Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 21 novembre 2019

Verso il 25 novembre: Contro la violenza maschilista

In piazza con le masse del mondo in lotta!



Dichiarazione della Lit - Quarta Internazionale

Quasi 60 anni fa, il 25 novembre, le sorelle Mirabal sono state uccise per aver affrontato la dittatura di Trujillo nella Repubblica Dominicana. In base ai documenti ufficiali, l’Onu ha decretato questa data come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ma noi la consideriamo un giorno di lotta, un giorno per denunciare la violenza che viene esercitata su noi donne tutta la vita e che uccide decine di migliaia di donne ogni anno.
Oggi milioni di donne nel mondo stanno combattendo contro dittature e governi «democratici», affermando che tutto deve essere cambiato perché in questo modo non è possibile continuare. Il modo migliore per combattere la violenza maschilista è che continuiamo ad essere in prima linea in queste lotte per le strade di tutto il mondo.
 
La situazione nel mondo
Le organizzazioni internazionali provano a presentare programmi e discussioni con cui dimostrare che stiamo meglio, ma anche le loro statistiche indicano il contrario. Secondo l’Onu e l’Oms, 120 milioni di donne sono state vittime di abusi sessuali in un qualche momento della loro vita, 60 milioni muoiono ogni anno per mano dei femminicidi, tra i quali quasi la metà sono loro parenti o membri maschi della famiglia.
È scioccante sapere che 1 donna su 3 nel mondo ha subito violenza fisica e/o sessuale, e che queste statistiche sono valide sia nei Paesi poveri che in quelli ricchi. Statistiche incomplete perché non registrano i transfemicidi, e perché molti casi non vengono denunciati in quanto perpetrati principalmente all’interno della famiglia.
In tutto il mondo vengono eseguiti ogni anno 22 milioni di aborti non sicuri, soprattutto nei Paesi poveri, che portano molte donne alla morte o alla mutilazione. Per non parlare della violenza istituzionale subita nei Paesi dove l’aborto è totalmente proibito, come per esempio El Salvador, dove all’estremo vengono imprigionate le donne che hanno subito aborti spontanei.
L'America latina è una delle aree più violente per le donne, ospita 14 dei 25 Paesi con i più alti tassi di femminicidio al mondo, secondo l’Onu in questa area, includendo i Caraibi, 12 tra donne e ragazze vengono uccise ogni giorno. Nell'Unione europea, il 50% delle donne a partire dai 15 anni ha subito qualche tipo di molestia sessuale; 1 europeo su 3 giustifica l'abuso sessuale in  alcuni casi. Nell'Africa centrale e meridionale, il 40% delle giovani donne si sposa prima dei 18 anni e il 14% è costretto a farlo prima dei 15 anni.
Sebbene ci siano donne negli uffici pubblici o discorsi che «ci includono», la violenza maschilista continua ad essere un'epidemia globale che deve essere combattuta.
 
Anche noi diciamo Basta!
La violenza che subiamo è parte della violenza generale che questo sistema capitalista esercita sui poveri, sui lavoratori e sugli oppressi. La crisi economica, la fame e la disuguaglianza hanno colpito duramente le donne.
Ci violano con salari da fame, con tagli alla salute e all’istruzione, nostra e dei nostri figli, non ci permettono nemmeno di andare in pensione con dignità. Siamo discriminate quando migriamo dalla nostra terra in cerca di un pezzo di pane, siamo l'oggetto sessuale delle grandi società per vendere i loro prodotti e poi condannate quando decidiamo liberamente della nostra sessualità.
Le giovani donne soffrono la mancanza di lavoro, così come la brutale precarietà, che è spesso accompagnata da molestie sessuali sul lavoro. Insieme alle bambine siamo vittime permanenti delle reti della tratta e camminiamo con paura per le strade.
Ma la discriminazione sul lavoro e la violenza aumentano per quelle di noi che sono nere, indigene o migranti, le nostre morti passano senza alcuna commozione nei media e fanno parte di vuote statistiche.
Travestiti e trans difficilmente hanno accesso al lavoro, vengono gettati nel flagello della prostituzione, motivo per cui la polizia li perseguita, li picchia e li stupra senza possibilità di difesa. Per non parlare del diritto all'identità di genere o all'orientamento sessuale che nella maggior parte dei Paesi non è ammesso.
Ma la gente dice basta e anche noi. Le masse in Ecuador, Haiti, Hong Kong, Iraq, Cile o Bolivia sono scese in piazza. Lì si vedono le donne in prima linea nella lotta, abbattendo tutti i pregiudizi e combattendo i loro governi per una vita più dignitosa. Le donne boliviane, con i loro figli al seguito, affrontano il colpo di Stato razzista di destra nel loro Paese e dimostrano di essere parte della lotta. Le giovani donne cilene sono state il calcio iniziale di una rivoluzione in atto, occupando la metro, mobilitandosi per le strade, affrontando la repressione di Piñera e organizzandosi in assemblee popolari, sconfiggendo così il mito che il nostro posto è a casa. Le pensionate marciano per i loro diritti nello Stato spagnolo e le giovani donne catalane sono in prima linea nella lotta per l’indipendenza.
 
