Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 12 aprile 2014

Roma manifestazione contro l'austerity e il governo

A cura di Luciano Granieri.

E' finita con le cariche della polizia in Via Veneto fino all'inizio di via del Tritone l'azione dei manifestanti tra il ministero dello sviluppo economico e quello del welfare.
Un corteo che nei numeri ha fatto dimenticare quelli ben più consistenti del 18 e 19 ottobre, si è snodato nel pomeriggio da Porta Pia lungo un percorso tortuoso nel cuore della "city", la zona dei ministeri, ambasciate, sedi di banche e multinazionali, ed è poi ritornato a Porta Pia. Un percorso difficile in una zona completamente assediata dalla polizia che ha chiuso ogni strada e traversa lungo il percorso costringendo il corteo ina una sorta di corridoio blindato.
Dopo lunghe pantomime ludiche, come l'orinare davanti ad alcune sedi istituzionali, o il lancio di arance e uova, una volta giunto in piazza Barberini una parte del corteo si è diretto lungo via Veneto, atteso e circondato - come anche tutto il corteo fin dall'inizio - da poliziotti, carabinieri e guardie di finanza in assetto da combattimento.
Prevedibile e prevista la reazione - durissima - da parte delle cosiddette "forze dell'ordine" che ad un certo punto hanno dato vita ad una lunghissima carica che da via Veneto si è prolungata fino all'inizio di via del Tritone. Qui i manifestanti sono stati ammassati e pressati con  situazioni di vero pericolo che si è riusciti ad evitare con molta difficoltà.
Il corteo si è poi ricomposto ed ha imboccato il Traforo (all'interno del quale un cretino ha acceso anche un fumogeno essendo poi "convinto" a spengerlo rapidamente), poi ha girato su via Nazionale, Piazza della Repubblica, Stazione Termini ed è tornato a Porta Pia.
Uno dei manifestanti  sembra abbia perso le dita di una mano a causa dello scoppio di petardo che stava accendendo. (vedi filmato)  Dalle prime informazioni d'agenzia, sembra si tratti di un venditore ambulante di nazionalità peruviana, di 47 anni. Altri due manifestanti sarebbero rimasti feriti più leggermente anche se una ragazza è stata vista con la testa rotta e sanguinante.
foto e testo tratto da http://contropiano.org/

I VIDEO 


venerdì 11 aprile 2014

La lotta paga? Forse si.

Luciano Granieri


La  lotta paga. E’  un vecchio adagio con cui dopo azioni  di lotta magari eclatanti, come occupazioni di tetti, di gru, si riesce ad ottenere, in una vertenza,   almeno la  visibilità.  Magari non è un atto risolutivo, ma utile al  riconoscimento e all’accoglimento delle ragioni che tale  lotta hanno sollecitato.  Nel luglio scorso l’occupazione del TETTO DEL COMUNE da parte dei lavoratori della Multiservizi,  in difesa del loro  posto di lavoro andato in fumo  per le cocciutaggini strategiche del sindaco di Frosinone ,   aveva ottenuto un primo flebile risultato, con i politici locali in processione davanti ai lavoratori a promettere, in cambio della resa e della discesa dal tetto,  ciò che non avrebbero mai potuto o voluto mantenere. Quell’azione aveva concentrato l’interesse mediatico sulla sciagurata vicenda di lavoratori che dopo anni di  onorato servizio a beneficio della  comunità, dovevano sacrificare il loro posto di lavoro sull’altare delle ricompense elettorali dovute da  chi nel frattempo aveva ottenuto la poltrona di primo cittadino. In quella fase, su sollecitazione della Provincia di Frosinone, la Regione Lazio iniziò ad interessarsi al caso.  Oggi, a dieci mesi da quella temeraria occupazione, i  lavoratori della Multiservizi ritornano a rivendicare il loro sacrosanto diritto a svolgere la propria attività  organizzando un presidio permanente con una tenda  piazzata davanti al Comune.  A far loro visita, questa volta, non i soliti politici, ma il presidente della Regione Zingaretti  con i consiglieri  di maggioranza Mauro Buschini e Daniela Bianchi.  Soggetti realmente in grado di impegnarsi fattivamente perché membri delle istituzioni.  L’impegno ha prodotto il pagamento   della parte di debiti  a carico della Regione per le competenze dovute alla Multiservizi,  e la disponibilità  dell’ente regionale ad entrare a far parte del consiglio di amministrazione di una società da costituirsi in concorso con gli altri azionisti pubblici della ex Multiservizi, Comune di Frosinone e Comune di Alatri, per riassorbire i lavoratori licenziati. Dopo questa manifesta disponibilità, il sindaco Ottaviani non ha più l’alibi della mancanza di collaborazione  da parte della Regione e dovrà finalmente rivelare i motivi veri  per cui ha lasciato andare in malora la Multiservizi  pur disponendo di tutti gli strumenti  per lasciarla vivere.  Lunedì prossimo dovrà dare conto al presidente Zingaretti  della sua posizione e  il venerdì  successivo alla Pisana si aprirà un nuovo tavolo fra le parti (Regione, Comune di Frosinone e lavoratori)  per procedere nella direzione indicata dalle istituzioni regionali cioè   la costituzione di una nuova società che possa riassorbire i lavoratori.  Considerata la fermezza del sindaco Ottaviani  nel rifiutare ogni tipo di apertura alla risoluzione della vertenza,   i  consiglieri regionali si sono dichiarati disponibili a partecipare ad  un consiglio comunale  aperto dove sollecitare il sindaco a riflettere,  affiancando i  lavoratori, della Multiservizi, ma anche i cittadini di Frosinone che dalla privatizzazione di quelle attività  che una volta svolgevano gli addetti della Multiservizi, hanno tutto da perdere,  con un aumento delle tariffe e un degrado della qualità dei servizi erogati.  L’evoluzione della vicenda appena descritta è  un risultato importante ottenuto dai lavoratori in lotta. Ciò a dimostrazione che la lotta paga, ma deve essere pressante, costante nel tempo e condivisa.  Gli esiti della vertenza, pur  indirizzati verso una soluzione positiva, restano ancora incerti. Per questo motivi i lavoratori continueranno la loro lotta.  E’ la sola arma che gli è rimasta, ma quanto pare è anche la più efficace.

giovedì 10 aprile 2014

Lavoratori sotto la tenda. La loro lotta è la nostra lotta

Luciano Granieri.


 

