Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 26 agosto 2017

Jeanne Lee, arte in movimento

Diana Torti.

Diana Torti  è una vocalist e psicologa che ha dedicato a Jeanne Lee un approfondito studio (sinora inedito)



“No words/only a feeling/ no questions/ only a light a being a light, no sequence /only a being, no journey/ only a dance” (“Nessuna parola/solo una sensazione, nessuna domanda/solo una luce, nessuna sequenza/ solo un essere, nessun viaggio/ solo una danza”).

Questi sono i versi con cui apre Conspiracy , album pubblicato a nome di Joanne Lee per la Earthforms Records nel 1974. Queste liriche, scritte da David Hazelton, poeta esponente della Jazz Poetry e primo marito della cantante afroamericana, ben esprimono a parole ciò che la musica rappresenterà attraverso suoni, immagini, colori. Nonostante i quarantasette anni appena compiuti dalla pubblicazione (a cui purtroppo non è seguita una meritata ristampa) le suggestioni dei brani proposte dalla Lee evocano emozioni e stimoli sonori che ancora stupiscono e incantano, regalano proposizioni musicali più che mai attuali: materiale prezioso da rileggere e approfondire.

Jeanne Lee nel 1974 aveva trentacinque anni (era nata a New York il 29 gennaio del 1939). Sin dalle prime esperienze , la Lee mostra una direzione fortemente innovatrice rispetto all’immagine tradizionale della cantante jazz. A partire dal suo primo album , nel quale vengono completamente ridimensionati il tradizionale modo di cantare gli standard e la pronuncia jazz, la sua ricerca vocale proseguirà esasperando il rapporto tra il testo e l’improvvisazione in una costante esplorazione della possibilità di scomposizione  e ricostruzione delle parole o di frammenti di esse, di reiterazione delle stesse, di vocalizzazioni non necessariamente riconducibili al linguaggio parlato.

The Newest Sound Around  (RCA Victor 1961), rappresenta l’esordio sia per lei che per Ran Blake, suo compagno di studi alla Bard College di New York (si erano conosciuti nel settembre del 1956). Jeanne si impone subito con la sua vocalità calda e suggestiva, fatta di inaspettate variazioni di suono e di fraseggio, fresca e coraggiose nell’interpretazione . Blake è un pianista sobrio ed essenziale, che accoglie e comprende sia le influenze del jazz contemporaneo che quelle del repertorio classico e che possiede uno straordinario senso armonico e ritmico. Il duo è fuori dagli schemi e presenta una nuova estetica dell’esecuzione degli standard di jazz. Il repertorio viene rivisitato in chiave quasi completamente improvvisata, e viene presentato offrendo una visione che va ben oltre i confini delimitati sia dalla tradizione del duo piano voce, sia dei canoni delle singole discipline. Il repertorio da loro esplorato è fatto di standard (tra cui una versione di Straight Ahead , che sancisce la forte  connessione tra Lee e Abbey Lincoln; un arrangiamento spaziale e rarefatto di Where Flamingos Fly e una suggestiva interpretazione di Laura, ma anche dei brani apparentanti a diverse tradizioni musicali.

Critici e pubblico rimangono senza parole. Nella prima recensione datata 1962, uscita sula prestigiosa rivista statunitense Down Beat, la voce della Lee viene considerata troppo ampia e il pianismo di Blake eccessivamente eclettico: c’è troppa sperimentazione che per molti addetti ai lavori oltrepassa il limite accettato nella ricerca musicale di quell’ambito. I due musicisti coerentemente alle loro esigenze interpretative  ed esecutive, hanno semplicemente cominciato ad esplorare le infinite possibilità dei loro singoli strumenti  della combinazione tra essi, inseguendo una direzione originale e innovativa.

VIAGGIO IN EUROPA
Nel 1963 realizzeranno un inaspettato ed appagante tour in Europa che soddisferà la loro tenacia identitaria. Suoneranno in Germania, Norvegia, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna e nel mese di maggio anche in Italia. I critici europei rivisiteranno le poche entusiasmanti attenzioni finora rivolte al duo, accogliendo con interesse la nuova proposizione di ricerca musicale, e saranno pressoché concordi nel considerare quella giovane cantante una preziosa rarità, orientata nella completa disgregazione di confini tra la voce umana e uno strumento a fiato che improvvisa, senza perdere di vista la fusione con il testo.

Negli anni a seguire Lee parteciperà a diverse registrazioni a nome di illustri colleghi con cui collaborava stabilmente: Blasè  di Archie Shepp (BYG /Actuel 1969), The 8th of July di Gunter Hampel (Birth 1969), In Sommerhausen (Calig 1969) di Marion Brown, Escaletor Over the Hill a nome di Carla Bley (JCOA/Ec, 1971), Town Hill  di Anthony Braxton (HatArt 1972), solo per citarne alcuni (la discografia completa di tutta la sua carriera ne comprende settantasette).

Con Conspiracy arriva un momento chiave per la artistica della Lee.  Per la prima volta si propone al contempo  compositrice ed esecutrice, ben consapevole del fatto che il pubblico poteva finalmente ascoltarla  in tutti i suoi aspetti. E più che mai la sua vita artistica era fortemente connessa con il vissuto privato. La sua formazione artistico-culturale l’aveva portata a confrontarsi con la danza, la coreografia, la musica, la psicologia e la letteratura, grazie anche ad un contesto familiare che le aveva consentito di crescere in un ambiente sensibile all’arte e alla libera espressione di sé. La madre , Madeline, è stata una delle prime donne afroamericane a lavorare per un impiego governativo  ed è stata socialmente molto attiva nella comunità dove viveva nella famiglia. Il padre S.Alonzo Lee era un cantante specializzato  sia in repertori classici che in musica da chiesa e spiritual. Jeanne Lee è dunque cresciuta maturando un approccio di apertura e curiosità verso qualunque stimolo che potesse aggiungere valore alle sue esperienze. Una ricerca che, presumibilmente, era un’esigenza innanzitutto umana, come emerge della figlia Cavana Hazelton, in un’intervista che mi ha generosamente rilasciato nel gennaio 2013: “Posso immaginare che il suo messaggio fosse l’espressione autentica di sé (…) Era interessata nell’esprimere ciò che sentiva o ciò di cui sentiva l’esigenza che fosse rappresentato, sia se questo veniva fatto attraverso le rime durante un campo scuola, che attraverso discussioni sulla politica  o per esperienza umana”.

VERITA’ ESPRESSIVA
Questo aspetto della personalità della Lee consente di contestualizzare il lavoro esplorativo della cantante , orientato verso la ricerca di una verità espressiva sempre più autentica, senza le catene limitanti delle forme di comunicazione costruite. Basterebbe cominciare pensndo al periodo storico-culturale in cui si collocano gli esordi, gli anni Settanta, che sono stati culla delle avanguardie sia di matrice afroamericane che europea. La storia in cui la donna è immersa diventa per lei un’opportunità: i linguaggi e le proposte che attraversano la cultura di quegli anni diventano per lei strumenti con cui poter trasmettere la propria urgenza espressiva, in modo spontaneo, equilibrato e coerente. Quale mezzo migliore per farlo se non la musica, vissuta come espressione connessa ad ogni cosa, al di là di un luogo o persino del tempo stesso. Fortemente radicata nella propria cultura  d’origine, la famiglia Lee  discende dai Seminole, uno dei numerosi gruppi tribali di nativi americani dell’America Settentrionale e dell’area culturale sudorientale, dotato di un senso d’appartenenza  e della comunità piuttosto caratterizzante. La storia di ogni popolo ha qualcosa da offrire alla storia del mondo intero, siamo tutti connessi gli uni agli altri. Secondo la visione estetica dei Seminole, il patrimonio culturale e le tradizioni orali dei nativi americani e afroamericani costituivano gran parte del processo di apprendimento. Spesso Lee utilizzava così racconti, movimenti di danza o canzoni attingendo a questo patrimonio per trasmettere nozioni o valori.

