Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 31 dicembre 2019

2019: un anno di rivoluzioni, un anno di lezioni per i rivoluzionari

Salvatore de Lorenzo


Quando gli storici ricostruiranno quanto sta avvenendo in tutto il mondo, ricorderanno quello che sta volgendo al termine in questi giorni come l’anno delle ascese rivoluzionarie del proletariato mondiale contro i governi del capitalismo internazionale. In questo articolo analizzeremo le principali mobilitazioni in America Latina e Medio Oriente, ma non possono essere trascurate, in un’analisi più complessiva, le analoghe rivolte del proletariato africano, come le mobilitazioni di piazza che hanno riguardato l’Algeria e il Sudan e i continui scontri in Etiopia, dove il presidente Abiy Ahmed, dopo aver ritirato il premio Nobel per la pace, ha represso nel sangue (il bilancio è di 67 morti) le rivolte di gruppi etnici ridotti alla fame dalle politiche dei camerieri del Fmi, in un Paese che ha una straordinaria crescita del Pil (il tasso di crescita viaggia attorno al 10%) e salari medi di 60$ al mese. Né hanno importanza minore le tensioni rivoluzionarie che hanno attraversato e attraversano in queste ore la Francia, o i moti indipendentisti del popolo catalano (un milione di persone che sono scese in piazza a seguito dell’arresto dei leader dei partiti indipendentisti e si sono scontrate con i Mossos inviati dal governo spagnolo a sedare la protesta) e di quello di Hong Kong contro il governo centrale di Pechino.

L’America Latina
A partire da settembre, l’America Latina sta vivendo una straordinaria stagione di lotte attraverso scioperi, mobilitazioni di piazza, scontri tra le masse popolari e l’apparato militare degli Stati borghesi.
Una ascesa rivoluzionaria che ha avuto il suo avvio con le proteste della popolazione di Haiti contro il governo Moise. In questo Paese il 60% degli 11 milioni di abitanti è costretta dalla barbarie capitalista a vivere al di sotto della soglia di povertà e il 24% è in condizioni di estrema povertà.  Il 41% della popolazione è disoccupata. L'inflazione attuale è del 18%, principalmente nel settore alimentare e dei farmaci. Il tutto è condito da una crisi cronica nella fornitura di elettricità. Nel luglio 2018 Moïse, che è stato coinvolto in diversi scandali e fenomeni di corruttela, in ossequio agli accordi con il Fmi ha fatto lievitare il costo dei carburanti (incremento del 38% della benzina, del 48% del diesel e del 51% del cherosene), dopo aver sottratto, assieme ad altri ministri del governo, una parte ingente dei 3800 milioni di dollari del programma Petrocaribe, una sorta di accordo con il Venezuela per il rifornimento di petrolio e carburanti a prezzo ribassato. È questo ad aver innescato le proteste popolari, che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone. Le mobilitazioni hanno avuto inizio in febbraio ma sono poi riprese a settembre e sono continuate ininterrottamente per oltre otto settimane. Nei ripetuti scontri con l’apparato repressivo sono state incendiate auto di lusso e lanciate pietre contro il palazzo presidenziale. Un ruolo di primo piano è stato assunto dai lavoratori del settore tessile coordinati da Sota-Bo, un sindacato in cui svolge un ruolo di direzione l’organizzazione rivoluzionaria Batay Ouvriyé. I lavoratori avanzano rivendicazioni economiche, dall’aumento del salario minimo alla riduzione della giornata di lavoro ma contestano anche la privatizzazione dei trasporti, dell’istruzione e della sanità.
Agli inizi di ottobre è stata la volta dell’ascesa rivoluzionaria in Ecuador. Nelle due settimane di mobilitazione centinaia di migliaia di persone hanno preso d’assalto il palazzo del governo, dove erano asserragliati il presidente Lenin Moreno e i suoi ministri, costringendoli alla fuga. Anche in Ecuador le proteste sono state innescate dalle misure economiche imposte dal Fmi (aumento dei prezzi dei carburanti, tagli agli stipendi degli impiegati pubblici, aumento dell’orario di lavoro). Il ruolo delle direzioni della principale confederazione sindacale delle popolazioni indigene, la Conaie, è stato ambiguo. Sotto l’onda della mobilitazione di massa, la Conaie ha inizialmente imposto a Lenin Moreno di ritirare le misure economiche ma ha poi lavorato a far rifluire la protesta che, come sarebbe stato naturale data l’ampiezza della mobilitazione, avrebbe condotto alla cacciata del governo borghese. Nonostante le forti misure repressive adottate dal governo, il popolo ecuadoriano ha mostrato un grande spirito di lotta e soprattutto un'elevata capacità di auto-organizzazione, giungendo sino ad arrestare alcuni militari agli ordini del governo.  Alcuni settori minoritari delle forze armate hanno persino solidarizzato apertamente con i manifestanti.
Il 18 ottobre è insorto il proletariato cileno e la rivoluzione è tuttora in corso. A innescare la miccia delle proteste è stato l’aumento dei costi dei mezzi di trasporto. Sono stati gli studenti, che sono sul piede di guerra da oltre dieci anni in Cile per i costi esorbitanti delle tasse universitarie, ad iniziare la fase insurrezionale. A differenza delle precedenti rivolte studentesche (nel 2011 gli studenti occuparono centinaia di istituti a Santiago), stavolta l’intero proletariato cileno si è immediatamente schierato al fianco degli studenti negli scontri di piazza con l’apparato repressivo dello Stato borghese.
L’aumento di 30 pesos sui biglietti dei tram è stata solo la miccia che ha prodotto l’esplosione di tensioni che covavano nel ventre del proletariato cileno da più di trent’anni, causate dalle sofferenze economiche di una popolazione sottoposta ad una costante rapina da parte dei monopolisti cileni (e dell’imperialismo) sin dai tempi del genocida Pinochet. L’impianto ultra-liberista di Milton Friedman, importato in Cile sin dal 1973 dal fratello José dell’attuale presidente Sebastian Pinera, ha trasformato il Cile in uno dei Paesi in cui il livello di disuguaglianza tra le classi subalterne (il 90% della popolazione) e la borghesia è tra i più elevati al mondo (nel 2017 il Cile era quarto in questa triste classifica dopo Sudafrica, Messico e Costa Rica). In un Paese in cui il costo della vita è leggermente inferiore a quello dei Paesi europei, è dai bassi salari (in media intorno ai 500 $) che i ceti subalterni sono costretti a estrarre una quota (in media intorno al 10%) da devolvere agli istituti di credito americani e cileni per potersi costruire una miserrima pensione (in media intorno ai 200$, ben al di sotto del salario minimo, pari a 370$) e devono inoltre istituire dei mutui con le banche per iscrivere i figli all’università. A causa di queste vessazioni, solo il 10% degli studenti provenienti dai ceti subalterni riesce a conseguire un titolo superiore di studi in Cile.
Nella prima settimana di mobilitazione il presidente Pinera, uno dei principali monopolisti cileni (controlla istituti di credito, linee aeree e canali televisivi), ha messo in campo tutte le più inaudite misure repressive per reprimere l’insurrezione popolare ma, nonostante l’elevato numero di morti (oltre 20), le centinaia di feriti, le circa 20.000 persone arrestate, le violenze sessuali della polizia cilena ai danni delle donne e le pallottole di gomma sparate negli occhi dei rivoltosi, la protesta continua ad assume un’ampiezza straordinaria, con diversi scioperi coordinati dal Tavolo dell’unità sociale che vedono coinvolti i lavoratori del settore minerario, i portuali, gli insegnanti e tutto il settore pubblico. Attualmente è in corso il tentativo del governo di disinnescare i moti rivoluzionari, incanalandoli nell’alveo di un’Assemblea costituente. Pinera sta cercando di far leva sulle forze riformiste di opposizione, come lo screditato Ps, lo stalinista Pc e il Frente Amplio (un calderone che include da partiti liberali fino a partiti pseudo-trotskisti vicini a Podemos). C’è poco da fare affidamento su queste forze riformiste. In questi giorni, con il loro sostegno, il governo cileno ha approvato di fretta e furia un decreto che vieta lo sciopero.
La Costituente che propongono è un tranello. Come sappiamo, infatti, la storia degli ultimi cento anni è stata tristemente attraversata da assemblee costituenti miste, cioè costituite da delegati sia della classe operaia che della borghesia (dalla costituente tedesca del 1919 da cui nacque la repubblica di Weimar che aprì le porte al nazismo, a quella del 1946 in Italia in cui venne formalizzato il dominio di quegli stessi capitalisti che si erano alleati con Mussolini per fare mattanza della classe operaia insorta durante il biennio rosso). Ed è quindi di fondamentale importanza ricordare che l’unica volta in cui si impiantò un governo operaio fu proprio quando i bolscevichi non riconobbero l’esito delle votazioni per la Costituente e demandarono al congresso panrusso dei Soviet la scrittura della Costituzione sovietica. A partire dalle esperienze concrete maturate dal movimento operaio, dunque, il Mit, sezione cilena della Lit-Quarta Internazionale, è stata l’unica organizzazione che ha spiegato e continua a spiegare, agli studenti e ai lavoratori in lotta, che la questione dell’assemblea costituente è strettamente intrecciata con quella del potere e che solo un governo basato sui delegati dei comitati dei lavoratori, degli studenti e della popolazione indigena è legittimato a scrivere la futura carta costituzionale cilena.
Tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre si è verificato, in Bolivia, un golpe militare che ha posto fine al governo di Evo Morales. Morales era asceso al potere in Bolivia nel 2005 ed aveva spesso forzato le regole per poter essere rieletto al governo del Paese. Alle ultime elezioni vi sono realmente pochi dubbi sul fatto che avesse commesso dei brogli elettorali per risultare vincitore al primo turno. Il golpe militare non è stato ovviamente contro Morales, nonostante le sciocchezze che in Italia raccontano gli stalinisti del Pc di Marco Rizzo e i riformisti della Rifondazione Comunista. Esso è servito alla borghesia bianca e razzista boliviana per fare mattanza degli attivisti del movimento indigeno e della classe operaia che contestavano le politiche di Morales, consentendo nel contempo a Morales di andarsene in tutta tranquillità a farsi le vacanze in Messico, ospitato dal presidente messicano Lopez Obrador.
Dopo aver preso il potere nell’ormai lontano 2005, Morales si era guardato bene dal portare a termine le richieste rivoluzionarie del movimento degli indigeni e dei minatori boliviani. Per questa ragione, invece che espropriare le multinazionali estere che fanno profitti sfruttando le immense risorse naturali della Bolivia, Morales ha in questi anni sviluppato un sistema misto di compartecipazione agli utili tra Stato e imprese private per l’estrazione delle risorse naturali; contemporaneamente ha avviato politiche di sfruttamento intensivo nel settore agro-industriale che hanno devastato la foresta amazzonica e relegato nella miseria, espropriandoli delle loro terre, milioni di indigeni. Attraverso la cooptazione al governo delle burocrazie sindacali indigene, Morales è riuscito, nei primi anni del suo governo, a tenere a bada la popolazione indigena, favorito anche dalla possibilità di redistribuire parte dei proventi derivanti dalla vendita delle materie prime, in una fase di ascesa dell’economia nazionale trainata dalla straripante crescita della Cina. Una situazione molto simile a quella occorsa in Venezuela durante la prima fase del governo Chavez con il boom dei prezzi del petrolio. Esperienze populiste dunque, cioè governi nazionali borghesi sorretti da una congiuntura, peraltro molto breve, di capitalismo ascendente e non il farsesco «socialismo» bolivariano anti-imperialista acclamato dagli stalinisti e dai riformisti di tutto il mondo.  Affinché siano i fatti a parlare e per citare uno solo dei tanti esempi cui si potrebbe ricorrere, tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, il governo Morales ha stretto affari con la multinazionale tedesca Gmbh per estrarre il litio, materia prima di cui è ricca la Bolivia e su cui la «green-economy» imperialista intende costruire le auto elettriche del futuro. Questa ulteriore aggressione alle risorse naturali ha scatenato le proteste degli indigeni, che da diversi mesi contestavano Morales, il Mas e i sindacalisti compiacenti. Attraverso le politiche filo-imperialiste, dunque, nei 14 anni in cui è stato alla guida del potere, il capo dei cocaleros Morales si è progressivamente alienato quella base (gli indigeni sono in Bolivia oltre il 60% della popolazione) di cui aveva correttamente rappresentato le istanze rivoluzionarie fino al giorno precedente alla presa del potere.  Dunque non rappresentava più, né per la borghesia bianca né per l’imperialismo, un interlocutore affidabile, in grado cioè di contenere, attraverso il suo controllo sul Mas e sui sindacati, l’ascesa rivoluzionaria degli indigeni. Per questo andava destituito e andava avviata, come poi si è verificato, un’operazione di massacro degli attivisti politici rivoluzionari boliviani.
In ultimo ma non per ultimo abbiamo infine assistito alla straordinaria mobilitazione della classe operaia colombiana. Rompendo i tentativi delle centrali sindacali concertative, che tentavano di diluire le proteste della classe operaia contro il paquetazo (il pacchetto di misure economiche comprendente tra l’altro una contro-riforma pensionistica, tagli alla spesa pubblica, defiscalizzazione delle imprese, precarizzazione del lavoro salariato) e posticipare lo sciopero al 2020, i lavoratori colombiani sono scesi in piazza il 21 novembre. Le manifestazioni hanno registrato la partecipazione di milioni di proletari in tutte le principali città colombiane, con una partecipazione della classe operaia che raramente si ricorda nella storia della Colombia. Per provare a sedare la rivolta, il governo Duque ha creato un clima di terrore attraverso i mezzi di comunicazione, annunciando «infiltrazioni terroristiche» e interferenze da parte dei governi latinoamericani nello sciopero, militarizzando Bogotá e facendo irruzioni in organizzazioni sindacali, sociali e culturali. Negli scontri un attivista è morto e diverse centinaia sono rimasti feriti. Ma la protesta è solo all’inizio. Gli assordanti cacerolazos (suoni di pentole) che la popolazione fa risuonare in tutte le principali città boliviane contro il governo indicano una fase di profonda agitazione rivoluzionaria che è solo agli inizi, e scioperi e manifestazioni di piazza continuano a susseguirsi in questi giorni. In prima linea, negli scioperi della classe operaia, vi sono i compagni del Pst, sezione colombiana della Lit-Quarta Internazionale.