Lavoro, niente altro che lavoro, questo chiedono le donne e gli uomini che per anni hanno assicurato alla cittadinanza di Frosinone la cura delle strade, dei giardini, hanno accompagnato i bambini   a scuola, curato i disabili e accudito le tombe del cimitero. La sordità politica di un sindaco dalla smisurata e spietata egolatria, ha posto  queste donne e questi uomini  fuori dal cerchio  inclusivo della giustizia sociale.  Per  le donne e gli uomini della Multiservizi, ormai in presidio permanente sotto un tenda precaria come una volta era precaria la loro occupazione ,  non è più tempo di discettare di revisori  contabili, di Corte dei Conti, di costituzione di società in-house. E’  scaduto il tempo anche per le passerelle politiche.  Per loro è giunto ormai solo il tempo di riavere un lavoro. E l’unico modo è quello di ottenere quel dannato incontro con il sindaco Ottaviani  per indurlo a presentare in Regione uno straccio di piano industriale utile a riaccendere la speranza.  Lavoro chiedono queste donne, questi uomini, gente che, nonostante tutto,  è orgogliosa di quanto ha dato alla città, molte volte anche senza ricevere  il giusto compenso. Lavoro chiede Marisa, che quando  da disoccupata fu assunta come lavoratrice socialmente utile, si sentì orgogliosamente  in dovere,  verso la comunità,  di accettare quell’incarico   così miseramente remunerato.  Lavoro chiede tutta la nostra terra. Un territorio  costantemente sopra la media in tutte le graduatorie di degrado, classifica nella quale  anche il tasso di disoccupazione non fa eccezione : 14% rispetto alla quota nazionale che si attesta al 12,8%.  Un territorio in cui il lavoro, destinato a generare  valore di scambio,  è praticamente scomparso e, come in tutta Italia e in tutta Europa,  il capitalismo finanziario pone le sue mire sui lavori “concreti” quelli cioè che non creano   valore di scambio, ma valore d’uso, ossia producono attenzione e cura per il prossimo e per l’ambiente in cui si vive e si cresce. Era l’attività in cui erano impegnati quelle donne e quegli uomini che da oggi hanno deciso di vivere ad oltranza sotto una  tenda di fronte al Comune,  e che in nome delle nuove regole del mercato,  si sono visti sottrarre il lavoro,  ceduto al privato di turno, così come capitalismo comanda.  E’ ora che tutta la cittadinanza si svegli, si spogli dei pregiudizi che spesso hanno marchiato   i lavoratori della Multiservizi e capisca che quella lotta per il lavoro è la lotta di tutto un territorio. E’ la lotta della propria città che non vuole soccombere al costante impoverimento che la disoccupazione, ormai cronica,  sta procurando in ampie fasce di popolazione. La loro lotta è la nostra lotta. 


mercoledì 9 aprile 2014

EQUITALIA E LA GRANDE VERGOGNA DELLA PROCURA DI ROMA

Miriam Vitolo


L'inchiesta che appare oggi sui giornali relativa ad Equitalia porta con sè una triste nota di demerito per l'indolente comportamento tenuto in questi mesi dalla Procura della Repubblica di Roma. Da oltre due anni, infatti, si susseguono notizie, voci e leaks su comportamenti platealmente corruttivi ed estorsivi dei funzionari delle agenzie fiscali; ma la Procura ha fatto sempre e solo smentite in merito.

Signor Procuratore Capo, in questo stato di diffuso malaffare, intendiamo richiamarla alle Sue responsabilità per un comportamento che ha passivamente favorito il reiterarsi di pericolosi crimini economici. Ciò non è solo riferito al danno erariale ma, cosa molto più grave, al danno arrecato alle imprese ed ai lavoratori da tali comportamenti.

Anche uno stupido, infatti, avrebbe capito che tra le migliaia di procedimenti giacenti presso le commissioni tributarie, una elevatissima percentuale è stata messa in piedi al solo scopo di compiere ritorsioni contro quei contribuenti o quelle aziende che non si sono piegati al pagamento di tangenti.

Molte di queste aziende hanno chiuso i battenti o sono fallite in questi anni grazie anche alla compiacenza ed all'inerzia della Procura. Sarebbe bastato esaminare i fascicoli per scoprire migliaia di casi di accertamenti condotti in palese abuso, in aperto contrasto con le norme e persino in patente violazione del codice penale.

Ma Lei non ha fatto nulla per eradicare tutto questo con il risultato che, anzi, le Commissioni Tributarie si sono ulteriormente appiattite su un comportamento di supino avallamento degli accertamenti fiscali.

Il danno erariale "indiretto" prodotto dalla perdita delle aziende e dei posti di lavoro è decine di volte superiore ai 17 milioni di euro di cui oggi si parla; e Lei ne è il principale corresponsabile.

Quando la Procura della Repubblica ignora coscientemente il reato pur sapendo che tale comportamento darà vita e luogo al reitero dello stesso, essa travalica il confine tra giustizia e crimine che le è invece stato dato da vigilare.

Pertanto, Signor Procuratore, Lei oggi deve prendere atto di non avere più i requisiti morali e materiali per svolgere l'incarico cui è chiamato; e rassegnare le Sue dimissioni.

La forza di uno Stato di diritto sta nel saper reprimere l'illecito;innanzi tutto se esso si ingenera all'interno dello Stato.


SI VERGOGNI PER COME HA AGITO!

Un giorno “compagni”, l’altro “sbirri”: la sinistra romana gioca alle verginelle.

Daniele Nalbone

I movimenti occupano. Protestano sul tema più caldo, a Roma e non solo, dell’emergenza abitativa. Ce l’hanno con tutti e non risparmiano nessuno: dal governo nazionale a quello locale. Da Renzi a Marino, passando ovviamente  per il ministro Alfano e i deputati, all’ordine pubblico della Capitale. La questione, da spiegare, è semplice:  il problema della casa è sociale e non può ridursi ad ordine pubblico. Davanti ad ogni occupazione decine di telecamere. E, puntuali, ecco gli esponenti politici che sui banche del Campidoglio  siedono  “più a sinistra” .  Sel in primis. Arrivano per portare solidarietà ai movimenti. Per dire che “ si Roma è la città dell’emergenza abitativa. Che si, è giusto occupare. E soprattutto, che si non si può ridurre tutto ad un problema legalitario”.

Passano poche ore. I movimenti, gli stessi che hanno occupato, vengono sgomberati. Qualche occupazione resiste altre  cadono sotto scudi  e manganelli. “Occupare è reato, chi occupa è un criminale”. Un assioma tutto giuridico ma che non ha niente di sociale. A coordinare le operazioni sono le forze di polizia. Ad applaudire agli agenti che riportano, da un lato l’ordine, dall’altro rimettono in strada decine di famiglie, vari esponenti del Pd.  Quel pezzo di Pd ritenuto dai movimenti (e dai politici “più a sinistra” di Roma) vicino a costruttori e cooperative.

E qui scoppia la contraddizione . Sel è con gli occupanti. Il Pd con gli “sgomberati”. Eppure le due forze politiche, a Roma, governano insieme.

Il giorno dopo gli sgomberi, a reazione dei movimenti.  In cento fanno irruzione negli uffici di  Pd e Sel in Via delle Vergini. Entrano, come sono soliti fare, senza bussare. Senza chiedere permesso. E , come spesso accade,  si accende qualche momento di tensione. A farne le spese un paio di piante, due estintori e, secondo quanto  riportato da Pd e Sel (ma i movimenti negano l’aggressione) due lavoratrici dei due partiti della maggioranza di governo. A ognuno scegliere da che parte stare:  se con i movimenti ,  o contro i movimenti. Singolare, però, che a scagliarsi contro i movimenti siano anche gii esponenti di Sel che poche ore prima si facevano fotografare con i “compagni” con la testa rotta dagli “sbirri”. Ora che i movimenti sono entrati in casa loro, i “compagni” sono diventati “sbirri” e loro, in veste più di governo che di lotta, si mostrano solidali con quelli del Pd che, per l’occasione non sono più filo-costruttori e filo-cooperative.

In poche ore cade il velo. In poche ore sia assiste ancora una volta che “il di lotta e di governo” è un assioma che non ha mai funzionato e mai funzionerà. Almeno fino alla prossima competizione elettorale.
Perché se è vero che ieri, 9 aprile 2014, i movimenti  sono stati nemici o, per dirla in maniera edulcorata, “compagni che sbagliano”, è altrettanto vero che il prossimo 25 maggio quegli stessi “compagni che sbagliano” tornano ad essere bacino elettorale dal quale attingere  per fare in modo che i voti agli (ex) esponenti  di movimento inseriti in lista riescano, magari, a far elegger qualcuno  che poi, un giorno, potrebbe ritrovarsi a governare con il Pd di Renzi.  Quel Pd che, lontano dalle elezioni,  è “filo-costruttori” ma che poi, per magia, magari in cambio di qualche assessorato, può tornare utile come interlocutore per la costruzione di un nuovo centro sinistra.  Ora bisogna capire se sarà un centro sinistra di “compagni” o di “sbirri”.