Jeanne Lee rivendica il collettivo come esigenza di realizzazione attraverso cui poter produrre arte e cultura. Non bisogna dimenticare che è vissuta in un periodo storico in cui gli afroamericani hanno impresso una forte accelerazione  al processo di lotta per il riconoscimento dei propri diritti. Tale impulso si è spesso concretizzato in varie forme aggregative , che hanno aggiunto un significato concreto al senso del collettivo di una comunità di individui. Questo aspetto è sempre stato un forte collante della vita della cantante, che ha frequentemente vissuto  e realizzato questa dimensione  sia nel privato che nella sfera artistica (aderendo, ad esempio, all’Aacm e alla jazz composers’s Orchestra di Carla Bley)  e che ha sviluppato un impegno politico e civile coerente e costante nel tempo.

Il rapporto con l’Europa è stato altrettanto caratterizzante per la sua vita, complice anche la ricca collaborazione artistica con il secondo marito, il polistrumentista tedesco Gunter Hampel, conosciuto nel 1967. Il connubio è perfetto. A  partire dalla fine degli anni ’60 il sodalizio tra i due porterà alla luce diversi progetti e numerose registrazioni. L’Europa, all’epoca recettiva verso le più disparate forme  di sperimentazione, li accoglie con interesse. Arriveranno anche in Italia, al festival jazz di Pisa nel 1978. Un palco che regala un’immagine ricca di significato avvolti in un’atmosfera al contempo affascinate e contrastante per il periodo: la coppia, lei nera e lui bianco, suona sulla scia di quel lento ma avviato processo di fusione fra il free jazz  degli afroamericani e la musica d’avanguardia europea. Alla fine degli anni Sessanta, non era così facile vedere collaborare insieme esponenti del free jazz con musicisti dell’avanguardia europea. La fusione dei due  mondi musicali è stato un processo di adattamento e di sviluppo più lento di quanto si possa pensare. Grazie alla sua vocalità originale e unica nella fusione tra le due tradizioni culturali, John Cage la invita a partecipare alla performance del suo Apartment House 1776 (opera scritta per 24 musicisti e 4 voci) commissionata nell’anno del Bicentenario Americano per il “National Endowment  for the Arts”. L’opera è stata diretta nella prima performance da Pierre Boulez.


La poetessa cantante, come lei stessa amava definirsi, attraverso la voce diventa ricercatrice  ad esempio per costruire una strada nuova che non annulla, anzi,  comprende e va oltre la realtà in cui è immersa.  Lo fa con una certezza: non ha paura del proprio suono.

Il coraggio espresso nella ricerca sonora e questa coerenza di identità rendono il suo gesto vocale ricco di significato. E dunque la parola riconoscibile come tale , diventa un’altra cosa: possibilità di enunciazione, frammento, scomposizione, vocalizzazione, sillaba, suono vocalico o consonantico, tutto diventa musica e assume un nuovo significato espressivo. La parola è fusa con la musica. Esemplificativa a riguardo l’interpretazione del suo In These Last Days , poema da lei scritto e magicamente interpretato nell’album Nuba  del 1979 (Black Saint  Records), uscito a nome del batterista  Andrew Cyrille e con Jimmy Lions al sax alto (album che è stato ripubblicato nel 2013 in un cofanetto della Cam, The Complete Remastererd Recordings on Black Saint & Soul Note Andrew Cyrille 7 cd set). Il brano può essere visto come una sorte di manifesto della cantante newyorkese, rappresentazione del suo impegno , in quanto musicista, verso il cambiamento sociale

LINGUAGGI INESPLORATI
Chissà se la cantante aveva intuito la possibilità di linguaggio inteso solo come puro suono, a prescindere dal linguaggio articolato. Per certo la poesia e il testo per lei rappresentavano un punto di partenza per l’improvvisazione, suggerendo possibilità fino ad allora inesplorate nelle improvvisazioni vocali. E anche in quest’ambito Jeanne Lee ha sempre un carattere lirico e armonioso, rispettando una fluidità melodica e un’eleganza sonora che convivevano anche nel contesto di ricerca più estremo, come quello del free jazz.

Straordinaria nella ricerca improvvisativa, coraggiosa nelle acrobazie ritmiche e nelle esplorazioni timbrico-cromatiche, appassionata poetessa, unica nella sua ricerca interpretativa attraverso cui aggiungeva significato a ogni fonema pronunciato. Difficile immaginare le sue caratteristiche sonore scisse dalla sua personalità: l’autentica espressione del sé immersa in una dimensione totale, dalla quale la sua voce non poteva prescindere. Tutto questo la rendeva sinceramente umana e dunque autenticamente bella.

Una storia che si consiglia di ripercorrere, sperando di poter al più presto vedere ristampati alcuni degli album ai quali ha collaborato: la bellezza della condivisione si arricchirebbe di un tesoro in più.

Fonte: alias del 26 agosto 2017.

Roma città aperta

Coordinamento Democrazia Costituzionale Roma



Roma, 26 agosto 2017
PIAZZA INDIPENDENZA: IMPERIZIA O SCELTA CONSAPEVOLE?
Art. 10 Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.


Il 23 agosto, la mattina presto e poi durante il giorno, con un accanimento a dir poco inspiegabile, gli uomini e le donne eritrei ed etiopi che erano stati lasciati all’addiaccio nei giardini di Piazza Indipendenza sono stati brutalmente sgombrati. Già trascinati il 19 agosto nell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, dove si era verificato che pressoché tutti erano in possesso di regolare certificazione di riconoscimento di protezione internazionale, dopo lo sgombero richiesto dalla proprietà dell’edificio, erano stati abbandonati a loro stessi fin quando, ormai a notte, era stato dato il permesso a donne e bambini di rientrare nell’edificio di Via Curtatone, sotto il controllo della polizia in uno stato di semidetenzione.

In questi giorni di violenza associata all’incapacità di fornire risposte adeguate riservata agli occupanti di Via Curtatone, abbiamo potuto constatare solo che la gestione dell’emergenza abitativa e di quella dell’accoglienza evidentemente non è, né sarà all’ordine del giorno di questa amministrazione, nonché tutta la portata liberticida delle Leggi Minniti.
Ora però rimane il problema grave di centinaia di persone abbandonate per strada e usate in modo strumentale per un gioco di rimpalli che nulla hanno a che fare con una progettualità politica nel rispetto della nostra Costituzione e della Convenzione di Ginevra. La pelle di quelli a cui ogni diritto e dignità viene negata, è usata per un gioco politico senza nessuna intenzione di soluzione.
Le comunità che vivevano a Via Curtatone hanno dimostrato, rifiutando le ridicole proposte che le istituzioni hanno indegnamente chiamate “soluzioni”, la solidarietà e la coesione, quella vera, quella che richiede il rispetto dei diritti per tutti e non solo per alcuni; hanno rappresentato i diritti espressi nella nostra Costituzione, ribadendo l’indispensabilità del diritto all’abitare, all’istruzione, alla cura. Ci fanno riflettere su quegli articoli che garantiscono la proprietà privata, ma non certo i suoi fini speculativi.
Lo sgombero di Via Curtatone e quello precedente di Via Quintavalle (i cui abitanti sono ancora accampati nel portico di SS Apostoli) sottopongono drammaticamente all’attenzione di tutti quanto il diritto all’abitare in questa città sia calpestato continuamente.