Medio Oriente
Ma le ascese rivoluzionarie non hanno riguardato solo l’America Latina. In Medio Oriente, all’incirca negli stessi giorni in cui l’esercito turco inviato da Erdogan aggrediva i curdi-siriani, una imponente ondata rivoluzionaria ha scosso l’Iraq. Per oltre una settimana lavoratori, precari e disoccupati hanno stretto d’assedio i palazzi del governo a Bagdad. L’insurrezione è stata causata, anche in tal caso, dalle difficoltà in cui versano le masse popolari per effetto delle politiche economiche del governo borghese di Mahdi, nonostante l’Iraq sia uno dei principali produttori di petrolio al mondo. Il proletariato iracheno si batte contro carovita, povertà, disoccupazione di massa, misure di austerità e anche contro l’occupazione americana. Ma l’aspetto più importante, quando rapportiamo la situazione attuale con quella delle precedenti primavera arabe, è il salto di coscienza compiuto dal proletariato medio-orientale. Nelle parole d’ordine del movimento iracheno, ad esempio, compaiono parole d’ordine che contestano non solo il controllo dell’imperialismo americano sull’Iraq, ma anche slogan contro l’influenza del regime iraniano, collegato principalmente alla borghesia sciita presente nel Paese. I manifestanti si battono, finalmente, contro quel regime settario che sino ad oggi ha regolato la spartizione dei profitti tra borghesia sciita, sunnita e curda fomentando le divisioni religiose tra i proletari delle varie correnti. I proletari sunniti, così come quelli delle altre correnti, hanno cioè finalmente compreso che i loro avversari non sono i proletari sciiti o curdi ma l’insieme delle borghesie curde, sunnite e sciite. È un passaggio fondamentale.
Negli scontri, che hanno causato almeno 400 morti e decine di migliaia di feriti, le principali piazze e strade di Bagdad dove vi sono gli uffici governativi sono state invase e bloccate dai manifestanti, impedendo per diversi giorni il funzionamento del governo. I danni complessivi causati dalla sommossa sono stati quantificati in oltre 6 milioni di dollari.  In particolare, il 6 novembre vi è stato un assalto alla raffineria di petrolio a Nassiriya, che lavora ora con capacità produttiva dimezzata, causando difficoltà alla produzione nel Sud del Paese. Mahdi ha dapprima provato a prendere alcune misure per calmare le proteste, come il taglio del 5% degli stipendi degli alti funzionari pubblici per aiutare i disoccupati o l'aumento delle pensioni, ma di fronte al proseguire delle proteste è stato poi costretto a dimettersi.
Analoga ascesa rivoluzionaria si è verificata più o meno negli stessi giorni in Libano.  A differenza della rivoluzione del 2005, in cui le forze della borghesia riuscirono ad egemonizzare e a dividere la popolazione tra due coalizioni borghesi, nella rivoluzione iniziata nell’ottobre di quest’anno, al contrario, le masse si sono ribellate contro tutti i leader settari e ogni comunità religiosa contro i suoi leader. Questo aspetto, che è stato già notato per la rivoluzione irachena, assume una valenza straordinaria. La causa principale di tutte le sconfitte delle popolazioni arabe è da ricercarsi proprio nella divisione dei proletari nelle varie coalizioni dirette dalla borghesia. Sono esattamente quelle stesse divisioni ad aver causato le sconfitte dei curdi-siriani, le cui direzioni, invece che mirare all’unità con i proletari siriani che si ribellavano contro Assad e con i curdi degli altri Paesi (Iraq, Turchia, Iran), si sono schierate dalla parte del criminale presidente siriano.
In Libano le rivendicazioni dei milioni di lavoratori scesi in piazza riguardano, tra l’altro, proprio la fine del regime settario. A far scattare le proteste è stato l’aumento delle imposte su diversi beni e servizi, come i carburanti, il tabacco e le telefonate via internet. Queste misure costituiscono l’applicazione delle politiche di austerità imposte dal Fmi, richieste alla popolazione libanese per rientrare dall’enorme debito accumulato, pari al 150% del Pil.  Anche il Libano, come i citati Paesi dell’America Latina, spicca per il livello di diseguaglianza economica tra classi sociali, con l’1% più ricco della popolazione che detiene oltre il 25% della ricchezza nazionale e una disoccupazione di massa tra le più alte al mondo. Grandi manifestazioni di piazza e gli scontri con le forze armate, in particolare a Beirut, hanno costretto il premier Hariri dapprima a ritirare le misure economiche. Ciò non ha frenato però le mobilitazioni, che assumono contorni sempre più ampi, costringendo Hariri alle dimissioni. Diversi osservatori considerano la possibilità di una guerra civile tra il proletariato libanese e le truppe di Hezbollah, che puntano al ripristino del governo borghese di Hariri.