12 aprile, Roma: rompiamo la gabbia dell’Unione Europea!

Rete Nazionale Noi Saremo Tutto


Il prossimo 12 aprile la città di Roma ospiterà una manifestazione nazionale dei movimenti anticapitalisti e del sindacalismo conflittuale di base. Un giornata convocata da una piattaforma di contenuti molto ampia che, seppur declinata secondo le sensibilità delle diverse strutture che stanno costruendo il corteo, mette al centro della mobilitazione il tema dell’Europa e le sue politiche di austerity. Uno sforzo di costruzione che, pur mirando a ricomporre un variegato universo d’opposizione sociale e politica, sembra mancare in una delle sue missioni essenziali: quella di prendere di petto – definendolo chiaramente – il nemico di classe che in tutto il territorio europeo sta calcando la mano dell’austerità sulla vita di milioni di lavoratori precarizzati: l’Unione Europea.Il fatto che il 12 aprile possa essere visto come il primo grande momento di piazza contro il nuovo governo Renzi non deve trovarci impreparati, ancorati ad una lettura semplicistica e semplificata del contesto politico entro cui si inscrive questa nuova operazione agita dal governo delle larghe intese. La capacità che dovremmo riuscire a mettere in campo come movimento di classe è quella di tenere saldamente collegata la protesta contro le politiche del nuovo governo a quella contro la cabina di regia di Bruxelles e Strasburgo. Il rischio da scongiurare è quello di confondere la causa (il disegno politico dell’UE, la sua nuova tendenza imperialista) con l’effetto (l’agenda dei singoli governi, ostaggio di decisioni che ne sovradeterminano l’autonomia politica), trovandoci ad indirizzare quella sacrosanta rabbia sociale contro una semplice ed ininfluente propaggine dei vertici delle istituzioni europee. Sabato scorso 22 marzo, in un partecipato momento di approfondimento sul tema UE e nuovo polo imperialista europeo, abbiamo lanciato una campagna che parte dalla volontà comune di rompere la gabbia dell’Unione Europea, sotto diversi punti di vista: abbattere le gabbie salariali nell’eurozona, denunciare la nuova tendenza militarista ed imperialista, combattere contro le frontiere che regolano la tratta legalizzata della forza lavoro nello spazio europeo – fino a lottare contro le politiche di privatizzazione e dismissione dell’economia pubblica, vero architrave dell’impianto neoliberista europeista. Per questo crediamo che la partecipazione al corteo del 12 aprile vada non solo promossa ma anche organizzata, ed indirizzata contro i protagonisti concreti di queste politiche; fermo restando che questa giornata, nonostante l’importanza che sta via via assumendo, deve essere letta come tappa parziale di una mobilitazione ben più duratura e di più largo respiro, senza cedere allo sterile “scadenzismo” della mobilitazione senza prospettiva. La volontà, fuori da un ragionamento identitario che oggi non gioverebbe a nessuno, è quella di creare un’area di corteo che, tra le strade di Roma, torni a mobilitarsi contro l’UE e la costituzione del polo imperialista europeo. Provare, cioè, a dare corpo ed organizzazione ad una analisi d’insieme che troppo spesso ci ha visti immersi in una dimensione autoreferenziale e tatticista, incapace di coordinarsi anche simbolicamente in una manifestazione di piazza. Ci sembra il momento dunque di proporre un nuovo metodo di lavoro e un nuovo protagonismo militante: quello di reintrodurre nel discorso politico pubblico la possibilità di uscire dalla cornice ideologica imposta dal capitale nella sua nuova veste imperialista continentale.

Le parole in libertà di Sel, che fra un mese ci chiederà il voto per rappresentarci in Europa

Collettivo Militant

Vorremmo ragionare con calma, riflettere attentamente, senza posizioni precostituite da difendere né eroismi radicali da rivendicare, sulla presa di posizione ufficiale della segreteria romana di Sel dopo l’azione ai gruppi consiliari di PD e SEL di ieri. Vorremmo ragionare con calma, ripetiamo, soprattutto perché con alcune persone che stanno dentro quel partito, che ancora definiamo “compagni” nonostante tutto (ed è un “nonostante tutto” grande come una casa: crediamo converranno con noi che non si può essere governanti della città all’interno di una giunta come quella Marino, alleati del PD, fautori di un’operazione politica post e anti comunista, ecc, e stare dalla stessa parte di chi prova ad organizzare – nel suo piccolo – le forze del lavoro in una prospettiva rivoluzionaria), abbiamo vissuto molti anni nelle strade, nei centri sociali, nelle lotte di questa città. Evitiamo di personalizzare la polemica, il problema è politico e collettivo, non di questo o quell’esponente del partito vendoliano, quello si “partito” personale e leaderistico.
Ieri, ripetiamo, insieme a tutta la sinistra antagonista romana, quella stessa sinistra di classe che porta avanti le lotte sociali e politiche della città, abbiamo deciso di portare la nostra rabbia politica contro i mandanti degli sgomberi dell’altro ieri, e più in generale responsabili dell’attuale, concreto, effettivo, modello di sviluppo europeo. Anche, soprattutto, in vista della campagna contro Unione Europea e il suo squallido teatrino elettorale che si appresta ad invadere i media mainstream. Una contestazione dura, e come ogni contestazione ha vissuto i suoi momenti imprevisti, mal gestiti e via dicendo. Ovviamente non c’è nulla di cui scusarsi. Diversi compagni all’ospedale, identificazioni di massa, sgomberi violenti senza alcuna mediazione politica, e potremmo continuare scendendo sempre più nel particolare o, viceversa, allargando verso il generale, stanno lì evidenti a dimostrare chi sono gli aggrediti e chi gli aggressori. Mentre assessori, consiglieri ed esponenti del partito di SEL si davano alla macchia, noi eravamo sui tetti di quei palazzi a lottare contro avversari purtroppo molto più forti di noi. Il minimo che potevamo fare era un’analisi complessiva della situazione, un’analisi politica che chiamasse in causa il principale responsabile dell’attuale situazione socio-economica del paese. E i suoi alleati, purtroppo per loro, portano in dote la responsabilità politica di qualsiasi cosa faccia il partito asse del sistema istituzionale italiano. Se ciò che temete è un allargamento della prospettiva, bene noi lavoriamo proprio in questa direzione: non esiste politica locale, esiste una direzione generale nella quale si lavora, anche nel proprio piccolo.
La cosa che fa più rabbia, in questi casi, è la facile previsione del diverso comportamento che avrebbe avuto SEL se fossimo stati nell’imminenza della tornata elettorale. Sempre la solita trita dinamica: quando occorre mostrarsi per racimolare voti, ogni esponente di SEL si trasforma nel paladino dei movimenti, più duro dei duri, più antagonista degli antagonisti; quando per le elezioni c’è ancora tempo, si rispolverano i comodi abiti salottieri della sinistra che inaugura fontanelle e recinti per cani mentre tutto il mondo che li circonda viene giù in fiamme (ma evidentemente il nostro mondo e il loro non sono comunicanti).
Bene, fatta questa premessa, è necessario prendere atto delle parole espresse da alcuni esponenti del partito vendoliano. Hanno definito “squadristi” compagni che portano avanti, a Roma e non solo, la lotta per la casa; precari e studenti giustamente incazzati che di fronte alla ritirata politica delle classi subalterne decidono comunque di organizzarsi e lottare; ma soprattutto, hanno definito “squadristi” buona parte dei militanti politici della città, quegli stessi che poi vengono esaltati o coccolati quando si avvicina il momento di contarsi nelle urne, quegli stessi compagni che da anni formano il muro al dilagare della violenza neofascista in città, quegli stessi compagni che hanno visto morire tra le loro braccia compagni accoltellati dagli squadristi, quelli veri. Se si pretende ancora di far parte di una determinata cornice politica, bisognerebbe avere la capacità di pesare le parole che si pronunciano, perché mentre per qualcuno sono solo un moto ideale fatto di libri e di riferimenti storici, per qualcun altro (quelli che erano presenti ieri alla contestazione, ma non solo ovviamente) quelle parole sono il senso concreto della quotidianità. Noi la parola squadrismo la subiamo nelle strade, non dalle dichiarazioni sui media.
C’è però un’altra cosa che salta agli occhi del delirante comunicato, e cioè il triste tentativo di dividere i buoni dai cattivi, il movimento compatibile da quello incompatibile, i compagni presentabili da quelli impresentabili. Sapendo benissimo – ed è qui la tristezza infinita dell’operazione criminalizzante – che ieri c’erano proprio quei compagni che poi ci si vanta di frequentare quando si arriverà, fra un mese, a richiederci il voto con la penosa operazione intellettualistica della lista Tsipras. Essendo ben consci, i vari “intellettuali” di partito, che operazioni del genere favoriscono la repressione meglio di qualsiasi indagine della digos. Gli esponenti di SEL vogliono dunque le denunce e il carcere per i compagni presenti ieri? Vogliono partecipare all’ondata repressiva, contribuire agli arresti, stare dunque anche soggettivamente dalla parte del nemico di classe (oltre che oggettivamente, sia detto chiaramente)? Se questo è quello che vogliono, confermassero quelle assurde prese di posizioni filo-repressive. Altrimenti dicessero apertamente che ciò che è avvenuto ieri rientra nella dura dialettica politica, pertanto da risolvere politicamente e non con l’aiuto di polizia e magistratura. Lasciassero la parte del questore a PD e affini, e affrontassero politicamente quei nodi che si stanno stringendo attorno a un tentativo politico evidentemente fallimentare.
Per quanto ci riguarda, siamo contenti di constatare che da ieri il fossato apertosi tra sinistra di classe e riformismo liberale si sia allargato a dismisura. E che si sia fatto un ulteriore passo in avanti verso la definizione del principale responsabile politico dei nostri tempi, che non può essere in alcun modo oggetto di alleanze ma solo foriero di contraddizioni. Se una volta avremmo definito il contrasto tra SEL e avanguardie sociali e politiche una tipica contraddizione in seno al popolo, da tempo questa ha preso le forme della contraddizione tra il popolo e i suoi avversari. Forse è il caso che i “compagni” di SEL riflettano su queste parole.