È per questo che sabato 26 agosto alle ore 16 il Coordinamento Democrazia Costituzionale di Roma (già Comitato romano per il NO alla riforma costituzionale) sarà in piazza dell’Esquilino insieme a chi lotta per una casa per tutti.



venerdì 25 agosto 2017

Sacco e Vanzetti, la storia tragica di due immigrati "non conformi".

Luciano Granieri


Il 23 agosto del 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, venivano “ingiustiziati”  sulla sedia elettrica, per la sola colpa di essere anarchici. A 90 anni da quello che fu uno dei tanti efferati omicidi compiuti dallo Stato  e dalla Società borghese americana ai danni di neri, immigrati, diseredati, comunisti, anarchici, propongo il  testo che segue. Il pezzo è tratto dalle dispense, da me    redatte, per il  seminario, che ho tenuto qualche anno fa, presso l’associazione “Oltre l’Occidente”,  dal titolo “Jazz ritmi e pulsioni della società post moderna”. Un progetto diluito, in una serie di incontri, che descrive la storia degli Stati Uniti d’America attraverso le evoluzioni della musica afroamericana.

Buona lettura e sagge riflessioni.




Contesto politico ed economico.
Per finanziare la partecipazione alla prima guerra mondiale   gli Stati Uniti avevano speso più di 5miliardi. Tuttavia, le casse dello Stato Americano nel primo dopo guerra erano in attivo. Gli USA  avevano  realizzato un aumento delle loro riserve auree pari a 300milioni di sterline. Inoltre, per prestiti accordati agli alleati,  l’America vantava un credito  globale di tredici miliardi di dollari dall’estero.  Tali condizioni di prosperità provocarono un vero e proprio boom economico. I  prodotti, che negli altri  Paesi erano considerati di lusso, qui erano di largo consumo. C’è inoltre da sottolineare che vivere esclusivamente per accumulare dollari era diventato l’unico credo della borghesia americana. Un credo condiviso, diffuso, ed evidentemente ad alta percentuale di esclusione sociale. 

La lotta di classe divampò con veemenza e si rivelò più aspra laddove erano presenti, in maggioranza, maestranze immigrate. Un ondata di scioperi dilagò nel paese.  Nel 1919 nei cantieri di Seattle, gli operai  incrociarono le braccia  per protestare contro una significativa riduzione del salario. Fra l’ottobre e il settembre dello stesso anitno 350.000 lavoratori metallurgici abbandonarono le officine, imitati da mezzo milioni di minatori che lasciarono  le miniere. Gli operai  che scioperavano in difesa dei propri diritti, vennero bollati come rossi, bolscevichi. Per  annientare questi scioperi  venne diffuso l’allarme  per cui  le sollevazioni operaie  erano il risultato di un complotto comunista. I comunisti dunque andarono ad ingrossare le fila delle categorie da eliminare, come gli immigrati e i neri. 

La repressione dei "diversi".
Nella fase di repressione si distinse di nuovo il Ku-Klux-Klan. La setta, dopo la stasi seguita alla guerra di secessione, riprese la sua attività violenta.  Anche perché nei primi anni del XX secolo erano emersi diversi movimenti neri tendenti a promuovere l’integrazione con i bianchi.  Una rivendicazione tesa ad ottenere una parità di diritti per la quale si era disposti  anche  a rinunciare alle proprie radici culturali  africane e sposare il credo borghese tipico  dell’americano bianco. 

Fra i leader principali di questi movimenti citiamo  Brooker T.Washington. Nelle sue opere, assai diffuse:”The future of American Negro”  del 1899 e soprattutto “Up from Slavery” del 1901, Washington sosteneva che l’affrancamento degli schiavi , in quanto misura calata dall’alto, senza alcun supporto socio-economico, aveva avuto un effetto  dirompente per la società.  Essa avrebbe potuto sortire frutti  soltanto se si fosse realizzata  un’integrazione graduale dell’ex schiavo   nella realtà storica  in cui si trovava collocato. 

 Era questo tipo di inserimento che grandi fasce della popolazione rifiutavano,  favorendo le gesta cruente del Ku-Klux-Klan. Il rifiuto violento all’inserimento degli ex schiavi si allargò anche agli altri “diversi”. Provocando l’isolazionismo, esacerbato, il  rifiuto, l’emarginazione forzata di chi non dimostrava di accettare “l’american way of life”. Nel 1924  questo isolazionismo divenne legge con la promulgazione dell’Immigration  Act. In base a tale provvedimento si chiudevano definitivamente le porte a quel flusso di immigrati provenienti dall’Europa, soprattutto meridionale, che con la loro forza-lavoro, avevano costituito uno degli elementi essenziali per la nascita della società americana. Si chiudevano, insomma,  le porte ai già citati “diversi”.  



I "non confromi" Sacco e Vanzetti.
Nella   categoria dei “non conformi” erano compresi  anche coloro i quali  non credevano che la società americana fosse così giusta. E se questi lottavano per i propri   ideali venivano perseguitati  e vessati. E’ il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto  del 1927. 

L’accusa, totalmente infondata, come verrà dimostrato solo sessant’anni dopo, di aver ucciso  nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril,  li condusse alla morte. La vera causa della condanna dei due immigrati italiani, (Sacco proveniva dalla provincia di Foggia, Vanzetti era originario  del Cuneese) fu però  la loro ideologia anarchica. Per il popolo americano condannare a morte delle persone colpevoli soltanto  di professare idee politiche in contrasto con le regole consolidate si rivelò un sacrosanto atto di giustizia. 

Del resto Sacco e Vanzetti erano rei confessi,  avendo ammesso, non di essere gli autori della sanguinosa rapina, ma di essere anarchici,   di aver partecipato alle lotte, a agli scioperi con altre migliaia di lavoratori. Avere in casa libri di Gorkij, Kropotkin, Marx, Hugo, Tolstoj, letture a  cui Vanzetti dedicava il tempo libero dal lavoro  e dalla cura del suo giardino, era reato gravissimo. 

L’anarchico, il comunista, era un individuo che, non accettando le regole  della borghesia americana doveva essere eliminato. Sacco fu accusato, nonostante provò di essere presso il proprio posto di lavoro a Stoughton, mentre la rapina aveva  luogo a Bridgewater. Vanzetti invece  venne identificato da un solo testimone che non lo aveva visto in faccia ma, letteralmente, “aveva capito dal modo in cui quello correva  che si trattava di uno straniero": Vanzetti era uno straniero?  Quindi l’assassino  era Vanzetti. 

Il giudice Thayer, che condannò i due e per questo divenne un eroe nazionale,  dichiarò con orgoglio: “Avete visto cosa ho fatto a quei bastardi di anarchici, l’altro giorno?” E ancora durante il processo affermò:”..abbiano o non abbiano commesso il reato che loro viene attribuito, questi uomini sono moralmente colpevoli, perché nemici accaniti delle istituzioni”. A nulla servì che intellettuali e scrittori come Bernard Shaw, Dorothy Parker, e John Galsworthy firmassero per primi un appello, che avrebbe raccolto migliaia di adesioni, chiedendo la scarcerazione degli imputati. A nulla valse l’ondata di indignazione che scosse il mondo (a Parigi la folla arrivò a dare l’assalto all’ambasciata americana). Ovviamente a Sacco e Vanzetti vennero attribuiti altri crimini che mai avrebbero potuto commettere, come l’esplosione di una bomba a Wall Street che provocò decine di morti e centinaia di feriti. 