La vittoria di Marx
Come dimostra, in modo inequivocabile, la sequenza di ascese della lotta e rivoluzioni che ha attraversato l’anno che sta finendo, sono le condizioni materiali dei ceti subalterni a determinare l’avanzamento della coscienza di classe. È questa uno degli aspetti teorici fondamentali, purtroppo incompresi persino in larga parte della sinistra rivoluzionaria, del materialismo storico sviluppato da Marx ed Engels.
È dunque la grande crisi prodotta dal sistema capitalistico che ha generato e continuerà a generare le ascese rivoluzionarie in tutto il mondo. Una crisi capitalistica che è emersa prepotentemente nel 2008 con il crollo della produzione industriale mondiale ma da cui il sistema capitalistico non è realmente mai uscito né è in grado di uscire, come si deduce dall’analisi di tutta una serie di indicatori economici: dalla tendenza alla bassa crescita delle principali economie imperialiste mondiali, al dimezzamento nei tassi di crescita della Cina  (la cui crescita nei primi anni del 2000 aveva trainato l’ascesa capitalistica dell’America Latina attraverso l’esportazione di materie prime e petrolio), dalla guerra dei dazi commerciali avviata da Trump per tentare di contrastare l’ascesa sul mercato tecnologico mondiale della Cina, alle difficoltà del sistema produttivo della Germania, principale potenza imperialista europea. Né si può dire che i principali centri della finanza internazionale non abbiano provato in tutti i modi ad uscire, attraverso armi economiche non convenzionali, da questa tendenza ad una crescita asfittica. Ad esempio la Federal Reserve ha provato continuamente a tagliare i tassi di interesse e, analogamente, la Bce ha iniettato diverse migliaia di miliardi negli istituti di credito europeo a tasso zero per tentare di far ripartire i consumi. Nessuna di queste misure, tuttavia, può risolvere i problemi strutturali intrinseci del capitalismo nelle sue fasi di crisi mondiale, quelle di sovrapproduzione.
Il paradosso, come peraltro insegnava Marx nel Manifesto e nel Capitale, è che tutte le misure e le strategie che il capitalismo mette in campo per uscire dalla crisi non fanno altro che aggravarla, preparandone altre più devastanti. Se si guarda alle strategie sviluppate dai grandi centri del capitalismo finanziario internazionale, si deduce che tutte le politiche economiche utilizzate per combattere questa crescita asfittica producono un peggioramento progressivo delle condizioni di vita di masse sempre più numerose. Ad esempio, sia la fisiologica tendenza alla concentrazione dei capitali (necessaria alle imprese capitalistiche per non soccombere nella concorrenza con le imprese più forti sul mercato mondiale) che la massimizzazione della produttività attraverso l’iper-sfruttamento del lavoro salariato, assieme alle politiche di sfruttamento intensivo nel campo agricolo, concorrono sia all’espulsione dalle fabbriche e dalle campagne di un numero sempre più elevato di operai e di contadini che alla perdita del potere d’acquisto dei salariati. Sono queste politiche economiche, intrinseche alla struttura capitalistica, che hanno prodotto quei fenomeni di disoccupazione di massa che sono stati determinanti nell’innesco delle ascese rivoluzionarie sopra descritte.
E le stesse politiche estrattiviste, che hanno fatto le fortune dei governi populisti dell’America Latina, hanno prodotto un peggioramento nelle condizioni di vita di tutte le popolazioni indigene, conducendole a contestare pesantemente i loro governi, come accaduto in Bolivia. In ultimo, i piani di «aiuto» del Fmi agli Stati in difficoltà o il Mes in Europa, hanno rappresentato la trappola infernale attraverso cui il capitalismo finanziario mondiale ha dapprima fatto lievitare l’indebitamento degli Stati e poi li ha sottomessi, costringendoli ad applicare le misure di austerità (privatizzazione di sanità e istruzione, misure contro le pensioni, svendita delle imprese pubbliche alle multinazionali, tagli della spesa pubblica) per ripianare i debiti contratti col grande capitale. E laddove politiche di aiuto non si sono rese apparentemente necessarie, ci ha pensato l’impianto ultra-liberista dei governi borghesi a rapinare i lavoratori dei loro miseri salari (paradigmatico è in tal senso il caso cileno). È contro questo immondo sistema usuraio, che ha spremuto come un limone il proletariato e il ceto medio di tutti i Paesi, che sono ascese le masse popolari in tutto il mondo, dall’America Latina al Medio Oriente, dal Sudan alla Francia.