martedì 8 aprile 2014

Lo scempio dell’anfiteatro romano

http://www.frosinoneweb.net/

Quante volte siete passati per Viale Roma? Ora col Viadotto Biondi “fuori uso” ancora di più. Proprio all’inizio della strada c’è un semaforo. Una via, edifici a destra e a sinistra; niente di particolarmente rilevante.

Eppure state passando sopra un anfiteatro romano, una sorta di Colosseo ciociaro. Un edificio a pianta ellittica, 80 metri di diametro, gradinate, capienza: 2000 spettatori.

Dov’è? Come mai non lo vedete? Perché sopra ci hanno costruito un palazzo!! Cose che succedono solo a Frosinone e nell’Afghanistan ai tempi dei talebani. Vedete la banca, la Monte dei Paschi di Siena? Invece potevate vedere un antichissimo anfiteatro di epoca romana, risalente al primo secolo dopo Cristo.

Quest'anfiteatro venne alla luce nel febbraio del 1965, proprio durante i lavori di costruzione dell’edificio che adesso lo sovrasta. Palazzi voluti da chi allora aveva potere a Frosinone: la Permaflex di Giovanni Pofferi e Licio Gelli. La società Tagliaferri Immobiliare fu accusata della distruzione di un metro e mezzo in altezza del rudere. La Soprintendenza alle Antichità nel 1965 bloccò i lavori e così le scavatrici si fermarono per qualche anno.

Dopo anni di blocco però, la Soprintendenza, non si sa come, rilasciò il nulla osta a costruire! Nel luglio 1968 il comune approvò la licenza edilizia per poter realizzare l’edificio sopra i ruderi. La licenza, guarda caso, fu firmata dieci giorni prima dell’approvazione del Piano Regolatore che avrebbe posto un doppio vincolo al terreno, impedendo di includere così i resti antichi in un comune edificio del novecento.

Le costruzioni edificate in adiacenza e al di sopra dei resti antichi hanno irrimediabilmente alterato lo stato dei luoghi. Inoltre la parte in vista dell’anfiteatro, quella tra i pilastri di appoggio, ha subìto ulteriori  elementi di degrado in questi decenni.

La parte oggi visibile dell’importante antichità consiste in una serie di strutture di fondazione costituenti le concamerazioni di sostegno della cavea, cioè l'insieme delle gradinate, dove prendevano posto gli spettatori, per assistere alle lotte tra gladiatori o combattimenti tra belve feroci.

Oggi i resti dell’anfiteatro sono ufficialmente di proprietà dello Stato ma sorgono su un’area completamente privata, ma non abusiva, legittimata da un vincolo non sufficiente a tutelare però l’anfiteatro da questi decenni di abbandono. Non solo i resti non sono attualmente valorizzati, ma mostrano come sia venuto meno, da parte dello Stato, il dovere di preservare in maniera adeguata la storia della città. Per anni si occupò dell’area il Museo Archeologico di Frosinone, pur non avendo il Comune di Frosinone un obbligo, ma solamente un interesse ad intervenire.

Quello che dovrebbe essere reso pubblico e fatto conoscere con orgoglio, giace quindi nascosto, nel parziale abbandono, sotto un palazzo anonimo, senza che nessuno si preoccupi neanche di rimuovere immondizia e piante spontanee vicino e nelle vestigia dell’antichissimo passato imperiale della città.

Poi senti dire: a Frosinone? No, non c’è niente da visitare!

Inceneritori Colleferro, buone nuove dalle aule di giustizia

Il consiglio direttivo di Raggio Verde

E’ di questi giorni la notizia di un cittadino di Colleferro, Luigi Mattei, e del suo difensore legale, Carlo Affinito, che si sono avvalsi di uno strumento, poco applicato nella pratica giudiziaria, che consente a qualunque cittadino elettore di sostituirsi alle pubbliche amministrazioni, nella fattispecie Comune di Colleferro e Provincia di Roma, per far valere il danno ambientale, qualora le stesse non si siano già costituite nel processo.

Il  procedimento riguarda la cattiva gestione degli inceneritori di Colleferro ed in particolare l’omessa comunicazione nel 2010, da parte dell’allora gestore in Amministrazione Straordinaria, della presenza di materiale radioattivo  in uno dei camion che trasportava CDR, fermato in ingresso in seguito al rilevamento del dispositivo, previsto dall’Autorizzazione Integrata Ambientale dopo il sequestro degli impianti nel 2009.
Lecito domandarsi cosa possa essere avvenuto precedentemente all’installazione del rilevatore.

Gli imputati erano stati condannati con un decreto penale a cui si sono opposti e pochi giorni fa   ha avuto luogo il giudizio immediato.
Ebbene il cittadino ha chiesto un milione di Euro per danni, che, se la responsabilità penale degli imputati venisse accertata, verrebbe liquidato in favore del Comune di Colleferro e della Provincia di Roma, quindi a favore della collettività.
Il Tribunale di Velletri ha riconosciuto l’ammissibilità dell’azione del cittadino e ha disposto la notifica del verbale a Comune di Colleferro e Provincia di Roma che alla prossima udienza potrebbero costituirsi in proprio facendo venire meno la surroga del cittadino.