Insomma l’esecuzione di Sacco e Vanzetti doveva confermare nell’opinione pubblica americana la convinzione  che i “diversi” dovevano essere colpiti, eliminati. 



Oggi i “diversi” cercano di approdare  nella nostre rassicurante enclave borghese bianca, e una strisciante risentimento di odio razzista cerca ancora una volta di inculcare nell’opinione pubblica la convinzione che i “non conformi”devono essere colpiti ed eliminati. Corsi e ricorsi storici.

PIAZZA INDIPENDENZA: IMPERIZIA O SCELTA CONSAPEVOLE?

Cittadinanza  e Minoranza.




Quanto è accaduto in questi giorni a Roma non può rimanere senza reazioni adeguate. Ne va della qualità del nostro Stato, della credibilità delle Istituzioni, del livello della nostra democrazia. Per altro. chiama in causa direttamente il Governo per la prioritaria responsabilità della Prefettura –  Ufficio Territoriale del Governo -  nella modalità inaccettabile con la quale si è provveduto  a restituire alla proprietà, o a chi per essa, uno stabile nel quale da anni avevano trovato riparo centinaia di persone  cui lo stesso Stato Italiano aveva riconosciuto   lo status di rifugiato politico.
A tale riconoscimento avrebbe  dovuto seguire la presa in carico dei rifugiati  da parte delle Istituzioni italiane,  trattandosi di persone  che - stante le norme vigenti – dovrebbero godere di tutela internazionale ed ovviamente nazionale.   Dopo anni durante i quali le Istituzioni, tutte le Istituzioni - dalla Prefettura alla Regione al Comune – che avrebbero avuto l’obbligo di   occuparsene hanno totalmente ignorato la situazione che per la loro inerzia si era determinata,  il 19 Agosto  l’edificio viene sgomberato manu militari. Lo  sgombero, effettuato   senza preavviso adeguato (nelle forme e nei tempi), è stato disposto  senza aver provveduto ad apprestare preventivamente  una soluzione alloggiativa appropriata ed averla proposta e discussa con i/le rifugiato/e nei tempi e con le modalità necessarie, perché essi/e potessero organizzarsi – anche mentalmente – per affrontare una situazione abitativa diversa. I  rifugiati/e sono stati semplicemente ”sfrattati”, identificati (per appurare che sono tutti/e “regolari”) e   messi in strada, da dove sono stati poi  nuovamente   sgomberati.
Solo il 23 Agosto, dopo cioè quattro giorni dallo sgombero, presso la Prefettura (come si evince da un comunicato della stessa)   si è tenuta una riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica volta ad esaminare - con tutti gli attori istituzionali coinvolti- soluzioni da mettere in campo per far fronte alla collocazione delle fragilità (famiglie con minori, disabili e anziani non autosufficienti), ancora presenti nello stabile di via Curtatone, sgomberato lo scorso 19 agosto>. Il comunicato, oltre a confermare che lo sgombero era stato disposto in assenza di qualsiasi soluzione alternativa, in ciò violando precise norme del Diritto Internazionale (Convenzione di Ginevra del 1951 e Carta Sociale Europea), denuncia che un problema di tutela ed accoglienza lo si è affrontato in termini di ordine pubblico.
E come questione di ordine pubblico infatti si è provato a risolverlo; cioè con  idranti, manganelli, qualche ferimento e alcuni  “fermi di polizia”.
Che si tratti di imperizia o di consapevole scelta andrà appurato. In ogni caso si è in presenza di una palese violazione della Carta dei Diritti dell’uomo.
Qualcuno, anzi più d’uno, dovrà risponderne: la Prefettura per la sua parte, ma anche Regione e Comune che non possono sottrarsi alla responsabilità di   provvedere per tempo ad accogliere convenientemente  i rifugiati e lasciare  che sia un privato, il gestore del fabbricato sgomberato, a proporre una soluzione, parziale, provvisoria e del tutto inadeguata. A doverlo fare sono le istituzioni. E per tutti//e.  Non solo per  le fragilità (famiglie con minori, disabili e anziani non autosufficienti)>, come recita il comunicato prefettizio. Perché il diritto ad un’abitazione è di tutti e tutte, anche se non si trattasse  di rifugiati, come è sancito da specifiche norme.
Ciò che è accaduto è di indicibile gravità e non può non destare grande preoccupazione. Se sono le nostre  Istituzioni a violare i Diritti Umani, noi cittadini e cittadine di questa Repubblica non possiamo che essere fortemente preoccupati/e. Per questo invitiamo tutto  l’associazionismo, la cosiddetta cittadinanza attiva ad una seria ed approfondita riflessione.

Roma 25 Agosto 2017

giovedì 24 agosto 2017

Non mi vergogno di essere italiano, ma mi vergogno di certi italiani.

Luciano Granieri



"Mi vergogno di essere italiano". Questo verrebbe da dire a fronte   dell’ aggressione che le   forze dell’ordine  hanno organizzato ai  danni dei rifugiati eritrei che non volevano abbandonare il  fabbricato di Via Curtatone a due passi dalla Stazione Termini. 

Forse è una riflessione affrettata.   Personalmente  non mi vergogno di essere italiano, perché  sento di appartenere ad una comunità che è riuscita a  scrivere  ed approvare   la Costituzione Italiana. Un documento  nel quale sono stabiliti i principi su cui si basa la nostra collettività. Sono i valori della condivisione, della tolleranza, dell’accoglienza, della tutela della dignità. Intendiamoci tali  elementi  travalicano “l’essere, italiano", e abbracciano uno status più universale che è quello “dell’essere, umano”.

Dunque chi dovrebbe vergognarsi di appartenere alla nostra comunità? Chi, usando violenza contro persone inermi, scappate da guerre insensate e cacciate di casa, ha  calpestato quei principi inscritti nella Costituzione e proprie dell’umana sensibilità. La barbarie e l’inumanità non fanno parte di una  collettività in cui vorrei vivere. E considero barbari ed inumani, oltre che  il dirigente di polizia che  ha intimato ai suoi sottoposti di eliminare fisicamente i rifugiati ,  anche il ministro Minniti, aizzatore di  una deriva nazista pseudo securitaria,  che sta precipitando il nostro Paese in un vortice di insensata follia, condivisa dalle peggiori derive fasciste, del Partito di Renzi,  della Lega, del Movimento 5 Stelle, dei Fratellini  di Mussolini e di altra indistinta  immondizia cerebrale.  

Quanto è successo ieri a Piazza Indipendenza, però, non va solo contro i basilari principi del  rispetto della persona  umana, ma infrange diverse leggi internazionli. Le famiglie  aggredite e cacciate dai loro alloggi, non sono clandestine , né irregolari. Sono emigranti fuggiti da guerre,  privazioni, e una volta arrivati in Italia hanno richiesto e ottenuto lo status di rifugiati.  In base a questo riconoscimento l’Italia deve assicurare loro  protezione e accoglienza. Gente, fra l’altro, che sarebbe andata via molto volentieri dall’Italia se solo il trattato di Dublino, che impone ai rifugiati di rimanere nel luogo che li ha riconosciuti come tali, lo avesse permesso. 

Ma qual è la concezione di protezione che si applica ai richiedenti asilo? Non fornirgli un tetto sulla testa, o sfrattarli con la violenza dal  tetto che con sacrificio  sono riusciti ad ottenere? Oppure parcheggiarli in centri di accoglienza dividendo le famiglie, bambini da una parte, donne da un'altra? Negargli l’istruzione deportando i ragazzi in luoghi lontani dalla scuola che frequentano? 