Lezioni dalle rivoluzioni
Le rivoluzioni mondiali cui stiamo assistendo offrono alcune lezioni fondamentali e fanno finalmente chiarezza su tutta una serie di questioni che hanno animato il dibattito nella sinistra mondiale negli ultimi anni.
La prima pseudo-teoria che crolla miseramente di fronte alla nuda verità dei fatti è quella delle "onde reazionarie". A tale teoria, sviluppata dalle organizzazioni riformiste, si sono accodate anche varie organizzazioni che pure si considerano rivoluzionarie (pensiamo ad esempio alla Ft). Ricorrere alla giustificazione della "arretratezza del proletariato" per mascherare l’incapacità di incidere sui processi della lotta di classe non è però solo un limite di analisi, perché in tal modo si finisce con l’avallare l’operato di quelle direzioni riformiste, dal Pt di Lula alla Rifondazione comunista in Italia (per citare due casi emblematici), che hanno utilizzato la teoria delle "onde reazionarie" per mascherare il loro opportunismo politico.
Tale teoria attribuisce l’ascesa di diversi governi e personaggi di estrema destra (da Salvini a Bolsonaro, da Trump a Orban e a Le Pen) al cosiddetto "arretramento nella coscienza del movimento operaio". Verrebbe quasi voglia di esclamare: ben vengano queste situazioni di arretramento se, nel giro di poche settimane, come in una reazione a catena, i proletari di Haiti, dell’Ecuador, del Cile, della Bolivia e della Colombia insorgono con tutte le loro forze contro i governi capitalisti. Ma, battute a parte, la natura di questi processi rivela una volta per tutte l’incapacità, persino di organizzazioni che si definiscono trotskiste, di utilizzare il metodo del materialismo storico nell’analisi dei fenomeni, certo complessi, della società moderna. Se è difatti abbastanza evidente che vi è stato uno spostamento elettorale di alcuni settori di proletariato verso organizzazioni e leader politici che hanno una natura apertamente reazionaria (la cosiddetta «onda reazionaria») è però la spiegazione, totalmente immateriale, che le organizzazioni riformiste forniscono a questo fenomeno, ad essere ovviamente fasulla. Prendersela con il proletariato per nascondere le gravissime colpe che tali organizzazioni hanno avuto nell’ascesa delle formazioni reazionarie è solo l’estremo tentativo di nascondere ai loro iscritti e alla loro base elettorale le ragioni opportunistiche che sono alla base del loro tradimento delle istanze, persino minime, della classe operaia. Sono gli interessi di poltrona, gli stipendi da parlamentare e i fondi pubblici ricevuti da queste organizzazioni la vera ragione per cui esse hanno sostenuto, ad esempio in Italia, le politiche di precarizzazione del mercato del lavoro, o hanno votato, nei governi borghesi di cui hanno fatto parte, l’invio delle truppe militari nelle guerre imperialiste sino a consentire leggi sull’immigrazione che hanno legittimato il reato di clandestinità. Per poi trasformarsi in forze apertamente liberali, accettando e sostenendo i piani di stabilità e di austerità imposti dall’Ue, come l’esperienza di Tsipras e de L’altra Europa dimostrano.
Al contrario delle pseudo-teorie riformiste, ciò che dimostra l’ascesa rivoluzionaria, in America Latina come in Medio Oriente, è che le tensioni a lungo accumulate nel ventre del proletariato mondiale, per effetto dell’aggravamento delle misure di rapina perpetrate dal sistema capitalistico, prima o poi esplodono, restituendo alla lotta di classe il suo ruolo centrale nel determinare il futuro destino dell’umanità. Esattamente come sintetizzava Marx: “Vent’anni contano un giorno, ma vi sono giorni che concentrano in sé vent’anni”. E, come aveva spiegato Marx, le rivoluzioni di questi giorni confermano, se ve ne fosse bisogno, che sono e saranno sempre le condizioni materiali a determinare la presa di coscienza degli strati subalterni e non il contrario.
E se, come evidente, queste ascese rivoluzionarie avvengono come risposta di larghi strati di massa alla crisi economica, allora esse ci indicano, in modo chiarissimo, che la questione non riguarda solo l’America Latina e il Medio Oriente. Se il livello di vita delle società europee è mediamente più elevato, tutte le politiche necessarie al grande capitale per contrastare la tendenza alla caduta nel saggio di profitto, che sono state applicate e saranno applicate sempre con maggiore efferatezza in Europa, produrranno prima o poi analoghe ascese rivoluzionarie anche in Italia e negli altri Paesi europei (come gli avvenimenti in Francia di queste ore confermano). Il problema dunque non è se questi fenomeni ci saranno, ma solo quando avverranno. E questa osservazione è importante anche per contrastare altre teorie immateriali, come quella del riflusso della classe operaia, costruite ad hoc da organizzazioni centriste minori per celare le evidenti tare organizzative e la loro totale incomprensione della dialettica classe-partito, uno degli elementi fondamentali del leninismo. Anzi è bene chiarire che il ritardo storico del proletariato italiano non ha alcuna ragione immateriale. Esso è causato, da un lato, dal tradimento delle istanze della classe operaia da parte delle organizzazioni riformiste, come la Rifondazione comunista. E, dall’altro, dal ruolo apertamente filo-padronale delle burocrazie sindacali dei sindacati confederali (e non solo), a cui si sono accodate persino le attuali finte opposizioni interne pseudo-rivoluzionarie.
Le ascese rivoluzionarie mondiali fanno anche piazza pulita di tutta una sfilza di soloni che, in questi anni, hanno fatto ricorso a nuove teorie sociologiche, come quella basata sulla resilienza, le quali sostengono che si sarebbe verificato un tale cambiamento della psicologia delle grandi masse da renderle disponibili ad adattarsi ai peggioramenti e alle aggressioni imposte dal grande capitale; e persino le stravaganze intellettuali che tanta presa hanno avuto sulla piccola e molle borghesia mondiale, come quella della rana bollita di Noam Chomsky, crollano miseramente di fronte alle immagini che mostrano inermi e giovani studenti cileni che si scontrano con i mezzi blindati dell’esercito cileno.  Il contenuto di classe di tutte le rivolte mondiali e la ricomparsa della classe operaia sul terreno della lotta di classe fa infine piazza pulita delle ridicole teorie post-operaiste di ex-rivoluzionari di professione.
Un’altra lezione importantissima che viene da questo straordinario autunno caldo è che quando le masse sono insoddisfatte non vi è alcuna burocrazia sindacale che possa tarparne le lotte. Lo sciopero del 21 novembre in Colombia (il più grande sciopero generale mai visto in quel Paese da almeno quarant’anni) ne costituisce la prova provata. Nonostante le centrali sindacali avessero abboccato al tentativo del governo Duque di rimandare la questione al 2020, gli operai sono scesi lo stesso in piazza in modo massiccio e determinato, sconfessando le loro direzioni.
È probabilmente dal 1968 che non si vedeva un’ascesa rivoluzionaria di questa portata in tanti Paesi. Tra le diverse organizzazioni mondiali, la Lit-Quarta Internazionale è stata l’unica in grado di prevedere, nel corso di questi anni, la fase di polarizzazione della lotta di classe, descrivendo correttamente la situazione pre-rivoluzionaria che attraversava l’America Latina e non solo. Senza abboccare al chavismo o al «socialismo» bolivariano, come altre organizzazioni che si definiscono trotskiste hanno fatto in questi anni.  Questa sua capacità di analisi, che oggi si è rivelata corretta, è legata al suo metodo di costruzione del partito rivoluzionario, che porta i suoi militanti a calarsi nel concreto delle lotte della classe operaia, senza scorciatoie e senza alcun accodamento nei confronti delle burocrazie sindacali, promuovendo il fronte di classe come strumento di lotta delle avanguardie sindacali e di movimento. E ad una organizzazione democraticamente centralizzata, senza la quale tutto il lavoro di elaborazione teorica e di formazione dei militanti sarebbe impossibile.
Ciò detto è però importante sottolineare che dalle ascese rivoluzionarie alla rivoluzione socialista mondiale il passaggio non è affatto scontato, come ci insegna la storia del movimento operaio. Affinché ciò accada è necessario che, a partire dai fuochi aperti nei vari Paesi in rivolta, si costruisca una direzione rivoluzionaria della classe operaia che ponga le questioni dell'auto-organizzazione e dell'auto-difesa della classe operaia e sia in grado di condurre il proletariato alla presa del potere. Un compito oggettivamente enorme in rapporto alla forza delle organizzazioni rivoluzionarie oggi in campo, ma non impossibile. In ogni caso, l'esistenza di sezioni locali della Lit-Quarta Internazionale nei Paesi dell'America Latina coinvolti dalle ascese di massa rappresenta un'occasione straordinaria per la costruzione del partito rivoluzionario mondiale.
Ma questo straordinario autunno caldo mondiale ci fornisce un'indicazione ancora più importante, valida soprattutto in quei Paesi, come l’Italia, dove il proletariato non è ancora insorto contro i governi borghesi: per non farsi trovare impreparati è esattamente questo il momento di lavorare alla costruzione del partito rivoluzionario. L'America Latina conferma che aveva ragione Trotsky quando spiegava che «le rivoluzioni appaiono impossibili fino a quando non diventano inevitabili». E, a dispetto di quel che dicono i riformisti o i gufi del riflusso, ciò che sta accadendo in America Latina avverrà anche in Europa, come lo sciopero della classe operaia francese di queste ultime ore ci annuncia. È l’ora della costruzione del partito rivoluzionario anche in Italia.
Viva la rivoluzione proletaria mondiale! Viva il comunismo!

