italia, significa aprire un’ulteriore crisi finanziaria, oltre a quella politica, economica e sociale prodotta dal coronavirus. La Corte tedesca si fa paladina dell’ortodossia liberista chiedendo che la BCE si occupi solo della stabilità dei prezzi e del valore dell’euro, insomma essa deve pensare all’inflazione e non a promuovere le politiche pubbliche di sostegno dell’economia. 

Non devo sottolineare la portata devastatrice in questa fase della posizione della Corte tedesca, ma non solo in questa fase perché è in gioco la gerarchia di potere all’interno dell’UE. Non è in discussione l’egemonia tedesca nell’UE, ciò che la Corte costituzionale tedesca vuole è una Germania egemone e custode dell’ortodossia liberista, che affonda le sue radici culturali nell’Ordoliberismo. La risposta data dalla BCE è, a mio avviso, fortemente difensiva. Infatti, nel suo comunicato ufficiale del 5 maggio, sostiene che il suo obiettivo rimane l’inflazione e che la sua politica monetaria è volta a preservare la stabilità dei prezzi, assicurandosi che essa si trasmetta a tutte le parti e alle giurisdizioni della’area dell’euro.  

È sicuro che la BCE proverà a resistere e a continuare le sue politiche di monetizzazione, di fatto, del debito, legandole naturalmente a programmi di ‘riforma strutturali’ cioè a condizionalità, e al contenimento del debito pubblico. Per questo insiste molto sull’utilizzo del MES, che richiede appunto condizionalità perché si attivino gli aiuti finanziari, che aprirebbero poi la via al ricorso alle OMT (mai finora utilizzate dalla BCE). Tuttavia sono proprio queste prospettive ad essere messe in discussione dalla Corte tedesca la quale, ai punti dal 229 al 235 della sentenza, afferma che: 1) il governo federale e il Bundestag devono  - questo il termine usato nella sentenza - intervenire per ricondurre l’azione della BCE nell’ambito delle sue competenze che sono solo monetarie; 2) la Bundesbank non deve più eseguire entro tre mesi gli acquisti di titoli sovrani a meno che la BCE non assuma una nuova decisione, che riporti il PSPP nell’ambito di finalità strettamente monetarie.  

Ho evidenziato il termine decisione perché i commentatori anche più avveduti hanno scritto che in fondo la Corte tedesca chiede solo dei chiarimenti alla BCE, e dunque la Bundesbank non sarebbe obbligata a dar seguito alle indicazioni contenute nella sentenza. Basta leggere la sentenza nell’originale tedesco (si parla di Beschluss), e nella versione autorizzata in inglese (si parla di a new decision), per capire che la Corte tedesca non chiede ‘chiarimenti’ alla BCE, ciò che ha già fatto per predisporre la sentenza del 5 maggio, pretendendo invece che la BCE proceda a una nuova decisione che comporti una correzione di rotta. Lo scontro, come si evince facilmente, è di una estrema durezza e purtroppo esso non prelude a niente di buono per i popoli dell’UE, perché se vincerà la linea della Corte tedesca avremo una nuova riedizione dell’austerità, se prevarrà la BCE avremo una gestione tecnocratica della politica economica, sottoposta alle condizionalità di una nuova Troika. A meno che …. il  cigno nero non apra la via al sovvertimento dell’ordine capitalistico dell’Unione Europea.

mercoledì 6 maggio 2020

La miccia ora è accesa ed è cortissima

Alfonso Gianni  ( il manifesto 6 maggio 2020)



Non si può che essere d’accordo con il giudizio scritto a chiare lettere dal Financial Times: la sentenza di ieri della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe ha messo una bomba sotto l’ordinamento giuridico dell’Unione europea. Anche se non del tutto inaspettata, e infatti temuta, questa giunge in un momento nel quale la Ue si gioca la sua esistenza. Da un lato la sentenza afferma che il programma di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce, relativo sia al primo che al secondo Quantitative Easing, non costituisce finanziamento degli Stati. Quindi rispetta il divieto del Trattato di Maastricht alla monetizzazione del debito. Col che la Corte però ne ribadisce l’assoluta insormontabilità.