La protezione che si sta realizzando a Roma concerne gli affari dei proprietari dell’immobile che ospitava le famiglie eritree. I quali, non ritenendo più produttivo affittare il  palazzo alle associazioni che si occupavano di alloggiare i rifugiati, hanno deciso di trasformare quel sito in un albergo con annesso centro commerciale.  Queste  mire  erano  note da tempo al Comune di Roma.  La sindaca Raggi, se proprio ha preferito tutelare la proprietà privata,  in luogo dei  diritti dei rifugiati, almeno poteva attivarsi prontamente  per trovare alloggi alternativi alle famiglie di via Curtatone. 

Purtroppo l’attenzione dell’amministrazione grillina è concentrata a cacciare gli assessori non graditi dalla lobby Grillo-Casaleggio &Co. L’ultima vittima della lobby,  l’assessore uscente, Andrea Mazzillo, ad esempio,  aveva anche le deleghe alla casa oltre che al bilancio. Ma non è che si fosse impegnato particolarmente  per risolvere il problema di tante persone prive di  alloggio compresi i rifugiati di Via Curtatone.  Infatti il compito principale della giunta capitolina, sulla gestione degli immobili,  non è stato quello di mettere a disposizione stabili  comunali per l’emergenza abitativa, ma si è da subito contraddistinta nello  sfrattare dalle loro sedi    movimenti e   associazioni impegnate nel sociale (il Forum dei Movimenti per l’Acqua, la Scuola di Musica Popolare di Testaccio fra gli altri).  

Disgraziatamente quelle sedi, per l’occupazione delle quali le associazioni pagavano regolare affitto, devono tornare all’ente che le venderà al palazzinaro latore  della migliore offerta. E’ la logica della privatizzazione globale di tutto ciò che è pubblico, immobili e servizi. Sono le regole  della speculazione  privata fondiaria e finanziaria. Si dirà sei partito dai rifugiati per arrivare alla speculazione ? Certo tutto si tiene è la dittatura del mercato che ha reso la barbarie protagonista delle nostre vite, innescando un irreversibile    processo di disumanizzazione delle istituzioni e di  buona parte di cittadini. Ma sta a noi, rimasti umani,  non cedere all'inumanizzazione e reagire.


Di seguito un video girato dagli operatori del sito http://roma.fanpage.it/ dove una donna viene colpita violentemente da un getto d'acqua di un'idrante delle forze dell'ordine e un'altra donna ci ricorda che l'essere cattolici dovrebbe suggerire ben altri comportamenti.


mercoledì 23 agosto 2017

Ospedale di Anagni, le associazioni attendono risposte.

IL    COMITATO “ SALVIAMO  L’OSPEDALE  DI  ANAGNI “



E’ il momento di informare i cittadini di Anagni e dei Comuni limitrofi su quanto sta accadendo  nell’ ospedale.
Nonostante i toni enfatici utilizzati recentemente dalle autorità politiche e aziendali sui miglioramenti previsti per l’ Ospedale di Anagni,  la pubblicazione dell’atto aziendale dell’Asl di Frosinone, avvenuta in questi giorni,  ci porta finalmente a definire la situazione reale in cui versa la sanità ciociara e di Anagni.
Per quel che riguarda l’Ospedale di Anagni non vi sono novità sostanziali rispetto al precedente atto aziendale. Viene fatto riferimento al protocollo sottoscritto da nove consigli comunali della zona nord della provincia di Frosinone, ma rispetto alle sei richieste di servizi indispensabili per riportare l’Ospedale ad un minimo funzionamento utile per la popolazione, poco o niente è stato concesso.
Invano il nostro Comitato e le associazioni hanno richiamato l’attenzione delle istituzioni per accogliere in pieno l’istanza approvata dai nove  comuni della zona nord della Provincia di Frosinone. Per questo è stata svolta la manifestazione del 10 giugno scorso davanti all’Ospedale di Anagni, silenziata da un inspiegabile divieto di usare altoparlanti da parte della Questura di Frosinone.
Al posto delle richieste deliberate dai sindaci viene confermata l’apertura del “primo ospedale ambientale”, con il compito di prevenzione delle  patologie derivanti dall’ inquinamento gravissimo del territorio, in primo luogo quelle  tumorali. Scelta apparentemente più che logica, visto che  nel frattempo lo stesso territorio è destinato ad  accogliere nuovi inceneritori e a riattivare quelli vecchi !!!!
Purtroppo il  “ primo ospedale  ambientale d’Italia” è soltanto uno sportello informativo che duplica il lavoro di ricerca  di enti pubblici già esistenti ASL, ARPA,  Ist. Sup- di Sanità ecc. e non ha alcun compito terapeutico che richiederebbe dotazioni  mediche inesistenti e, soprattutto, reparti di degenza e posti letto.
Dunque, fumo negli occhi e  inutile  propaganda pre-elettorale.
Intanto si mettesse in pratica il registro dei tumori deliberato ma mai attuato.
Nel nuovo atto aziendale manca invece clamorosamente la previsione del reparto della  cosiddetta  “ degenza infermieristica ”, recentemente semi-inaugurato presso l’Ospedale di Anagni e oggetto di osannanti comunicati  stampa e dichiarazioni  da parte dell’Assessore Mauro Buschini  e suoi simpatizzanti anagnini.
Questo reparto, non previsto né dall’Atto Aziendale approvato nel 2015 né dalla proposta di modifica dell'Atto aziendale inviata alla Regione Lazio, non solo non rappresenta una soluzione al sovraffollamento del Pronto Soccorso  dell’ Ospedale di Frosinone,   ma rappresenta un evidente  uso improprio di risorse pubbliche. Analizziamo i costi relativi ai tre mesi di sperimentazione ( 12 settimane ), ricavati dalle  delibere dell’Azienda ASL di Frosinone:
     Compenso Coordinatore :  38,19 euro/ora  ( tot ore settimanali 12 )  --Tot  per 12 settimane  :  € 5.499,36
    Compenso Medici inseriti nei turni : 38,14euro/ora ( tot. ore settimanali 33 )   -- Tot, per 12 settimane  : 15.103,44
     Infermieri a contratto ( 4 unità) : conto complessivo delle 12 settimane                              : 25 .920
     Al totale di euro 46.522,8 " per tre mesi "  si deve aggiungere il costo, per noi non definibile,  degli infermieri inseriti nei turni     per mantenere una doppia presenza infermieristica .  Quindi aver mantenuto un solo paziente in questi primi 12 giorni di apertura è costato più di 6.203,04 euro ....avremmo speso di meno inviando a casa del paziente infermieri e medici !!!!
La stessa direzione ASL non inserendo il reparto di degenza infermieristica, avviato in questi mesi estivi, nel documento programmatico dell’atto aziendale,  ritiene che il servizio non sia destinato  ad avere una continuità, inventando così un reparto balneare per la prima volta nella storia della sanità italiana.
Quante cose si sarebbero potute realizzare di meglio con questi fondi ????
Il quadro che se ne ricava è sconfortante:
                Assistenza di base pressoché inesistente
                        Servizi inutili ma costosi, con spreco di risorse pubbliche
                        Le minime disposizioni favorevoli alla riattivazione dell’Ospedale di Anagni previste  dal Piano Aziendale, tipo la diagnostica per immagini, del tutto ignorate.
La conclusione da trarre è sotto gli occhi di tutti.
Si vuole la morte definitiva dell’ Ospedale, si vogliono cancellare anche i  Livelli  Essenziali di Assistenza  (LEA) previsti per  Legge.
Tutto ciò accade nell’ incredibile  latitanza del Sindaco di Anagni e dei suoi referenti politici alla Regione, che accoglie acriticamente le  decisioni prese in altre sedi, dimenticando i precisi impegni presi nella  campagna elettorale  sui temi  di salute e ambiente.
ULTIMO PARADOSSO:
E’ in atto un comportamento da parte degli organi dirigenti asl che, nei fatti, ostacola l’ avvio regolare ed  efficace dell’ attività di prevenzione del tumore  alla  mammella, anche se l’ Ospedale dispone di un’apparecchiatura di tecnologia  avanzata per la Tomosintesi che con i contributi dei privati cittadini e del Comune, costituisce un potente  strumento per attivare  un vero  centro di prevenzione e di sviluppo diagnostico, a  beneficio della crescita di strutture ambulatoriali e terapeutiche presso il nostro Ospedale.  
Occorre reagire a questa deriva e riproporre le legittime richieste approvate da nove comuni ed a cui non è stata data alcuna risposta!
In questa giusta direzione si colloca  l’iniziativa intrapresa dal Sindaco di Sgurgola Antonio Corsi di far presentare  una interrogazione,  sia ai consiglieri regionali che ai parlamentari del suo gruppo politico di riferimento,  sulla  situazione dell’ Ospedale di Anagni.
Esempio di iniziativa virtuosa che gli altri sindaci del territorio dovrebbero immediatamente  sostenere.