Le Associazioni Raggio Verde e Rete per la Tutela della Valle del Sacco (Retuvasa) annunciano che si costituiranno parte civile a loro volta nel processo e dichiarano tutto il loro sostegno all’iniziativa legale del cittadino, che andrebbe estesa ovunque, per far sì che trovi finalmente applicazione il principio “chi inquina, paga!”.


Colleferro, 8 aprile 2014 

Se ancora non si è capito…verso il 12 aprile e oltre

Collettivo Militant

Oggi siamo andati a dire al mandante politico degli SGOMBERI DI IERI al responsabile delle peggiori controriforme sociali da vent’anni a questa parte, e soprattutto al principale costruttore di questo modello politico di Unione Europea, che le lotte di classe di questo paese hanno trovato il proprio nemico principale, la Democrazia Cristiana degli anni Duemila. In perfetta continuità con la risposta di massa agli sgomberi di ieri, e in vista del corteo del 12 e più in generale della campagna contro l’Unione Europea, oggi una delegazione di una cinquantina di compagni, espressione di diverse strutture politiche della città, ha portato la propria rabbia fin dentro la sede dei gruppi consiliari del PD in via delle vergini. Un’azione che ha il merito di individuare il responsabile politico dell’attuale modello di sviluppo, uscendo dalle secche del mero economicismo, e che dice chiaramente che questa Unione Europea, questa austerity, questa crisi, hanno un nome e un cognome, e cioè la grande famiglia europea neoliberale, “popolare” e “socialista”. Nel nostro paese, in assenza di un forte partito “popolare” europeizzato, tutto il compito di adeguare il sistema paese alle nuove direttive imperialiste è toccato in sorte al Partito Democratico. E se questo si sta sempre più caratterizzando come il partito istituzionale per eccellenza, forte dell’appoggio bipartisan del concerto europeista, i movimenti di classe non possono non eleggerlo a principale nemico sulla strada della nostra lotta. Così come la DC, per un quarantennio, è stata simbolo e organizzazione del potere, oggi lo è la sua versione mediaticamente aggiornata. E se credono, i democratici di casa nostra, che un po’ di celere a briglia sciolta e un giro di vite repressivo possano bastare a contenere questa risposta politica, sappiano che hanno già perso in partenza.
Mentre scriviamo tutti i compagni sono ancora trattenuti tra due cordoni di celere a difesa del Partito. Seguiranno pertanto aggiornamenti costanti sulla situazione repressiva e sull’evoluzione politica dell’azione.

Verso il 12 aprile. Appunti per una “rossa primavera”

Collettivo Militant




L’assemblea nazionale che si era svolta lo scorso 9 febbraio all’Università “La Sapienza” di Roma aveva segnato alcuni appuntamenti sulle agende di movimento. Alcuni, come quelli dello scorso 14 e 15 marzo che mettevano a tema il rapporto tra movimento di classe e apparato repressivo di Stato, hanno sicuramente evidenziato che l’opposizione sociale e politica in questo paese è un esperimento che nasce dal basso, che si innesta nelle contraddizioni quotidiane nel rapporto capitale/lavoro e che, soprattutto in un momento che puzza di campagna elettorale, ha sancito la sua diversità e diametrale opposizione allo spettacolo delle marionette europee. Esperimenti che però, pur nella bontà dello sforzo congiunto, devono ancora ragionare collettivamente per fare un salto di qualità in termini ricompositivi e organizzativi; passaggi obbligati, aggiungiamo, per poter coniugare una dimensione soggettiva del movimento di classe (ovvero, la percezione di sé come opposizione al governo del capitale) con una dimensione di massa del suo messaggio – vale a dire la capacità di essere chiari, ascoltati, di far viaggiare le proprie parole d’ordine. Quell’assemblea, però, aveva avuto anche il pregio di lanciare un nuovo momento di piazza a carattere nazionale, ovvero quello del prossimo 12 aprile, convocato per dare nuova linfa al percorso di continuità di chi aveva costruito il 19 OTTOBRE, e individuando come orizzonte di lotta comune “l’Europa dell’austerity”, la troika e il governo Renzi (in particolare il suo Jobs Act e il Piano Casa del ministro Lupi). Lo sforzo ricompositivo cui accennavamo in precedenza sta passando anche attraverso la convocazione di una piattaforma ampia, capace di chiamare in piazza quanta più gente possibile; non una sommatoria di strutture e parole d’ordine, sia chiaro – ma la possibilità di ricomporre in quella giornata una variegata opposizione alle politiche che da Bruxelles e Strasburgo vengono di riflesso imposte ai vertici politici di questo paese. Il 12 aprile, infatti, si caratterizzerà anche come il primo momento di piazza convocato dai movimenti contro il nuovo teatro di governo; un motivo in più, quindi, per mantenere una piazza che – nelle intenzioni della convocazione ad inizio 2014 – era destinata a porsi come risposta al vertice europeo sulla disoccupazione giovanile che si sarebbe dovuto tenere a Roma (si vociferava) ad aprile o comunque in primavera. Come invece abbiamo avuto modo di sentire e leggere in questi giorni, l’incontro bilaterale Hollande-Renzi ha stabilito che questo vertice si terrà a luglio, sempre a Roma, nei giorni in cui si inaugurerà il semestre italiano alla guida dell’UE: un motivo in più, quindi, per porre al centro del dibattito un ragionamento ancora più approfondito sul tema Europa. Ma forse è proprio a partire da questa parola, abusata tanto nei tg e nelle colonne dei quotidiani quanto in alcune analisi scritte alle nostre latitudini, che si dovrebbe iniziare a ragionare. In primo luogo per provare a capire e definire qual è la controparte (non solo politica) contro cui indirizziamo le nostre energie.
Più di una volta ci è capitato di riflettere sul fatto che va di moda una sostanziale e dannosa coincidenza/sovrapposizione dell’uso del termine Europa in luogo di Unione Europea, e viceversa. La confusione e sovrapposizione della dimensione geografica con quella politica, che determina una percezione distorta del nemico sovrastatale – appunto quel tentativo costituente di dare anche una forma politica e militare ad un esperimento che ad oggi è basato quasi esclusivamente su un’omologazione monetaria. Ed è proprio a partire da specifiche come queste che si può effettivamente dare un senso ampio a momenti di accumulazione e precipitazione di piazza, rimpallando la responsabilità di un disegno sovranazionale targato UE alle propaggini nazionali e impersonate, nel caso del nostro Paese, dal governo Renzi. Prima che venisse rottamato e allontanato da ogni velleità di carrierismo politico, persino Stefano Fassina si dichiarava contrario all’austerity del governo Monti, ma non per questo dalle nostri parti si è mai creduto in una sorta di redenzione mistica dell’ex Vice-ministro dell’Economia. Ma essere intellegibili ai più, oggi, ci impone di chiamare le cose con il loro nome e, se necessario, fermarsi un momento a riflettere. Essere contro l’Europa dell’austerity ci impone l’imperativo di dichiararci in aperta rottura con il disegno sovranazionale dell’Unione Europea; così come ce lo impone dichiararci nemici della troika e del governo Renzi. Fuggendo l’ansia di scivoloni nazionalisti e reazionari, su cui invece prova a proliferare la destra sociale in tutta Europa, dobbiamo essere determinati ad agire un percorso di coordinamento frontista con gli altri movimenti europei, escludendo la sibillina e ipnotica retorica del ritorno ad una sterile sovranità nazionale e facendo nostra, nostra della sinistra di classe, la vocazione internazionalista dell’opposizione all’UE. D’altronde, per le stesse identiche considerazioni i movimenti che oggi costruiscono il 12 aprile, ovvero gli stessi che hanno costruito il 19 ottobre, si sono detti contrari a qualunque cartello elettorale che non solo vuole riesumare le salme di un ceto politico ormai incapace di inserirsi in altro modo nelle complessità del mercato del lavoro, ma che pone in essere anche un ragionamento tossico secondo cui riformare l’Unione Europea a partire dall’elezione del suo Parlamento è una strada percorribile per cambiare lo stato di cose presenti. Il 12 aprile sarà quindi un momento di opposizione sociale e politica al diktat dell’UE, ai suoi sgherri nei parlamenti degli Stati membri e a chi, trincerato dietro l’ipotesi riformista di alternative elettorali, prova a racimolare le briciole lasciate cadere sotto il tavolo delle false rappresentanze.
Soprattutto, poi, la giornata del 12 aprile deve rendere chiare due cose. Prima di tutto, crediamo la giornata di lotta possa avere una centralità e una forza propulsiva solo se si sarà capaci di uscire dal suo aspetto evenemenziale, attribuendogli piuttosto il significato di una tappa sì determinante ma inserita in un ciclo di mobilitazioni che devono prendere di petto il voto europeo di maggio e il vertice di luglio, creando al contempo le premesse per la ricomposizione di un tessuto di lotta maturato anche nell’analisi della definizione del nemico comune, ovvero questo polo imperialista europeo. D’altro canto, poi, va fatta pesare a livello interno la responsabilità politica dell’unico partito che negli ultimi due anni si è mostrato convintamente e compattamente in linea con il disegno dell’UE: vale a dire il PD, noto per le sue mille guerre intestine eppure così unito quando si tratta di sposare la linea di Bruxells&Co. Non è un caso, crediamo, che tra le maglie del centrodestra e della destra sociale si faccia a spintoni per far emergere la propria tendenza anti-europeista e anti-UE, anche se – ne siamo consci – giocata in una chiave populista, antigovernativa e non certo di classe.