La violenza maschilista come repressioneIn Cile, le forze militari e di polizia stanno rispondendo con brutale repressione alle masse popolari che si sono mobilitate, si contano già 22 morti, oltre 2000 feriti, di cui 200 che hanno perso un occhio e migliaia di detenuti e detenute.
I governi tremano quando le masse scendono in piazza, ma se le donne abbandonano la paura e vi si uniscono, allora sono terrorizzati. Ecco perché nel Paese delle Ande usano un metodo più brutale di repressione su di loro: l’aggressione maschilista. Ci sono almeno 50 denunce di abusi sessuali contro donne e giovani Lgbti, più di 30 svestizioni e omicidi di donne durante le manifestazioni. Questo modus operandi non solo riflette il maschilismo recalcitrante dei militari, ma è un metodo di intimidazione per il resto delle donne.
Le masse popolari cilene e la classe lavoratrice mondiale devono ripudiare questa situazione con enfasi, denunciarla e invitare le donne ad unirsi con più forza alla lotta, organizzando con loro l'autodifesa per sconfiggere la repressione. Non si tratta più di un'espressione repressiva, è una violenza specifica su metà della popolazione che deve essere ripudiata con enfasi.
 
Basta alla violenza contro le donne, basta allo sfruttamento!
La nostra lotta per la fine della violenza maschilista è e dovrebbe essere parte della lotta della classe lavoratrice e delle masse popolari. Noi donne siamo in cima alle barricate a richiedere anche i nostri diritti.
L'oppressione che subiamo è uno strumento per sfruttarci maggiormente, per trarre benefici dalla nostra sofferenza a favore dei grandi capitalisti. I diritti della parità di genere devono far parte delle richieste di tutti e non solo di noi donne. Non c'è possibilità di cambiare le cose in Cile, se non si combatte anche per le donne. Sconfiggere il colpo di Stato in Bolivia significa lottare anche per le donne, le indigene, povere e lavoratrici.
La disuguaglianza è fondamentale per il sistema capitalista e il maschilismo è una forma di controllo su di noi. Per darci i lavori peggiori, perché la cura della famiglia sia il nostro compito senza alcuna remunerazione, in modo che la classe lavoratrice sia divisa e non combatta per interessi comuni.
Porre fine alla violenza maschilista implica porre fine a questo sistema che perpetua la nostra oppressione a beneficio dei capitalisti. Non diciamo che la rivoluzione risolverà immediatamente tutti i nostri problemi, ma siamo convinte che senza di essa non ci sarà via d'uscita.
Per noi cambiare questa società è questione di vita o di morte, come Lit-Quarta Internazionale continueremo ad essere in piazza con le donne che lottano insieme alle masse popolari e usciremo questo 25 novembre per gridare ad alta voce:
• Basta con la violenza maschilista!
• Basta con l'oppressione e lo sfruttamento!
• Lunga vita alla lotta delle masse nelle strade!
• Abbasso i governi affamatori e repressivi!

Con il Mes il rischio di passare dalla padella alla brace

Alfonso Gianni (il manifesto 21 novembre 2019)