Dall’altro lato gli otto giudici di Karlsruhe mettono in discussione il comportamento della Bce che avrebbe violato il suo mandato scavalcando il principio di proporzionalità negli acquisti dei titoli di stato, approdando ad una sorta di monetizzazione indiretta, assumendo così un ruolo di natura politica. La sentenza non si applica al programma pandemico di acquisti (Pepp) recentemente varato (i 750 miliardi almeno fino al 31 dicembre 2020). Ma la miccia è accesa. Ed è corta, visto che la Bce dovrà entro tre mesi giustificare la presenza nel programma dell’azionista di maggioranza, cioè la Bundesbank. Non solo, ma i membri dell’Alta corte hanno invitato perentoriamente il governo e il Bundestag a pronunciarsi sulla questione del Quantitative Easing.

In effetti l’acquisto di titoli di Stato non proporzionati alla quota capitale dei paesi membri era uno dei punti qualitativamente più significativi dell’intervento della Bce. Una parte rilevante, 29,6 dei 38,5 miliardi di titoli raccolti sul mercato sono stati infatti destinati ai titoli di Stato e tra questi 10,9 miliardi sono stati impiegati per i Buoni del tesoro pluriennali italiani. Pur tenendo conto dei reinvestimenti effettuati per compensare le obbligazioni che già la Bce possedeva e che erano venute in scadenza, è certamente vero che per il secondo mese consecutivo presso l’istituto centrale è stato allocato un quantitativo di titoli di Stato italiani doppio rispetto alle nostre quote di capitale. Anche i titoli francesi e spagnoli hanno beneficiato della sospensione della regola della capital key, ma i titoli italiani hanno fatto la parte del leone aggiudicandosi un terzo dell’intero programma relativo ai titoli di Stato.

Mentre l’Eurotower ha comprato “appena” 600 milioni dei 7 miliardi di Bund previsti. Naturalmente ciò che dovrebbe risultare perfettamente logico e cioè che i paesi più in difficoltà ricevano maggiore sostegno in virtù di una semplice e solo parziale applicazione del principio di solidarietà, viene considerato insopportabile dalla parte più retriva delle classi dirigenti tedesche. E, come sappiamo, non solo da queste ultime. Prima della sentenza in diversi si chiedevano se il programma di acquisti della Bce può andare avanti anche senza la Bundesbank. Teoricamente e tecnicamente sì. Le altre 18 banche centrali potrebbero turare la falla e portare avanti i piani di acquisto previsti.  

Ma a pochi giorni dalla nuova riunione dei vertici europei che dovrebbe sciogliere il problema delle modalità di finanziamento e di erogazione, se aiuti o prestiti, del Recovery Fund, per non parlare delle condizionalità soft o presunte tali del Mes, la miccia diventa cortissima. E’ impossibile pensare che la decisione di Karlsruhe sia come un elefante che se ne sta pacifico nel corridoio. Inevitabilmente vorrà occupare un ingombrante posto d’onore. Tanto più che la decisione dei togati  non si limita a condizionare in senso regressivo le scelte del governo tedesco, ringalluzzendo sciovinismi e sovranismi di ogni sorta, ma apre un contrasto palese con la Corte di Giustizia europea che aveva dato il proprio placet al piano di acquisti nel dicembre del 2018, sostenendo che questo “non eccede e non travalica il mandato della Bce e non viola il divieto di finanziamento monetario”.

 Un contrasto fra una istituzione di uno Stato dotato di Costituzione e un organismo istituito da un Trattato. Era ovvio che prima poi la questione esplodesse, mettendo a nudo l’intima fragilità della costruzione a-costituzionale dell’Unione europea e la natura intergovernativa del suo sistema di governance. I nodi vengono al pettine nei momenti di maggiore difficoltà, quando vi sarebbe bisogno del massimo del reciproco aiuto per affrontare una crisi sanitaria ed economica che ha il volto di una terribile recessione. I diavoli non fanno i coperchi.