lunedì 7 aprile 2014

QUI L'ASILO "VITTORIO ARRIGONI" A GAZA

Freedom Flottila Italy

In questa palazzina di Gaza City, nel quartiere dove viveva Vittorio Arrigoni, verrà realizzato l'asilo che porterà il suo nome.


“TOGETHER”

Rete La Fenice con Bonaviri
Movimento Indipendente

Progetto sperimentale pilota per la costruzione di Campus tecnico-scientifici partecipativi

Questo progetto parte dall’idea che anche una provincia come la nostra con il suo capoluogo, Frosinone e con  le tante città simbolo di storia possano finalmente considerarsi città simbolo del nostro tempo.
Il progetto che svilupperemo si propone di essere una piccola riconquista di quel passato storico indebolito per mano dell’uomo. L’idea nasce dalla convinzione che il Paese, partendo da ogni dove e da ogni città, possa rinascere anche solo attraverso libere e spontanee  iniziative che la gente comune, la società civile voglia proporre con spirito di servizio e credo. I cittadini in quanto popolo sovrano sono amministratori del bene pubblico e chiedono di partecipare direttamente ai processi decisionali accentuando la qualità della partecipazione alla discussione della res pubblica. Tutte le periferie possono, in tal modo, diventare una Piccola Capitale.

E’ importante quindi cercare una coesione che sia inclusiva, un elemento facilitatore che amplifichi la partecipazione anche rispetto a quegli attori che potranno presentarsi in seguito o di conseguenza all’avvio del processo, processo che prevediamo essere, nell’immediato, estensivo della area vasta in modo da facilitare e stimolare anche quelle autonomie di pensiero e di auto-organizzazione ovviamente sintoniche con le autorità e con i rappresentanti preposti alla salvaguardia del patrimonio pubblico.  Abbiamo per questo previsto la costituzione di una piattaforma quale interfaccia di riferimento per promuovere, sostenere, coordinare attività di ricerca e collaborazioni scientifiche con tutte le realtà universitarie ed istituti d’ambito che volessero coadiuvare l’iniziativa.
Come esperienza pilota proponiamo, alle amministrazioni locali e provinciali, la nascita di start up,   un CAMPUS  laboratorio di idee, fucina di innovazioni sociali, di contaminazione scientifica a garanzia tecnica.
Il primo esempio di concertazione tra cittadinanza attiva, esperti, luminari, scienziati, didatti, tecnici e amministrazioni comunali potrà riguardare il dissesto ambientale idrogeologico che tanti danni sta causando alla nostra terra partendo proprio dalla criticità del Viadotto Biondi della città di Frosinone e della frana ancora oggetto di studi ed approfondimenti. A tal proposito si sta procedendo ad individuare un tavolo di progettazione  in collaborazione con realtà sociali e di settore, esperti locali ed universitari a partire dalla Sapienza e da Roma Tre, con  proposte di tesi di laurea sperimentali, che coordineranno un progetto pilota di risanamento naturalistico della zona interessata“ La frana che viene da lontano” progetto preso in esame molti mesi fa all’interno della programmazione delle azioni sinergiche che la Rete la Fenice sta attualizzando in provincia.
Costruire azioni sinergiche e condivise  accrescere la competitività delle conoscenze e del sapere nel  rispetto della autonomia produttiva dei territori al fine di aumentare il potenziale dell’intera Rete preposta alla nuova dimensione di macro area. In termini di ritorno c’è un primo immediato e vitale effetto sulle azioni intraprese da parte dei cittadini attivi ma anche un positivo secondario effetto a catena sull’intero comparto che ne sarà interessato.  Inoltre, un Campus rimane aperto alla partecipazione di tutte quelle realtà con idee in grado di individuare aree di collaborazione per elaborare interventi tesi a migliorare la capacità innovativa dell’intera provincia. Fare Rete vuol significare fare impresa.

E adesso musica. Under the sky

Dave Holland


Jack In" composed by Jack DeJohnette.
Pat Metheny - Guitar
Herbie Hancock - Piano & Keyboards
Dave Holland - Electric Bass
Jack DeJohnette - Drums
Filmed on July 29, 1990 at Open Theatre East in Tokyo during Live Under The Sky '90.
Ogni commento è superfluo" Good Vibrations"
Luciano Granieri

domenica 6 aprile 2014

Che bello essere professori !

Luciano Granieri


Finalmente abbiamo scoperto chi intralcia le riforme, chi si mette di traverso alla modernizzazione ormai irreversibile della forma istituzionale  dello Stato. Sono i professori. Quei vecchi tromboni alla Rodotà, alla Zagrebelsky, alla Carlassara, con la fissa dell’equilibrio dei poteri, ma soprattutto con l’ossessione della rappresentanza e della partecipazione. Per farla breve son quei dinosauri  che si battono per i diritti sanciti nella Costituzione.  

Questa fondamentale scoperta è stata fatta pochi giorni fà dalla ministra per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi.  A dire il vero un po’ mi sento gratificato ad essere apostrofato con l’immeritato appellativo di “Professore”.  Infatti se per l’onorevole Boschi  sono stati i professori a bloccare le riforme Costituzionali ebbene il sottoscritto era fra quei 15 milioni  e ottocentomila individui che nel 2006 hanno votato contro la Riforma Costituzionale partorita delle illuminate menti dei caciottari di Lorenzago.   Eravamo evidentemente tutti professori.  

D’altra parte essere in compagnia, all’interno di questo  esclusivo club  accademico,  con colui che fece fallire le riforme proposte dalla bicamerale di D’Alema e della successiva bozza Violante, cioè Silvio Berlusconi (non propriamente un professore),  non è che sia  molto gratificante.  Il dubbio sorge spontaneo: o l’onorevole ministro Boschi ha un concetto molto allargato del concetto di professore,  o ha la memoria corta. Più probabile è  questa seconda ipotesi.  