Le fibrillazioni interne al governo non vengono solo dalla legge di bilancio su cui piovono migliaia di emendamenti, buona parte dei quali dall’interno delle stesse forze di maggioranza. Ma anche da una vicenda tenuta fin qui come la polvere sotto il tappeto, che non poteva non riemergere con un certo fragore. Alcuni commentatori, che come al solito leggono le questioni europee dal buco della serratura degli scenari politici del nostro paese, hanno parlato del risorgere di una tenaglia pentaleghista che assedia il Conte due. Mettendo insieme cose tra loro diversissime, come lo ius culturae e la revisione dei decreti “sicurezza” con la “riforma” in itinere del Mes, il meccanismo europeo di stabilità, ovvero il Fondo Salva-Stati. Se la prima questione riporta in superficie la vena xenofoba e securitaria che attraversa in particolare il M5S, a cominciare dal suo “capo politico”, la seconda merita tutt’altra valutazione. Delle modifiche al funzionamento del Mes avevano cominciato a parlare la Merkel e Macron nel vertice franco-tedesco, tenutosi a Mesemberg il 19 giugno dell’anno scorso. Da lì era cominciato un cammino che passando attraverso diverse riunioni europee, dal vertice euro del dicembre 2018 all’Eurogruppo dello scorso 7 novembre, ha infine portato  il presidente Centeno ad affermare che i lavori tecnici e legali erano stati concordati e chiusi. Quindi il pacchetto è pronto per giungere nei parlamenti europei, dai quali come al solito si pretende una semplice ratifica.  Ma non si tratta di bruscolini, tanto che anche da parte dell’ex capoeconomista della Confindustria, Giampaolo Galli, nonché dallo stesso Governatore di Bankitalia, sono emerse preoccupazioni e aperte critiche. Queste, sommate alle proteste della Lega e degli stessi grillini che si sono sentiti tagliati fuori, hanno prima costretto Palazzo Chigi a negare che vi fosse già stato un accordo formale in sede Ue da parte del governo italiano e quindi a convocare un vertice di maggioranza per il primo mattino di domani. Nel frattempo Gualtieri, che difende le linee di riforma, si è dichiarato disponibile a essere sentito dalla commissione finanze  del Senato e dal Pd si fa velenosamente notare che la trattativa sulla materia era stata condotta dal ministro Tria. La modifica delle regole del Mes corrisponde in realtà ad un ulteriore giro di vite nella governance del tutto a-democratica della Ue. Infatti il potere decisionale passa dalla Commissione al Mes, che è un organismo intergovernativo formato da  tecnocrati. Questo dovrebbe valutare la sostenibilità del debito pubblico di un paese dell’eurozona ai fini della concessione di aiuti finanziari. Né la Commissione né la Bce potrebbero agire senza la decisione del Mes che potrebbe disporre di due linee di credito, una a paesi ritenuti solidi sulla base di una semplice lettera di intenti, l’altra a paesi che non soddisfano tutti i requisiti, in questo caso sottoponendoli a un preciso Memorandum. In sostanza il Mes agirebbe come una sorta di Fondo monetario europeo, sostituendo il Fmi in una rinnovata Troika, dotato del potere di costringere un paese a ristrutturare il proprio debito in modo preventivo rispetto alla richiesta di aiuti. La vicenda greca si ripropone sotto altre vesti. L’invasività del Mes nelle politiche di bilancio degli stati membri diventerebbe clamorosa, tale da porre seri aspetti di incostituzionalità alla luce della nostra Carta fondamentale. Sarebbe un’applicazione perversa, ma dal loro punto di vista logica, di quell’austerità espansiva di cui hanno straparlato le elite europee. Anche Visco ha recentemente avvertito che gli eventuali benefici di una ristrutturazione del debito dovrebbero essere messi a confronto col fatto che il solo suo annuncio potrebbe innescare aspettative di default. In attesa del vertice di venerdì la linea del Conte due sembra essere quella del rinvio delle decisioni, dati i tempi strettissimi, visto che incombe l’Eurogruppo del 4 dicembre e il vertice dei capi di Stato e di governo del 13 dello stesso mese, con l’a richiesta di varare un pacchetto che comprenda anche passi avanti in tema di unione bancaria. Ma questa pare arenata sul tema dell’assicurazione comune dei depositi, avendo contro la Germania e i Paesi del Nord Europa, che vorrebbero che gli istituti bancari italiani si alleggerissero del fardello degli Npl (i crediti non o difficilmente esigibili) e che i titoli di stato non siano più risk-free, un guaio per le nostre banche che si sono riempite di Btp. Non sarebbe uno scambio, ma un passaggio dalla padella alla brace.

domenica 17 novembre 2019

E' lotta di classe? No è matematica

Luciano Granieri




Visto che spesso ci accusano di essere utopisti e poco pratici, stavolta affidiamoci alla freddezza dei conti. 