IL COMITATO torna, dunque, ad  esigere una risposta  chiara su quanto richiesto più volte:
1)  un reparto di 20 posti letto di medicina generale con un proprio organico di medici e infermieri
2)      un Pronto Soccorso presidiato da un organico medico dedicato all'Emergenza-Urgenza;
3)      una chirurgia elettiva ridotta che effettua interventi in Day surgery,
4)      una Unità Operativa di Anestesia e Sala Operatoria;
5)      servizio di Radiologia per indagini radiologiche con trasmissione di immagine collegata in rete allo specialista di turno;
6)      servizio di Laboratorio per indagini laboratoristiche in Pronto Soccorso.



IL    COMITATO “ SALVIAMO  L’OSPEDALE  DI  ANAGNI “

Per informazioni:  mail:info@dirittoallasalute.com.  telefonare al  n.:  3930723990. 
Per aggiornamenti:
www.anagniviva.org
www.dirittoallasalute.com
http://anagniscuolafutura.blogspot.it/

Una fiaba mafiosa

Luciano Granieri



C’era una volta, tanto tempo fa, una terra vastissima, piena di risorse naturali. Gli abitanti erano in condizione di  vivere una vita prospera e felice se solo avessero potuto   godere di quelle ricchezze. Ma ciò non era possibile. Un territorio così ricco aveva attirato  le attenzioni malavitose della criminalità organizzata. Questa invase l’area, iniziò ad impossessarsi, con la violenza, di quelle risorse e prese a taglieggiare le imprese indigene, imponendo loro esose tangenti. Fu così che quella prosperosa terra iniziò a trasformarsi in una valle di povertà. 

La sterminata grandezza di quel  generoso territorio però, poneva alla Grande Mafia  non pochi problemi. Una Cupola ben organizzata, composta da diverse famiglie a capo di  numerosi mandamenti, e governata da uno stuolo di colletti bianchi , non riusciva a controllare i propri affari  li senza coinvolgere persone che in quella  ricca terra vivevano. Furono individuate così alcune famiglie del luogo, senza scrupoli, disposte a taglieggiare i propri conterranei a fronte di ingenti contropartite elargite dalla  Grande Mafia. 

Questo gruppo di famiglie aveva l’incarico  di riscuotere il pizzo e depredare i propri concittadini  a favore dei  malavitosi sfruttatori , avvalendosi, per altro, di armi, che la stessa criminalità organizzata forniva loro, sviluppando un’altra linea di affari profittevole, sia per la Cupola  che per i capi mandamento del  luogo. 

Capitava, però, ogni tanto, che una di queste tribù si montasse  la testa e decidesse di arricchirsi autonomamente, non tenendo conte delle ferree regole di chi l’aveva incaricata di controllare il territorio. Arrivava perfino  ad usare le armi fornite dalla Cupola, contro la Cupola stessa. In questi casi la punizione da parte della  criminalità organizzata era implacabile. Quel ricco territorio, vittima   di taglieggio e depredazioni,  veniva invaso da squadracce punitive, che, con una efferata violenza, eliminavano la famiglia ribelle, provocando carneficine anche fra  la gente innocente. La Grande Mafia  cercava    altresì la collaborazione  di qualche altro gruppo autoctono che potesse aiutarla contro la banda disobbediente. S’innescavano di conseguenza  feroci lotte intestine fra le famiglie. Queste si combattevano fra di loro, creando un’ulteriore occasione di profitto per  la Cupola grazie all’incremento del   commercio di armi. 

Ma il reiterato sfruttamento di questo ricco territorio, un brutto  giorno, portò ad un diminuzione drastica  delle risorse naturali e ridusse in povertà completa gli abitanti del luogo. Questi per sfuggire agli stenti, alle violenze delle  squadracce della Cupola, e degli scagnozzi ingaggiati per controllarli, iniziarono a lasciare la propria terra per approdare in quei posti dove la criminalità si era organizzata. 

All’inizio il fenomeno fu ben tollerato dalla Cupola che usava i nuovi venuti per metterli in competizione con i poveracci  presenti nei loro mandamenti. Infatti bisogna sapere che quella criminalità organizzata, formata da un gran numero di famiglie, guidata da asettici,  crudeli, colletti bianchi, sfruttava e taglieggiava anche  gli abitanti del proprio Paese. E un gruppo di devastati,  venuti da fuori, disposti ad essere più schiavi di quanto non lo fossero i disperati concittadini del  regno, poteva essere utile a ridimensionare certe pretese di libertà che gli sfruttati del posto, cosiddetto civilizzato , ogni tanto reclamavano.

In seguito però  quell’esodo verso il Paese della Cupola cominciava ad essere imbarazzante, non fosse altro perché agitava le cattiva coscienza delle famiglie mafiose e qualcuno all’interno dell’organizzazione cominciava a capire che il fenomeno diventava difficile da governare, infatti una persona talmente sfruttata, da non poter spremere ulteriormente,  diventava solo un rifiuto da scartare  
Fra l’altro nel Paese di partenza ormai, le famiglie autoctone, incaricate di controllare gli affari della Cupola, cominciarono a lucrare  sulla disperazione dei propri  concittadini intenzionati a scappare. Iniziarono a richiedere somme enorme ai migranti per aiutarli a fuggire, o meglio, a farli affogare in mare,  li sfruttavano, li oltraggiavano e li picchiavano. Tutto ciò rischiava di complicare il tranquillo prosperare degli affari criminali. 

Così i colletti bianchi decisero di investire in una nuova forma di difesa.  Affidarono  alle famiglie potenti del luogo, oltre al già consolidato compito di controllare il territorio, anche l'incarico di  bloccare le partenze dei disperati, di ricacciarli indietro, torturarli,  ucciderli se necessario. Dotarono  queste bande  di soldi e mezzi tesi a blindare le coste di partenza. Ciò  per evitare che qualche umanitaria  anima  bella, a bordo delle navi della speranza,  potesse denunciare ciò che avveniva in quel tratto di mare.  Non solo,  adottarono anche provvedimenti interni affinchè le anime belle di cui sopra avessero difficoltà perfino a mettersi in viaggio. 