Una che ha la memoria corta però,  e pretende di riformare la Costituzione dovrebbe studiare un po’.  Quella Costituzione che si intende riformare, scippando ai cittadini la prerogativa di votare i Senatori e i consiglieri provinciali, nel nome di un risparmio di denari che è populistico e tutto da dimostrare,  è stata scritta da dei signori , che hanno rischiato la vita, hanno patito nelle carceri fasciste, hanno sacrificato ogni secondo della loro esistenza  all’impegno politico e sociale. 

I sopracitati signori sono stati eletti , con il preciso scopo di scrivere la Costituzione, da un popolo composto per lo più da partigiani, da gente che aveva lottato e sofferto per un mondo di libertà.  Non a caso la nostra Costituzione è un esempio impeccabile di equilibrio fra   i diritti e il dovere di ciascuno di  rispettare i diritti di tutti. Come si permettono questi sedicenti giovani renziani  , con tutto il rispetto per i giovani, dalla memoria corta, di disquisire su certe materie che per lo più ignorano. 

Che ne sanno costoro di come si attacca un  volantino, di come si organizzano manifestazioni.  Come si permette questa gente imboscata nelle segreterie locali,  da cui ha spiccato il volo verso alti lidi  attaccata al carro dell’imbonitore di turno , di esprimere certi giudizi?  Non facciamoci imbrogliare da questi giovani ciarlatani. 

Il percorso non è nuovo. E’ il solito vecchio e odioso  piano atto a disinnescare la partecipazione politica sancita nella Costituzione.  Una legge elettorale che mortifica la partecipazione,  l’alienazione del diritto di votare organi istituzionali intermedi di prossimità territoriale e di eleggere i senatori, lasciando tutto in mano a sindaci e governatori è un ulteriore strappo alle prerogative democratiche e al perseguimento di quanto era sancito nei patti pidduisti.  

Già perché tutto ciò non è affatto nuovo, è il vecchio piano partorito dalla triste compagnia di Licio Gelli. Noi che la memoria ce l’abbiamo quel piano non l’abbiamo dimenticato.

Mahmoud Darwish e la poesia come resistenza,

Relazione di Silvia Moresi per "La settimana della Palestina" al Fortino di Bari (22-30 marzo 2014)

Il grande intellettuale e scrittore palestinese Giabra Ibrahim Giabra così scriveva:
“Gli israeliani avevano fatto un grave errore di calcolo pensando che i palestinesi avrebbero ridotto il loro problema a quello della semplice sopravvivenza ad ogni costo. Intellettuali palestinesi spuntarono improvvisamente dappertutto: scrivendo, insegnando, parlando […]”
Effettivamente, l’unica cosa con cui gli israeliani non avevano fatto i conti, era ed è la resistenza intellettuale; una resistenza molto più difficile da combattere rispetto ad un esercito armato. La cultura tutta, e la letteratura nello specifico, sono le armi più umane e, nello stesso tempo, più potenti da poter opporre al nemico, da poter opporre soprattutto ad una forza coloniale.
Esattamente come i movimenti coloniali europei dell’ottocento, anche il sionismo (e lo stato di Israele successivamente) ha avuto bisogno per sussistere di un “racconto” su cui reggersi che giustificasse, in qualche modo, il proprio progetto coloniale presentandolo come una impresa civilizzatrice verso popolazioni ignoranti e selvagge e, nel caso specifico del sionismo, anche come il ritorno di un popolo in una terra promessa e disabitata.
Non a caso lo slogan del sionismo era “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Ovviamente, visto che lì, in Palestina, in realtà un popolo c’era, c’era una società in evoluzione, intellettualmente e culturalmente viva, era necessario falsificare la Storia, far scomparire i palestinesi concretamente con una brutale occupazione, ma era necessario farli scomparire anche dalla Storia, far scomparire il loro passato, e poter raccontare una Storia in cui i palestinesi non fossero mai esistiti.
L’unico modo per riemergere dall’oblio di una storia che si è cercato di cancellare e portare avanti un doloroso processo di riemersione esistenziale, è prendere la parola!
L’unico modo per invertire i rapporti di potere tra colonizzati e colonizzatori è raccontare, raccontarsi, autorappresentarsi, dare vita ad una contro-narrazione.
Essendo, però, la Palestina ancora senza uno Stato ufficiale, non possiede nemmeno una “Storia ufficiale” che possa legittimare la sua stessa esistenza e quella del suo popolo. Quindi, il compito di raccontare una narrazione obliata e riscrivere la storia da un altro punto di vista, spetta agli intellettuali e agli scrittori palestinesi che sono gli unici che narrando o declamando in versi eventi personali e non, possono rompere il velo dell’oblio e ricomporre questo racconto collettivo.
Ecco perché la letteratura della maggior parte degli autori palestinesi può essere considerata una letteratura utilizzata come resistenza più che una letteratura di resistenza.

Uno degli scrittori palestinesi ad aver compreso pienamente la forza del racconto, della letteratura e, in particolare della poesia, è il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish il quale in una intervista affermò: “Chi impone il proprio racconto, eredita la terra del racconto”, ossia chi riesce ad imporre, in qualche modo, la propria versione della Storia acquisisce diritti e legittimità su una determinata terra. E il racconto nel
conflitto Israele-Palestina è saldamente nelle mani di Israele.
Mahmoud Darwish ripeteva spesso, a questo proposito, di essere un poeta troiano: “Omero ha scritto il poema dei vincitori, ma sono convinto che anche gli uomini sconfitti hanno scritto un loro poema che è scomparso. Ecco il mio compito, scrivere quell’epopea”. Darwish si sentiva il poeta degli sconfitti, il poeta della sconfitta, che non significa essere, però, poeta della resa.
Parlare di Darwish, non è semplice, una poetica complessa la sua che va ben oltre la Palestina come terra concreta e come Stato, tanto che lo stesso poeta spesso criticò chi si era arrogato il diritto di individuare un messaggio pubblico anche nella parte autobiografica della sua opera, e reclamò una lettura meno politica di alcune sue opere.
Mahmoud Darwish nacque ad al-Birwa, un piccolo villaggio nell’alta Galilea il 13 Marzo 1948. Proprio pochi giorni fa è ricorso l’anniversario della nascita, e anche qui a Bari lo abbiamo ricordato con un reading, visto che purtroppo a causa del fallimento della casa editrice che aveva tradotto e pubblicato in Italia la maggior parte delle sue opere, Darwish è completamente scomparso dagli scaffali delle librerie italiane.
Le vicissitudini della vita di questo grande poeta e della sua famiglia sono vicissitudini comuni a molte famiglie palestinesi.
Nel 1948 la famiglia fuggì in Libano cercando rifugio lì e riuscirono dopo un anno a rientrare illegalmente in Palestina che però nel frattempo era diventato Israele e i loro beni erano stati completamente confiscati.
Da quel momento il poeta, come altri palestinesi, dovette fare i conti con la condizione di “straniero” in patria e fuori di essa. Un senso di alienazione costante che influirà non poco sulla sua poetica.
Dopo aver lasciato definitivamente la Palestina nel 1976, passò il resto della sua vita tra Beirut, il Cairo, Tunisi e ‘Amman, e negli anni ottanta fu eletto nel comitato esecutivo dell’OLP da cui si dimise nel 1993 perché contrario agli accordi di Oslo.