Il debito pubblico italiano è arrivato a 2.436 miliardi di euro. Secondo una stima di Deutsch Bank il patrimonio pubblico totale è di 571 miliardi. E’ evidente che anche vendendoci il Colosseo non potremmo mai "apparare" tutti  i buffi.  Viene fra l’altro il dubbio che i creditori non vogliono il ripianamento debitorio , infatti quale banca presterebbe 2400 miliardi a chi ha un patrimonio pari quasi ad un quinto di quanto dovrebbe restituire? Evidentemente  è  meglio non rinunciare a  60 miliardi d’interessi sicuri  all’anno. Ed è proprio la spesa per interesse ad alimentare il debito in un circolo vizioso.   Infatti se andiamo a considerare la differenza fra le uscite e le entrate  che lo Stato  incassa in tributi  al netto dell’evasione, ci rendiamo conto che queste  ultime superano le prime. Cioè entrano più tasse rispetto a quanto si spende per  il benessere della collettività. 

Siamo dunque rovinati? Nient’affatto.  Infatti , secondo una stima della Banca d’Italia, i patrimoni privati ammontano a 9.743 miliardi di euro solo per i beni e servizi dichiarati, cioè al netto dei capitali trasferiti nei paradisi fiscali. 

Dunque l’equazione matematica è molto semplice.

 Per  azzerare il debito pubblico, risparmiando gli interessi , basta prendere i soldi dove ci sono, cioè nelle tasche di quei soggetti privati   titolari di quasi 9.800 miliardi  di patrimoni . 

In particolare, se espropriassimo  solo 4.743 miliardi da questo tesoretto, avremmo i soldi per azzerare il  debito pubblico con annessa spesa per interessi , in più avanzerebbero altri 2.300 miliardi per, ad esempio,  nazionalizzare e riconvertire l’Ilva,  creando posti di lavoro non nocivi , evitando di  avvelenare i cittadini. Avremmo la totale libertà di mandare a quel paese i pescecani di ArcelorMittal, previo pagamento di danni ed indennizzi, e fargli pure concorrenza nel mercato dell’acciaio. Si potrebbero riportare sotto il controllo della collettività, asset strategici come Alitallia.

 I Comuni, anziché arrabattarsi con le miserie che il patto di stabilità interna lascia loro, costringendoli a svendere le città ai privati,  potrebbero ricevere finanziamenti per attuare politiche di riconversione energetica degli immobili residenziali e comunali  a titolo gratuito. Vi immaginate quanti piani industriali di riconversione produttiva ecologica  potrebbero partire, sfruttando le ricerche scientifiche delle nostre università, anch’esse, come l’intero comparto dell’istruzione, da rivitalizzare con una tale ingente mole di denaro?  Oppure quanto potrebbe giovarsi la sanità pubblica da questa operazione?  

Come fare? Semplice. Dal momento che la suddetta ricchezza (9.473 miliardi)  in mano a pochi fortunati  è rappresentata per il 95% da patrimoni finanziari ed immobiliari, è sufficiente una bella patrimoniale sull'accumulazione  e  sugli immobili,  in particolare quelli vuoti, fonte di speculazione immobiliare , oltre che, come propone Potere al Popolo, un tassa extra del 10%  sui redditi dell’1% dei soggetti più ricchi

Sarebbe   una grande operazione di redistribuzione del reddito che farebbe ripartire alla grande l’economia reale, ma anche  una sorta di riappropriazione di quanto indebitamente sottratto alla popolazione. 

Giova ricordare che tali fortune sono state accumulate attraverso lo sfruttamento del lavoro altrui -  con una continua e scientifica    sottrazione di redditi dal lavoro a favore della speculazione finanziaria – con   l’evasione fiscale, la corruzione e il dispiegarsi di criminali sistemi tangentizi. 

Si tratterebbe quindi di riprendersi il mal tolto. Potere al Popolo ha provato a sensibilizzare e coinvolgere quanti più cittadini possibile nelle piazze di molte città in questa pianificazione di riappropriazione “DEBITA” e nonostante il silenzio dei media pare che l’operazione abbia avuto successo. Si dirà è lotta di classe? Sicuramente,  ma è in primo luogo una semplice  una operazione matematica.