lunedì 30 dicembre 2019

Per un 2020 da frusinate felice, dona l'oro alla città.

Luciano Granieri







Che anno sarà il 2020 per il popolo frusinate?  Spero sia proficuo per tutti in tutto il mondo e non solo per chi abita la nostra città.

 Non sono veggente né astrologo ma ad occhio il 2020 si preannuncia come un anno di ulteriori sacrifici per la gran parte dei cittadini del capoluogo ciociaro. Non è scritto nelle costellazioni o nei tarocchi ma nei bilanci.

 Per l’anno che verrà dovremo pagare un debito di oltre 3 milioni di euro: 2.270.000 come avanzo di bilancio derivante dal piano di riequilibrio economico e finanziario, a cui il comune di Frosinone ha aderito nel 2013 e 940.000 come rata  di una dilazione   a saldo di un  ulteriore debito   di 27.720.000. Ammanco determinato da  crediti non più esigibili venuto fuori nel  riaccertamento straordinario sui  crediti di dubbia esigibilità effettuato nella primavera del 2015. 

Ciò significa che le tasse dei Frusinati  dovranno superare di 2.270.000 euro l’importo delle spese che l’ente potrà impegnare per i servizi al cittadino, mentre per l’altro milione scarso si vedrà cos’altro   tagliare. Il guaio è che già ad oggi le aliquote tributarie sono al massimo e i servizi rasentano lo zero. 

Considerato che il museo archeologico è prossimo alla chiusura, gli asili nido sono in completa dismissione, come il servizio di mobilità scolastica e di assistenza agli anziani, dove si abbatterà la scure?  Venderemo la Villa Comunale. Quello era un lascito delle precedenti consiliature dal lustro nullo per l’attuale sindaco. Oppure si potrebbe mettere su  una campagna del tipo: “dona l’oro alla patria”, chiamandola “dona l’oro alla città”.

 Ma di chi è la colpa dei buffi?  Indubbiamente il comune di Frosinone, trovandosi in piano di riequilibrio economico e finanziario, paga più di altri le scellerate regole del patto di stabilità interna. Una normativa,    figlia del patto di stabilità e crescita, nipote  del fiscal compact ,  pronipote del trattato di Maastricht, che impone   ai singoli enti locali un deficit strutturale non inferiore allo 0,5% del Pil. Lo scopo non è  salvaguardare la casse comunali imponendo al sindaco un ruolo di semplice contabile, ma è quello di consentire alla finanza speculativa  privata di appropriarsi dei beni e dei servizi di proprietà del municipio e  quindi della collettività. 

Da questo punto di vista la giunte Ottaviani sono state, e sono, perfettamente in linea con l’obiettivo. La completa e costante svendita dei servizi ai privati ne sono chiara dimostrazione. Al di là dello strozzinaggio che i trattati dell’Unione Europea impongono perfino ai Comuni, una buona dose di colpa per lo svuotamento delle tasche dei frusinati, si deve all’attuale sindaco. 

I 28 milioni di crediti ormai non più  esigibili e quindi accertati  a tutti gli effetti come debito, per cui dovremo pagare una balzello di 940 mila euro all’anno sono tutti frutto dell’amministrazione Ottaviani. Questi  sarebbero, secondo alcune  analisi contabili non ufficiali  , ma a quanto pare ben documentate,  incassi virtuali    inseriti nel fondo crediti di dubbia esigibilità ben sapendo che la loro riscossione sarebbe stata impossibile. 

Incassi inesigibili   ma,  secondo  la già citata fonte non ufficiale,  utili a  dimostrare il rispetto  del  piano di riequilibrio economico  e finanziario, e   alla pomposa organizzazione  di   sbicchierate, champagnate, parchi di plastica (tipo il Matusa) e luminarie varie, senza copertura, o meglio trasferendo l’onere sui cittadini accollando a loro un’ulteriore mazzata di 940mila euro l’anno. 

Essendo in  piano di riequilibrio economico e finanziario l’attività contabile del Comune di Frosinone dovrebbe essere monitorata costantemente dalla Corte dei Conti, la quale avrebbe  dovuto  rilevare e sanzionare rilevanti discostamenti dal piano  di rientro pianificato  con l’ente. In effetti l’accertamento di 28milioni di crediti non esigibili avrebbe dovuto e potuto allertare i giudici in quanto un massa contabile   così ingente , trasformatasi da  attiva a  passiva, non sarebbe stata   in linea con la pianficazione concordata. 

Ma chissà forse i“ Conti della Corte” non saranno neutri e avranno  una precisa coscienza liberista.  Infatti il minimo sforamento del patto di stabilità interno per fini sociali viene sanzionato, mentre  piani di temeraria finanza creativa, lesive dalla tenuta finanziaria  delle casse comunali    vengono tollerati, basta che non tocchino gli interessi delle lobby fondiarie e speculative. 

Per amor di verità, neanche i consiglieri d’opposizione all’attuale e alla precedente giunta sono esenti da colpe. La loro azione è stata debole, quanto inesistente su questi temi lasciando indisturbato il sindaco Ottaviani nella sua azione di devastazione di servizi e beni  pubblici. Neanche durante la campagna elettorale che ha portato al secondo mandato l’attuale primo cittadino la questione dei bilanci è stata posta con decisione dalle forze che lo contrastavano.  

Comunque  queste considerazioni , ad  oggi, lasciano il tempo che trovano e  mi portano a soprassedere su ciò che sarà per Frosinone il  2020. Preferisco  concentrarmi maggiormente su auguri e auspici. 

Auguro alla comunità frusinate che si riesca ad individuare un gruppo di cittadini in grado di proporsi  alla guida del comune per le prossime elezioni, lavorando, da oggi  fino al 2022, per  trovare un candidato sindaco mosso dall’unico scopo di assicurare il bene di tutti gli abitanti della città.  Una persona che possa avere il coraggio di violare il patto di stabilità interna  per il bene collettivo (sindaci di altri comuni lo hanno fatto) e che sia in grado finalmente di invertire  la rotta fin’ora intrapresa da tutte le consiliature succedutesi fino ad oggi. Ossia privilegiare gli interessi ed il bene della comunità a quella degli affari dei vecchi, inossidabili soliti noti.

 Felice anno nuovo a tutti.

P.S. Le analisi contabili non ufficiali si riferiscono ai contenuti di un esposto redatto  da un dirigente che volle rimanere anonimo nel 2015, inviato all'epoca a: Ministro degli interni, Prefetto della Provincia di Frosinone, Corte dei Conti sezione controllo, Corte dei Conti sezione Giurisdizione, Procura Regionale presso la Corte dei Conti, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Frosinone, ai consiglieri comunali, al segretario comunale, al collegio dei revisori.



domenica 29 dicembre 2019

La disputa sul MES e le sue cause reali

Teoria & Prassi Piattaforma Comunista



Nell’ultimo mese le acque della politica borghese sono state agitate dalla polemica sulla riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).