Mahmoud Darwish è considerato il più grande poeta palestinese contemporaneo, la voce della Palestina: “Il destino ha voluto che la mia storia individuale si confondesse con la storia collettiva, e che il mio popolo si riconoscesse nella mia voce”, così affermava il poeta in una intervista. Darwish era, però, assolutamente contrario al concetto di poetaprofeta: “Il poeta non rappresenta né una causa né un popolo, ma rappresenta solo se stesso”.
Nella sua idea di poeta, questi non è colui che si arroga il diritto di parlare per gli altri, per un popolo. Il poeta parla del suo universo, della sua sofferenza anche privata, del suo sentire, e può accadere che il sentire del poeta corrisponda, come nel caso di Darwish, ad un sentire comune, e che il poeta riesca a dar voce ai senza voce.
L’arrogarsi il diritto di parlare per gli altri è una presunzione che appartiene prettamente all’uomo politico.
La poesia di Mahmud Darwish afferma la legittimità del diritto all’esistenza dei palestinesi, ne incarna il desiderio di riscatto, e lo fa attraverso un appello alla libertà e alla giustizia universale. Il conflitto mediorientale rappresentato nei suoi versi perde la dimensione di conflitto regionale, locale. Il dramma dell’esilio, dello sradicamento e della repressione del popolo palestinese diventano un dramma collettivo, ma anche una condizione individuale che ognuno a livelli diversi può aver vissuto durante la sua esistenza.
Per questo la sua poesia è pienamente consacrata a livello internazionale, per il suo respiro universale.
Nella poesia di Darwish sono presenti tutti i temi della letteratura post-coloniale: l’identità, la segregazione, l’esilio, il rapporto con l’altro, temi affrontati dal poeta in maniera spesso originale.
Il tema dell’identità, ad esempio, spesso simboleggiato nelle sue poesie da due oggetti, “la carta di identità” e il “passaporto” (che sono anche i titoli di due sue poesie), è una identità fortemente legata alla terra, al luogo, ma che per sussistere, tuttavia, in più di sessant’anni non ha avuto bisogno di uno Stato politico che la riaffermasse costantemente. I versi di Darwish nella poesia “Passaporto” ben esprimono questo concetto: “Spogliato del nome, dell’identità? in una terra che ho nutrito con le mie mani? […] Tutti i cuori della gente, ecco la mia nazionalità. Lasciate cadere allora dalla mia pelle il passaporto!”. Dunque, la “palestinesità” non ha bisogno di un documento che la certifichi, la “palestinesità” è una realtà trasportata sulle spalle, nei gesti, nella lingua, nella coscienza dei palestinesi stessi.
Sempre a proposito dei documenti e dell’identità, Darwish affermò in una intervista:
Il problema è che ci sentiamo obbligati a ricollegarci alle nostre radici, per fortificare le nostre difese. Gli altri ci costringono a farlo, ben più di quanto lo desideriamo o vogliamo. Non credo ci sia al mondo un solo popolo a cui si chieda come ai palestinesi di provare la propria identità. Nessuno dice ai greci non siete greci; ai francesi, non siete francesi. Ma il palestinese deve presentare costantemente i suoi documenti, poiché si cerca di farlo dubitare di se stesso”.
Paradossalmente, però, il “trattamento speciale” a cui sono sottoposti i palestinesi ha rinsaldato la loro identità. I check-point, il muro e tutte le altre barriere dove vengono controllate le identità non fanno altro che ricordare a questo popolo la propria identità che viene così, in un certo modo, costantemente riaffermata. Anche l’esperienza tragica dell’esilio ha rinsaldato il legame con la patria perduta: si è lontani dalla Palestina e senza possibilità di ritorno proprio perché si appartiene a quel territorio.
Mahmoud Darwish, nei suoi versi, resiste, opponendo alla retorica sionista non una identità statica, escludente, razzista, come quella israeliana, ma una identità, potremmo dire citando Edward Said, post-nazionale, accogliente e fluttuante: “Non credo nelle razze pure, né in Medio Oriente, né altrove. Al contrario sono convinto che il meticciato mi arricchisca e arricchisca la mia cultura. […]”. Il poeta sa che su quella terra sono passate molteplici culture (la cananea, la greca, la romana, l’ebraica, la persiana, l’egiziana, l’araba, l’ottomana, l’inglese, la francese, etc.) ed è lui che è pronto a vivere e a dar voce a tutte le identità straniere dentro di lui.
Questa identità con le sue molteplici voci, trova letteralmente casa all’interno dei versi di Darwish che ricostruisce la propria storia, la propria identità e il proprio paese attraverso la scrittura. Darwish fa della poesia un rifugio, una casa in cui preservare vita e identità. Una casa e un rifugio che questa volta nessuno abbatterà con una ruspa o un carrarmato, una casa e una identità che vivranno in eterno.
Questo era quello che intendeva Darwish quando affermava di “vivere nella poesia”. Non a caso, diceva il poeta, nella lingua araba la parola bayt traduce sia la parola casa sia la parola verso poetico.
La riscrittura e la costruzione della Patria per mezzo della poesia e del racconto è un concetto espresso perfettamente nella poesia “Noi viaggiamo come tutti gli altri” in cui il poeta esorta tutti a parlare e raccontare affinché lui e il suo popolo possano infine costruire il loro paese concretamente: “Abbiamo un paese di parole, parla, affinchè io costruisca il mio cammino su pietra di pietra. Abbiamo un paese di parole, parla, parla, per conoscere la fine di questo viaggio”.

Mahmoud Darwish, inoltre, riguardo il tema del passato affermò in una intervista:
Noi poeti palestinesi siamo incerti perché viviamo in un momento della storia in cui sembriamo privi di passato. Siamo alle prese con una idea ricevuta secondo la quale non avremmo passato. Come se il nostro passato appena iniziato, come se fosse proprietà esclusiva dell’altro”.
Il grande utilizzo, nelle sue poesie, della storia dei miti arabi e delle tradizioni deriva proprio dalle considerazioni appena citate. Anche in questo caso Darwish resiste, opponendo una mitologia alternativa a quella della retorica sionista e israeliana che basava (e basa ancora oggi) la propria legittimità su quella terra su antichi miti.
Edward Said aveva osservato, infatti, come sia prerogativa dei regimi imperialistici usare tradizioni e miti per costruire una identità nazionale costruendo un passato da cui si eliminano volutamente elementi e narrazioni non coerenti con il proprio progetto; una archeologia selettiva, ancora oggi molto in voga in Israele.

Un termine onnipresente nelle poesie di Darwish è la parola “nome”. Come ripeteva il poeta, “l’umanità dell’uomo inizia dall’apprendimento dei nomi”, quel nome di cui erano stati privati i palestinesi sottoposti al rapido ed inesorabile processo coloniale di “depersonalizzazione colletiva”, definiti a negativo come “comunità non ebraiche presenti in Palestina”; una negazione forzata dell’identità e dell’umanità.
Ricordare poi i nomi geografici della Palestina, della sua cultura e della sua Storia significa per Darwish anche assicurarne la difesa. Lui stesso affermava: “Forse ho paura di vedere confiscato il passato. La paura di perdere il passato, o di lasciarcelo sfuggire. Nasce da lì la mia preoccupazione di aprire il registro dell’assenza”.
Una paura fondata visto che il sionismo attraverso il processo di ebraizzazione della Terra aveva cancellato i nomi arabi di villaggi, fiumi, colline e li aveva rinominati seconde antichi nomi biblici, rendendo tutto irriconoscibile per i palestinesi; David Ben Gurion, uno dei fondatori del sionismo e primo ministro dello stato di Israele, così affermava: “I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di quelli arabi. Oggi voi ignorate persino i nomi di quegli antichi insediamenti e non è colpa vostra poiché non esistono più libri di geografia che ne parlino. E anzi, non solo non esistono più quei libri, ma neppure quei villaggi”.
Concludendo, l’intento di Darwish era difendere una certa immagine della Palestina, celebrando gli sconfitti e le cose semplici e modeste: l’erba, le rocce, il mandorlo in fiore.
Il grande poeta affermava: “Sono consapevole che la poesia non può opporsi alla guerra né con le sue stesse armi, né con un linguaggio bellico, ma con l’esatto contrario.” La poesia di Darwish fa guerra alla guerra semplicemente armandosi di tutta la fragilità dell’umano.