Per sapere di più sulle manifestazioni organizzata da  da Potere al Popolo clicca qui

Un novembre di 61 anni fa con Billie Holiday a Milano

La storia del jazz come la storia di tutte le cose umane è fatta di piccoli grandi eventi, anniversari, ricordi. Di seguito un brano tratto dal libro Stasera Jazz di Arrigo Polillo, in cui   il più grande critico di jazz italiano, racconta quando, nel novembre di 61 anni, fa Billie Holiday fu a Milano. Un anniversario di poca importanza per i più ma di grande rilevanza per gli appassionati di jazz. Buona Lettura.
Luciano Granieri




Billie Holiday (protestata)

Arrigo Polillo

Billie Holiday capitò a Milano nel novembre del 1958, e cioè verso la fine della sua tribolatissima esistenza . E qui fu umiliata come non le era capitato mai nel corso della sua carriera di cantante.

Ebbe la disgrazia di essere scritturata da un impresario che trattava per lo più numeri d’attrazione per gli avanspettacoli  e più in generale per lo show business minore. Costui, che probabilmente non sapeva bene chi fosse, la mise nel cartellone del cinema Smeraldo (un teatrone  frequentato da un pubblico popolare) insieme a giocolieri, fantasisti e così via. C’era anche Fausto Cigliano.

Non so in quanti andammo ad ascoltarla la prima sera: certo eravamo in pochissimi, in teatro, a sapere chi fosse Billie Holiday. Gli altri del pubblico pensavano di trovarsi dinanzi a una delle tante fasulle “attrazioni internazionali” che negli spettacolini dello Smeraldo si sprecavano.

Per quanto ricordo, Billie contò pressappoco come faceva  sempre nei suoi ultimi dischi: non era più, beninteso, la favolosa “Lady Day” di Strange Fruit, ma era pur sempre una più che notevole cantante di jazz. Fatto sta che il pubblico non la capì affatto. Ecco come io riferii i fatti su “Musica Jazz”: “Quando è entrata in scena Billie Holiday e ha iniziato a cantare accompagnata dall’eccellente pianista  Mal Waldron e da un’orchestrina di fossa su cui è persino inutile infierire , è successo il finimondo. La voce acre, le inflessioni deliberatamente distorte di Billie sono state scambiate per il farfugliamento di un’avvinazzata:  si è capito subito che non sarebbe stato possibile giungere al termine del “numero” e men che meno della scrittura. Billie aveva appena terminato la quinta canzone che fu pregata, dal presentatore, di lasciare il palcoscenico (su cui non ricomparve più perché fu protestata): al pubblico fu detto che “non stava bene”.

I più accesi jazzofili milanesi non si dettero pace per quanto era accaduto. La sera dopo tre o quattro suoi ammiratori , tra i quali anch’io, si recarono all’Hotel Duomo, dove Billie era alloggiata, per confortarla in qualche modo e per offrirle qualche distrazione.

Lei ci fu riconoscente e accettò volentieri la nostra compagnia per la serata. L’accompagnammo alla Taverna Messicana a sentire un po’ di jazz nostrano; poi andammo tutti a casa di Mario Fattori, pubblicitario innamorato del jazz, a bere qualcosa e a chiacchierare.

Billie, si sa, era schiava delle droghe pesanti, e non era di grande compagnia: di tanto in tanto la sorprendevo a fissare intensamente il vuoto o qualche punto del muro. Spesso, ascoltando la musica degli altri (quella del complessino della Taverna Messicana, oppure di un disco di Sinatra, che volle ascoltare a casa di Fattori), la riprendeva subito per canticchiarla a sua volta, distorcendone la melodia in quella sua inconfondibile maniera. Per il resto rispondeva alle domande che le venivano rivolte, ma non faceva certo conversazione. Era una donna amara, risentita: non ricordo di averla mai vista sorridere.

Penso che sia stata quella sera un poco lugubre a dare a Fattori l’idea di organizzare per lei, insieme a Pino Maffei, uno spettacolo riparatorio a cui potesse assistere la fine creme  degli appassionati del jazz milanese. Comunque sia , pochi giorni dopo i due affittarono il Gerolamo, un minuscolo teatrino destinato per lo più-allora- agli spettacoli di marionette, e fecero  passare la voce fra gli amici.

Quella sera le strutture del teatrino furono messe a dura prova dalla folla che lo riempì:  eppure le balconate “a prova di bambino” ressero bene. Quanto a Billie,  s’impegnò a fondo, e diede uno splendido, commovente recital. Il pubblico le tributò ovazioni trionfali. In quel teatrino così piccolo ciascuno aveva l’impressione di poterla abbracciare. E sembrava volesse farlo.

Sei mesi dopo, o giù di li, ci giunse la notizia che Billie era morta, nel letto di un ospedale di New York. C’era un poliziotto a sorvegliarla, fuori dalla sua camera.