Il MES è un meccanismo finanziario di difesa dell’eurozona nella lotta inter-imperialista, istituito per rispondere agli shock innescati dalla crisi del debito.
Ha una struttura basata su un Consiglio di governatori (formato dai ministri delle finanze degli Stati membri) e su un Consiglio di amministrazione (nominato dagli stessi governatori) che ha il potere di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti, come condizione per prestare assistenza finanziaria.

Il fondo-organizzazione fu approvato dal Parlamento italiano nel luglio 2012 con un’ampia maggioranza bipartisan. Perché oggi tante polemiche sulla sua riforma? Si tratta solo di una “tempesta in una tazza di tè” (Gualtieri)?

Per dare una risposta non bisogna dare alcun credito ai media borghesi che coprono le reali intenzioni dell’oligarchia finanziaria, e tanto meno alle macchiette del nostrano populismo che sono solo un elemento coreografico della reale vicenda.

Il capitalismo esce da una crisi per prepararne un’altra
Il capitalismo è un modo di produzione moribondo che passa di crisi in crisi. L’ultima crisi ciclica di sovrapproduzione di capitale, si aprì a metà del 2017 e scoppiò nel settembre 2008 stremando l’economia mondiale e provocando fallimenti a catena, distruzione di forze produttive e un elevato indebitamento degli Stati imperialisti e capitalisti per salvare i monopoli finanziari.

Quella crisi ha condotto dapprima a una profonda recessione, poi a una ripresa debole, incostante e disuguale, che in diversi paesi, fra cui il nostro, non si è trasformata in un nuovo auge della produzione, bensì in una lunga stagnazione, caratterizzata da elevati livelli di disoccupazione, riduzione dei salari, impoverimento dei lavoratori e delle masse popolari.

Ora, a distanza di undici anni dallo scoppio dell’ultima crisi - le cui conseguenza sono state solo parzialmente riassorbite e le cui “soluzioni” imposte dalla borghesia imperialista hanno determinato nuovi problemi (ad es. le iniezioni di liquidità, i QE e la concessione di crediti a tassi negativi hanno alimentato i processi speculativi) – le contraddizioni insolubili del sistema capitalista hanno determinato l’apertura di una nuova fase del ciclo economico.
L’economia capitalistica è passata da una modesta ascesa a un periodo di rallentamento che prelude a una nuova crisi.

I segnali sono chiari. La macchina economica di tutte le maggiori potenze imperialiste,  come USA, Cina, Germania, Giappone, sta evidentemente frenando.
Non vi sono dati che indicano una ripresa economica. Al contrario, si moltiplicano gli indicatori di una ennesima tempesta, che avrà conseguenze persino peggiori di quella scoppiata nel 2008, a causa di molteplici fattori che si sono accumulati nell’ultimo decennio.

L’Eurozona come possibile epicentro
Dove si scatenerà la prossima crisi? Diversi elementi, fra loro combinati, ci dicono che l’epicentro del prossimo terremoto economico-finanziario globale potrebbe essere nell’Eurozona, dove la produzione industriale sta decelerando, dove il commercio risente delle dispute interimperialiste, dove i mercati interni non possono espandersi a causa della diminuzione del potere di acquisto delle masse, i livelli di debito pubblico e deficit sono elevati, e molte grandi banche private e pubbliche (fra cui Deutsche Bank, Commerzbank, Unicredit, Banca Popolare di Bari, etc.) sono zeppe di derivati finanziari “tossici”.

Mentre si riduce la quota dell’Eurozona nella divisione del mercato mondiale tra i centri imperialisti e i loro monopoli, appare anche chiaro che Germania, Francia, Italia, Spagna hanno seri problemi economici e politici, mentre il Regno Unito è alle prese con le imprevedibili conseguenze della Brexit.

Il quadro è quello di un capitalismo imputridito, corroso dall’interno e con una nuova bolla finanziaria in formazione.

Alla luce di ciò, si possono comprendere meglio i reali motivi che sono dietro le polemiche sulla riforma del MES.

Una riforma che va nel senso di rendere questo strumento funzionale agli interessi degli Stati imperialisti più forti (Germania e Francia) in vista della prossima crisi.
Le condizioni per accedere ai prestiti non farebbero che inasprirsi per i paesi che non rispettano la disciplina di bilancio e hanno seri squilibri macroeconomici, come l’Italia, una media potenza imperialista in declino, che perde pezzi importanti della sua struttura economico-finanziaria.

Con la riforma del MES i membri più forti dell’Eurozona sarebbero inoltre in grado di esercitare una forma di pressione politica ed economica sui paesi più deboli, suscitando ad arte allarmi circa un aumento dei tassi d’interesse dei titoli di Stato, favorendo così la speculazione finanziaria.

E’ chiaro che una ristrutturazione dell’enorme debito pubblico italiano (135% del PIL) per poter accedere ai programmi di “assistenza” non potrà che tradursi in “pacchetti di aggiustamenti” lacrime e sangue, comprendenti nuovi attacchi a salari e pensioni, la liquidazione dei servizi sociali, la rapina dei piccoli risparmiatori, l’aumento della disoccupazione e il drastico impoverimento delle masse popolari.

Riprendere fiducia nelle nostra forza, unirsi e organizzarsi!
Ma quale “solidarietà fra paesi dell’Eurozona”! Dietro la polemica sul MES c’è una lotta a coltello fra paesi imperialisti, e fra le loro cordate politiche, per riversare la crisi sui loro concorrenti, e soprattutto sulle spalle della classe operaia e dei popoli.

L’UE non potrà mai essere organo stabile di pianificazione economica che rimpiazzi l’anarchia capitalista; è piuttosto un campo di battaglia in cui gli Stati e i gruppi del grande capitale manovrano le loro forze l’uno contro gli altri.

Gli operai e gli altri lavoratori sfruttati, invece di schierarsi con uno o con l’altro dei politicanti borghesi e piccolo borghesi che vogliono salvare a tutti i costi un sistema marcio, invece di fidarsi della UE dei monopoli e dei suoi meccanismi di rapina, invece di cadere nell’inganno dell’“Europa dei popoli” o nella demagogia del “prima gli Italiani” (leggi: “prima i capitalisti italiani”), devono riprendere fiducia nella propria forza, unirsi e organizzarsi per difendere in modo intransigente i propri interessi, per far ricadere sulla testa dei capitalisti, dei ricchi e dei parassiti il peso della crisi, del debito e delle tasse, per affrontare i responsabili e beneficiari delle crisi e rovesciare il sistema che inevitabilmente le genera.

Per un futuro degno di questo nome ci vuole un movimento rivoluzionario di massa contro il vecchio mondo, il capitalismo, per la conquista del nuovo mondo, il socialismo, prima tappa della società comunista. Altro che le “sardine” liberaldemocratiche e gli inviti al governo Conte a non votare la riforma del MES, come pretendono taluni pseudo marxisti.

Compito dei comunisti è organizzare e dirigere questo movimento rivoluzionario. Perciò è necessario e urgente il completo distacco dall’opportunismo e l’unità organica dei comunisti e degli elementi di avanguardia della classe operaia, per avanzare nel processo di formazione di un autentico Partito indipendente e militante del proletariato, unica garanzia di vittoria.

mercoledì 25 dicembre 2019

Un 2020 con l'elmetto per difendere ancora una volta la Costituzione

Luciano Granieri




Buone feste compagni! Ritempratevi! Perché nel 2020 dovremo ancora una volta indossare l’elmetto per difendere dall’ennesimo attacco la Costituzione Italiana. Non se ne può più. C’avete fatto caso? Più degrada la cultura istituzionale del ceto politico, più si moltiplicano gli assalti alla Carta, alcuni ahimè andati in porto, guarda caso, quelli non sottoposti a referendum. La modifica dell’art.81, sull’obbligo del pareggio di bilancio, è il più eclatante ed il più contradditorio dei casi  perché contrasta fortemente con lo spirito degli art.2 ,  3 e con tutto l’impianto solidaristico del documento frutto della lotta partigiana. 