Oggi la Cupola prospera sempre più, sfruttando intere popolazioni, sia   provenienti dai luoghi che una volta erano ricchi, sia già presenti nei  mandamenti occidentali, mentre milioni di disperati continuano a morire, di violenze, di stenti e povertà.  Siamo alla fine della  fiaba. 

Pochi vissero  felici e contenti, molti,  infelici e scontenti. 

Chi  sono i protagonisti di questa storia? Matteo Messina Denaro, Totò Riina, Salvatore Brusca, Bernardo  Provenzano, Carmine Schiavone?  Sbagliato.  All’interno della Cupola individuiamo   capi mandamento rispondenti ai nomi di: Angela Merkel, Emanuel Macron, Paolo Gentiloni, Marco Minniti e i restanti leader delle nazioni comprese nella UE, oltre che Donald Trump. Ma ci sono  anche Tyyp Erdogan, Al Sisi, il genrale Haftar, Fayez Al Serraji e tutti i capi banda  finanziati dalla Cupola per curare i propri interessi in terre straniere. Ovviamente non dimentichiamo i colletti bianchi, i veri burattinai di tutta la vicenda, ovvero le multinazionali, e i potentati finanziari.  

Si dirà che accostare il fenomeno imperialista-colonialista, sfociato in predatorio liberismo, alla mafia è esagerato.  E perché? Accumulare ricchezze infinite procurando genocidi, morte e desolazione, non è una pratica prettamente mafiosa? Allora quando celebriamo gli eroi della lotta alla mafia, Falcone, Borsellino, e tutti gli altri, oppure quando   organizziamo fiaccolate contro la violenza mafiosa, ricordiamoci che esiste una Cupola molto più grande . Un organizzazione criminale che meriterebbe una lotta aspra, senza quartiere,  che dovrebbe coinvolgere tutti insieme  gli infelici e scontenti della storia per renderli nella realtà, e non nella favola,  finalmente felici e contenti.


martedì 22 agosto 2017

"Peace Piece" per un'evasione musicale

Jerry Jazz Musician
traduzione di Luciano Granieri

Bill Evans


Per minimizzare l’evidenza , il nostro mondo dal 20 gennaio scorso è destinato a non essere più lo stesso. La scienza è diventata una fiction, le istituzioni democratiche sono minacciate, le relazioni globali, che devono essere coltivate per generazioni, sono svalutate ed incomprese, e il nostro mondo è in completo tumulto. Piaccia  Hillary  o no è difficile contestare   quella che è stata    la sua  valutazione più onesta di Donald Trump in campagna elettorale, quando  disse “Un uomo che puoi provocare con un tweet non è un uomo a cui si possano affidare  con fiducia le nostre armi nucleari”.

Dunque  ecco dove oggi ci troviamo, sull’orlo di una catastrofica guerra grazie al narcisismo del nostro infantile  presidente, delle sue menzogne senza fine, della sua dipendenza da Twitter. Dove è richiesta una pacata riflessione e una certa diplomazia si risponde con   una retorica rovente ed impulsiva. I membri dello staff della comunicazione presidenziale   mandano  continuamente   messaggi di  sfida, tanto da suscitare una prevedibile reazione da parte di un  qualche  strano avversario che può rivelarsi  imprevedibile e quindi pericoloso, una persona ancora più sconnessa di Mr. Trump.

Come sfuggire alla follia?  Con un giro su un campo da golf? Forse.  Con   un salto al cinema, una corroborante passeggiata nel parco, portando a spasso il tuo Labrador, tenendo un bambino in braccio, spegnendo tutti i notiziari per meditare?

Stamattina ho trovato una fuga salvifica nella musica di Bill Evans, in particolare nel suo scintillante piano solo “Peace Piece”. Questa brillante e meditativa registrazione del 1958 – un evidente evasione dalla pazzia dovuta alla caratteristica  esecuzione in piano solo- scaturisce dall’introduzione del brano di Leonard Bernstein “Some Other Time” il quale,  mentre Evans  lo stava   suonando, disse: “Ha iniziato a metterci molto del suo feeling, della sua identità in un modo che non avrei mai pensato, bene, terrò in gran conto la sua esecuzione.

Secondo il biografo di Evans Keith Shadwick l’improvvisazione di “Peace Piece” “ha richiamato  l’approfondita conoscenza di Evans della musica di compositori come  Satie, Ravel, ed - in parte – Scriabin”. Il brano fu anche di ispirazione a Miles Davis che lo volle utilizzare nella sessione di registrazione di Kind of Blue.

Quindi…. Per godere di almeno sette minuti di pura e semplice bellezza, per godere di un isola di quiete cliccate qui sotto.


“Pace”

lunedì 21 agosto 2017

Riflessioni di un frusinate che dovrà vendersi pure le mutande.

Luciano Granieri




La piega che ha preso il governo della città, guidata del  rinnovato sindaco Ottaviani, è all’insegna della coerenza con la  sua consiliatura precedente . I due recenti  provvedimenti:  quello  sulla lotta alla prostituzione -che   muove  nel senso di un moralistico decoro, non verso un contrasto allo sfruttamento femminile - e l’altro,  che potremmo ribattezzare “dagli all’immigrato invasore di  panchine   borghesi”, sono il risultato di un becero indirizzo gastro-populista che ha sempre contraddistinto l’amministrazione Ottaviani. 

Nonostante ciò, da quanto si apprende dalla stampa locale, i frusinati continuano ad andare tranquillamente a puttane, in tutti i sensi, e al numero verde (che è a pagamento), istituito per denunciare eventuali sopraffazioni  perpetrate dagli "occupanti abusivi di panchine del centro storico", ai danni di  membri della nostra collettività, non è giunta alcuna segnalazione. Quest’ultima è una buona notizia perché dimostra, o che non esiste alcuna sopraffazione, o che i cittadini frusinati sono un po’ più civili del loro sindaco e non se la sentono di darla addosso al bistrattato  Django panchinaro. 

Al di là di tali  misere boutade, resta in piedi la questione seria dei soldi. Nell’ultimo consiglio comunale, prima delle ferie, si è discusso del bilancio previsionale per il 2017.   Dalla relazione presentata dal dirigente del settore finanze sugli equilibri di bilancio, si evince che  anche le saccocce dei frusinati andranno  presto  a puttane. 

A tal proposito ricordiamo ai più distratti  che il comune di Frosinone è in  piano di riequilibrio economici e finanziario. Come i più assidui lettori di chi scrive ricorderanno alla fine della consiliatura Marini (2012) la Corte dei Conti ha rilevato una massa passiva di oltre 14milioni di euro accumulata dall’ente. Per ripianare tale passività si poteva ricorrere a due procedure:  il dissesto finanziario, con il commissariamento, di fatto, del Comune da parte dei giudici contabili, o il predissesto, nonché piano di riequilibrio economico e finanziario, in cui il sindaco conserva i pieni poteri, ma deve concordare un programma di rientro con la Corte dei Conti.

 Nel primo caso la procedura  si sviluppa in  5 anni con la certezza che comunque il bilancio verrà risanato.  Nel secondo caso il piano di rientro dura 10 anni, ma non è detto che  in questo periodo, dal momento che è il sindaco a comandare i giochi, l’ente riesca a ripianare l’ammanco. Potrebbe quindi accadere che    dopo 10 anni di politiche lacrime e sangue ai danni dei cittadini, i debiti non siano estinti e si attivi la vera e propria procedura di dissesto con altri 5 anni di feroce  austerità.