La sorte delle modifiche sottoposte a referendum, fortunatamente, sono miseramente fallite mostrando un attaccamento alla Costituzione del popolo italiano fino ad oggi inossidabile. Ma sarà così per la stagione referendaria che ci attende nel 2020? Si tratta di contrastare un piano devastante fondato sulla riduzione del numero dei parlamentari combinato ad  una preoccupante  tensione verso  una legge elettorale iper maggioritaria. 

Per soddisfare la   truce  faccia ignorante di un populismo imperante si spaccia la riduzione del numero dei parlamentari come un provvedimento sacrosanto, anti casta, atto a ridurre una congrega di iper privilegiati risparmiando 500 milioni di euro. Niente di più falso! Un tale misfatto, a fronte di un irrilevante risparmio, aumenterebbe la ricattabilità degli aspiranti  membri della  Casta, i quali, di fronte alla diminuzione delle poltrone, sarebbero ancora più disposti a consegnarsi, mani e piedi, alla tirannia del loro capo bastone, aumentando in modo esponenziale il potere delle segreterie di comitati elettorali colonizzatori imperialisti dei  vecchi partiti, così come intesi nella Costituzione.  

Senza contare che un Parlamento con un numero inferiore di membri sarebbe molti più soggetto alla compra-vendita della vacche atte ad assicurare una maggioranza eventualmente traballante . Gli Scilipoti, i Razzi, i Maruccio da comprare sarebbero molti di meno e molto più accondiscendenti, per cui il costo di una campagna acquisti sarebbe infinitamente inferiore.

 Si vuole ridurre la spesa per la democrazia? Non è possibile. Si vogliono ridurre i privilegi  della casta? E’ possibile. Facendo un rapido calcolo, e senza considerare le eventuali indennità di funzione, i componenti del Senato guadagnano ogni mese 14.634,89 euro contro i 13.971,35 euro percepiti dai deputati. Basterebbe dimezzare questi guadagni per ottenere un risparmio anno di quasi 800 milioni. Ben 300milioni in più rispetto a quanto la riduzione del numero di Parlamentari assicurerebbe. Se a questo aggiungiamo la definizione di un numero minimo di presenze degli eletti in Parlamento, al di sotto del quale la remunerazione andrebbe ridotta ulteriormente, in modo da evitare che vi siano Deputati e Senatori assenteisti , il risparmio sarebbe ancora maggiore, evitando l’ulteriore spreco di un referendum costituzionale in quanto queste sarebbero riforme da legislatura ordinaria.

 E’ chiaro quindi che la riduzione del numero dei parlamentari non ha nulla a che fare con una diminuzione dei costi, ma riguarda, da un lato una diminuzione delle prerogative democratiche del Parlamento, dall’altro la schiavitù totale dei candidati ai capi partito, in ogni caso un’ulteriore scippo di democrazia al tanto  sbandierato popolo sovrano, che non sarà sovrano di nulla, obbligato a scegliere fra gli scagnozzi più fedeli ai capi bastone, la cui pelosa accondiscendenza sarà sicura dimostrazione di inettitudine e incapacità istituzionale. 

La lotta per difendere il  mostro che sta per attentare alla Costituzione sarà dura, molto più dura di prima , perché li avremo tutti contro: Il Pd che, nonostante una posizione contraria, nei passaggi istituzionali precedenti,  oggi ,per mera opportunità di Casta, ha cambiato parere, alla faccia della coerenza. LeU e i bersaniani variamente declinati, tanto paladini contro la riforma renziana, quanto tappetini in quella attuale.  Il M5S, impegnato a soddisfare la feroce voglia giustizialista e di vendetta anticasta della propria stoltissima base, dimenticando che essi stessi fanno parte della Casta e che la riforma di Renzi,  accusata di essere l’esecuzione del programma della P2 e dei potentati finanziari, andava nella stessa direzione. Avremo contro, ovviamente le varie declinazione della destra, dalla versione più truce salviniana e meloniana, a quella berlusconiana meno leonina ma altrettanto pericolosa.  

Avremo contro i “giornaloni” (Repubblica, Corriere della Sera etc-etc) ma anche i “giornalini”, non a caso Marco Travaglio si è già schierato a favore della riforma dopo che con la solita saccenteria e spocchia, tirandoci su anche qualche soldo con piece teatrali maschilite, ci aveva convinto che la precedente riforma renziana, la quale  ripeto, andava nella  stessa direzione di questa, era un attentato alla democrazia.  

Chissà forse potremo sperare nelle Sardine che nelle loro manifestazioni di piazza non hanno fatto altro che sbandierare articoli della Cosrtituzione conditi con “Belle Ciao”. Non ci spererei troppo però. Personalmente mi impegnerò al massimo per scongiurare questo ennesimo attacco alla Carta. Lo ritengo un irrinunciabile atto di ubbidienza civile ed istituzionale. Sono convinto che l’impegno del Comitato per la Democrazia Costituzionale sarà come al solito espresso  al massimo delle proprie possibilità e spero che anche questa volta si potrà salvare l’integrità democratica e sociale della Costituzione. Comunque compagni preparate l'elmetto!

lunedì 23 dicembre 2019

Piena solidarietà alle lotte dei lavoratori, pensionati e giovani francesi, fortemente mobilitati contro le modifiche peggiorative proposte dal governo francese in tema di pensioni.



Le organizzazioni  Conup Nazionale, Pensionati  Cobas, Usi, Cosdip, CIL Pensionati, le riviste Le Lotte dei Pensionati e Ancora In Marcia, ACU, Pubblico impiego in movimento, Adl Varese, Stas Trasporti Lombardia, Cub Sur,  nell’esprimere  piena solidarietà alle lotte che stanno scuotendo la Francia, condannano la repressione del governo francese e auspicano un'immediata soluzione della vertenza, col ritiro dei pesanti provvedimenti governativi.

Già negli anni passati vaste mobilitazioni contro i tentativi di  modifica all’orario di lavoro e contro l’attacco al diritto di sciopero hanno scosso la Francia.  Questa lotta contro le modifiche alle pensioni, che segue le recenti massicce battaglie dei Gilet gialli, costituisce un grande appoggio ed incoraggiamento di mobilitazione per tutti i lavoratori europei e nei fatti spezza la censura e le falsità che i media italiani adottano rispetto alla brutale repressione francese, soffermandosi invece sui cosiddetti black block.

I governanti europei sono tutti al servizio della finanza. Per questo la lotta dei lavoratori francesi è anche la nostra lotta, perché siamo tutti uniti nel combattere le politiche neoliberiste  del capitale finanziario, che  in tutti i paesi europei sta distruggendo i “beni comuni” e la pensione pubblica,  imponendo l’innalzamento dell’età pensionabile e il taglio delle pensioni, al fine di favorire le pensioni private.

Gli scioperi partiti il 5 dicembre scorso stanno ottenendo un grande successo di mobilitazione, che vede coinvolti  i giovani,  i pensionati, i lavoratori della scuola e quelli della sanità e dell’assistenza sociale; in particolare i ferrovieri e i macchinisti si stanno mostrando molto combattivi e decisi ad andare fino in fondo.

Invitiamo tutte le rappresentanze dei lavoratori a considerare quello che sta succedendo in Francia e ad agire di conseguenza.

In solidarietà con la lotta dei francesi e per programmare le iniziative italiane, le nostre organizzazioni proprio il 5 dicembre hanno tenuto un importante convegno nazionale a Roma e presto organizzeremo nel nostro Paese un incontro per sentire dal vivo l’andamento della lotta.
                                                                                                                              
Le organizzazioni:
Conup Nazionale, Pensionati Cobas, Usi, Cosdip, CIL Pensionati, Le riviste Le Lotte dei Pensionati e Ancora In Marcia, ACU, Pubblico impiego in movimento, Adl Varese, Stas Trasporti Lombardia, Cub Sur

sabato 21 dicembre 2019

Comitato referendario per sostenere le ragioni del no al taglio dei parlamentari

Coordinamento per la democrazia costituzionale



Il referendum sul taglio dei parlamentari si fara'. Al Senato e' stato raggiunto il numero di firme necessario per promuovere il referendum. Il taglio dei parlamentari e' questione decisiva ed importante che riguarda i limiti e le forme attraverso le quali si esprime la sovranità popolare ed e' giusto che su di essa si pronuncino le elettrici e gli elettori, qualunque sia l’esito  delle urne.