Come è noto il sindaco Ottaviani nel 2013 scelse la via del piano di riequilibrio economico e finanziario che durerà fino al 2022. E come stanno le cose oggi? Riusciremo nel 2022 a risolvere la questione, o ci aspetteranno  altri 5 anni di macelleria sociale? Non siamo la Corte dei Conti,   siamo dei semplici cittadini, però confrontando la relazione del dirigente del settore finanze del luglio 2017  con il piano concordato nel 2013 fra l’ente e i giudici contabili, è possibile  azzardare un’analisi.

SITUAZIONE DI CASSA:
Il dirigente del settore finanze, nel documento consegnato ai consiglieri, rileva come la situazione contabile presenti un considerevole valore negativo, nonostante gli incassi già realizzati (IMU FSC),   con un’anticipazione di fondi da parte della tesoreria pari a 2milioni di euro. La situazione non migliorerà nemmeno con le entrate della TARI. Tali anticipazioni sono dovute alla copertura di somme già impegnate dal Comune a fronte di finanziamenti che la Regione Lazio dovrà versare ma che ancora non ha provveduto ad erogare. Il dirigente osserva, peraltro, come l’impegno degli uffici competenti per ottenere i finanziamenti regionali sia stato più che scarso e comunque inadeguato ad incassare  quanto dovuto dalla Pisana. 

Nel Piano di riequilibrio economico e finanziario l’ente s’impegna a realizzare nel 2017, un avanzo di parte  corrente (cioè un eccedenza delle entrate in tasse rispetto alle uscite per spese) pari a 1.181.495. Una vera e propria chimera, considerato che oggi stiamo, quanto meno, 2milioni sotto. Come situazione di cassa dunque la realtà si discosta e anche di molto rispetto all’obiettivo concordato  nel piano della Corte dei Conti.

DEBITI FUORI BILANCIO:
Nel più volte citato piano di riequilibrio economico e finanziario per l’esercizio 2017 i debiti fuori bilancio sono pianificati  per    un importo pari a 900 mila euro, con l’impegno di azzerarli del tutto nel 2018. La realtà, invece parla di una somma molto più elevata, quasi 1milione e 400mila euro. Ma il fatto più grave è che questo ammontare è determinato da poste che non dovrebbero essere inserite in questa voce. Il dirigente del settore finanze, sottolinea come i debiti fuori bilancio dovrebbero servire a coprire spese improvvise, determinate da calamità naturali, ristrutturazioni di immobili lesionati, incombenti esigenze sociali. 

Nel caso del comune di Frosinone, invece, questa posta è usata per coprire spese ampiamente programmate,  tutt’altro che urgenti e improvvise, pensiamo ai festini e alle sbicchierate varie. Inoltre permane il vizio di rinviare  la contabilizzazione dei  debiti fuori bilancio   agli esercizi successivi, mandando a monte la promessa di un azzeramento per il 2018. Un procedura del tutto avversa a quanto stabilito dalla Corte dei Conti, non solo nell’accordo stipulato con il Comune nel 2013.  

Le criticità espresse del dirigente dell’ufficio contabile non finiscono qui, ma le due voci analizzate  mostrano chiaramente  come l’ente non stia rispettando il piano di riequilibrio economico e finanziario. Nonostante il Comune di Frosinone, in relazione alla TARI, sia uno dei più esosi, non erogando per altro un servizio efficace ( siamo solo al 18% di raccolta differenziata), nonostante, proprio nell’ultimo consiglio comunale sia stato approvato un aumento dell’IMU/TASI pari a 800mila euro, la situazione contabile si discosta notevolmente da quanto previsto nel piano di riequilibrio economico e finanziario. 

Per il 2017 si doveva realizzare un avanzo di 1milione e 800mila euro e invece siamo in disavanzo almeno di due milioni. I debiti fuori bilancio dovevano essere contenuti in 900mila euro ed invece pare consistano in 1milione e 400mila con la prospettiva di non azzerarli nel 2018. 

Ora  La domanda sorge spontanea in questa situazione siamo  sicuri   che nel 2022 il predissesto non   si strasformi in dissesto?    Dopo 10 anni di disastri sociali sacrificati sull’altare di un’amministrazione sciagurata  tesa ad ottenere solo consensi, ci dovremo vendere pure le mutande? (per chi ancora ce l’ha).  Si  sa noi siamo germi di un’estrema sinistra volgare e disfattista. Supr Nik penserà a tutto, dall’alto dei suoi super poteri, e magari di uno scranno parlamentare  così almeno la vedono i suoi numerosi fan.


  Per chi ha voglia e pazienza propongo un video editato da nel 2016 dove si prova a spiegare la situazione in termini politici, oltre che economici.
Buona Visione.

domenica 20 agosto 2017

Libano: scoperte armi di fabbricazione americana in un nascondiglio lasciato dai terroristi di Al-Nusra

fonte : Press TV 

traduzione di Luciano Granieri

 

La foto mostra, probabilmente,  le armi scoperte nel  nascondiglio  lasciato dai miliziani di Takfiri Jabhat Fateh al-Sham in una zona a nord est del territorio libanese.

L’esercito libanese ha scoperto un nascondiglio di armi lasciate, in un’area situata a nord est del Paese,   dai guerriglieri sconfitti di Takfiri Jabhat Fateh al-Sham, un   gruppo di terroristi   precedentemente   noto come Al-Nusra, 

L’agenzia di stampa nazionale  libanese (NNA), citando un anonimo dirigente, membro della direzione generale della General Security, ha riportato venerdì scorso la notizia secondo cui,   in una perlustrazione degli apparati di intelligence,  è stato rinvenuto un deposito nascosto di  munizioni e missili nella Wadi Hamid Valley, ad est della città di confine di Arsal.  Non sono stati forniti ulteriori dettagli.

Anche  la Reuter ha citato una fonte di sicurezza anonima, come soggetto  che ha diffuso la notizia secondo cui il deposito avrebbe contenuto almeno un missile terra-aria  (SAM),  un certo numero di missili anticarro TOW di fabbricazione americana, così come altri tipi di granate e razzi in abbondanza.

Le successive foto del deposito nascosto sono state fornite dall’agenzia di sicurezza libanese.


















































Il 29 luglio scorso comandanti del movimento di resistenza libanese Hezbollah, hanno  riferito di aver  concluso con successo una lunga settimana di offensiva militare contro Al-Nusra alla periferia di Arsal e nella vicina città di Filta in Siria, terra imprigionata  in un'area  accidentata e montagnosa  , e di aver ucciso almeno 150 terroristi.






















Le immagini, riprese  il 17 agosto 2017 durante una ricognizione guidata dall’esercito libanese, mostrano dei soldati che presidiano una postazione in una zona montagnosa vicino il villaggio orientale di Ras Baalbek, durante una operazione antiterrorismo. (Via AFP). 

Nell’agosto 2014 il  gruppo di terroristi di Al-Nusra e Daesh Tafkiri, invase la città di Arsal al confine nord est del Libano uccidendo un certo numero di combattenti della forza libanese. Presero  anche in ostaggio 30 soldati, ma  la maggior parte  di loro fu rilasciata.

Da allora Hezbollah ed esercito libanese hanno difeso il Libano lungo il suo confine nordorientale.

Gli sviluppi di venerdì scorso sono conseguenti all’azione dell’esercito libanese finalizzata allo  smantellamento   dei nascondigli di Daesh collocati lungo il confine siriano negli ultimi giorni, dopo che questo aveva riconquistato   molte aree precedentemente occupate dai terroristi. Tali sviluppi emergono  anche dopo le accuse  mosse da parte della Siria agli Stati Uniti e al Regno unito di fornire armi chimiche ai terroristi attivi nel paese.

Sabato 19 agosto 2017