Il Coordinamento costituira' un suo Comitato referendario per sostenere le ragioni del No. Infatti non si puo' accettare che il numero dei parlamentari venga affrontato in termini demagogici e come un taglio di poltrone al solo scopo dichiarato di risparmiare sui costi.

Siamo contro questa versione demagogica e populista, in particolare contestiamo l'unica vera motivazione portata sulle minori spese, per sottolineare al contrario che una riforma ha senso se riafferma la centralita' del parlamento, un asse portante della nostra democrazia delineata dalla Costituzione.

La centralita' del parlamento va affermata anche con l'approvazione di una legge elettorale proporzionale che riconsegni ai cittadini il diritto di scegliere direttamente i parlamentari che li devono rappresentare.

E' evidente il tentativo di scaricare la crisi di credibilita' di tanta parte delle istituzioni e dei partiti sul solo parlamento, che va sicuramente rinnovato nella qualita' e nel funzionamento, rimettendolo al centro del sistema istituzionale anche per arginare le tentazioni presidenzialiste della destra.

Condurremo la nostra campagna per il No all'insegna del rilancio del ruolo del parlamento, della sua centralita', senza timore di contrastare una vulgata falsa e sbagliata che ha dominato in questi anni.

 


martedì 17 dicembre 2019

Le sardine e lo sciopero generale (che non c’è)

Fabiana Stefanoni


Il fatto che, nelle ultime settimane, le piazze di tutte le principali città italiane si stiano riempiendo di migliaia di manifestanti al richiamo delle "sardine" (enorme la manifestazione del 14 dicembre a Roma: Piazza San Giovanni non si riempiva così da molti anni) ha aperto un dibattito anche a sinistra. Tanti attivisti hanno storto il naso di fronte a questo movimento: si sono interrogati sull’opportunità o meno di parteciparvi, considerandolo eterodiretto dal Partito democratico. Ma è un dato di fatto che decine, forse centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, stanno scendendo in piazza per una causa giusta, cioè contro il populismo xenofobo e reazionario (ben rappresentato da Matteo Salvini, principale obiettivo polemico di quelle piazze) e non se ne torneranno certo a casa su ordine del Pd. Per capire come porsi di fronte a questo nuovo fenomeno, è necessario partire dal contesto in cui si sta sviluppando e da un’analisi della sua composizione.

Il quadro internazionale
Sarebbe sbagliato analizzare il movimento delle sardine limitandosi al contesto politico italiano, come fanno quasi tutti i giornalisti (che tanto spazio stanno dando a questo movimento nelle trasmissioni televisive e sulla stampa). Altrettanto sbagliato sarebbe vederlo come una riproposizione del M5S delle origini: le sardine nuotano in un mare totalmente diverso, perché, nel frattempo, il mondo è cambiato, ed è in rivolta. Le televisioni di tutto il mondo sono costrette a diffondere le immagini di piazze strapiene: da ultimo, in Francia un milione e mezzo di scioperanti, insieme con migliaia di studenti, hanno invaso le città di tutto il Paese (e lo sciopero è ancora in corso in molti settori). La rassegna dei Paesi dove si stanno sviluppando movimenti di massa è molto lunga (e si allunga di giorno in giorno): Cile, Uruguay, Honduras, Panama, Haiti, Hong Kong, Libano, Iraq, Iran, Catalogna, Francia. Mentre starete leggendo questo articolo, probabilmente, l’elenco sarà già datato.
Il fatto che stia avvenendo questa ondata rivoluzionaria – in barba ai pessimisti (spesso opportunisti) teorici dell’«ondata reazionaria» – ha una ragione materiale. Il capitalismo, come solo l’analisi marxista aveva correttamente previsto, non accenna a uscire dalla crisi iniziata nel 2007. Per preservare i profitti miliardari dei grandi industriali e dei banchieri e riempire le loro tasche di denari pubblici, in tutto il mondo i governi borghesi hanno applicato politiche di austerity che hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita delle masse povere, le quali, di conseguenza, protestano.
I primi a ribellarsi sono stati, non a caso, i proletari dei Paesi coloniali o semi-coloniali, dall’Asia all’Africa all’America Latina. In queste regioni il Fmi (Fondo monetario internazionale) ha imposto misure draconiane a popoli già stremati: è bastata una scintilla a far scoppiare gli incendi che oggi attraversano, ad esempio, l’America centrale e meridionale (Cile in testa). In Europa le cose non vanno molto diversamente: se alcuni Paesi imperialisti – come la Germania e la Francia – potevano vantare economie più solide, gli ultimi dati degli economisti dimostrano che persino loro sono a rischio recessione (come l’Italia). I capitalisti europei, per mano della Troika (Fmi, Banca centrale europea, Commissione Europea), non faranno passi indietro: succhieranno tutto il sangue che potranno dalle membra già martoriate di milioni di poveri.
E’ un dato di fatto: le nuove generazioni, anche in Europa, sono destinate o alla disoccupazione, oppure a lavori precari e sottopagati. Per questo è molto probabile che l’ondata di lotte non si arresterà alla Francia e coinvolgerà altri Paesi europei: se il popolo ha fame e, soprattutto, ha ben poco da perdere, da che mondo è mondo si ribella.

E l’Italia?
L’Italia non è un’isola. Soprattutto, non è un’isola felice. Le condizioni del proletariato sono persino peggiori di quelle di altri Paesi europei: il debito pubblico è il più alto dopo la Grecia, la disoccupazione raggiunge (soprattutto al Sud) percentuali da brivido, la produzione dal 2007 è calata del 22%, il potere d’acquisto dei salari è ai minimi storici. Il malcontento della classe lavoratrice cresce, ma non ha trovato, per ora, uno sbocco nella lotta. E anche questo non è casuale: ha una ragione materiale.
In Italia le direzioni politiche e sindacali egemoni nel movimento operaio hanno agito da freno. Sono anni che le principali burocrazie sindacali (Cgil, Cisl e Uil) non chiamano allo sciopero generale (l’ultimo è stato proclamato dalla sola Cgil nel 2014, contro il Jobs Act). E’ emblematico il caso dei rinnovi contrattuali dei principali settori operai (metalmeccanici in primis), che stanno avvenendo ormai senza nemmeno un giorno di sciopero (negli anni Settanta quando si apriva la stagione dei rinnovi contrattuali la terra sotto i piedi dei padroni tremava!). Altrettanto emblematico è che uno dei principali difensori della Finanziaria del Conte-bis sia l’ex metalmeccanico Landini, ora alla testa della più grande Confederazione sindacale (si veda l’intervista rilasciata a Repubblica il 9/12/2019, dove il leader della Cgil propone «una nuova alleanza a governo e imprese» per uscire insieme dalla crisi!). Fa parte di questa politica concertativa il fatto che, in questi giorni, mentre all’Ilva risuona il ticchettio di una bomba ad orologeria (4700 esuberi nel migliore dei casi) e mentre sono a rischio altre decine di migliaia di posti di lavoro (dalla Whirlpool ad Alitalia, da Auchan a Unicredit alla Banca popolare di Bari), le tre principali confederazioni sindacali si limitano a organizzare qualche innocuo sit-in a Roma…
Al contempo, al di fuori di questi grandi apparati, il quadro non è roseo. Le direzioni dei sindacati alternativi e autonomi hanno fatto – e continuano a fare – scelte deleterie per la lotta di classe, ostinandosi a non mettere in atto azioni di sciopero e mobilitazioni unitarie. Mentre celebrano lo sciopero generale in Francia, nella prassi operano in direzione esattamente opposta: lo sciopero generale in Francia ha visto partecipare contemporaneamente sia i sindacati alternativi (come Solidaires) sia quelli tradizionali e burocratici (come la Cgt); i principali dirigenti dei nostri sindacati di base si rifiutano persino di organizzare uno sciopero unitario tra di loro e spezzettano gli scioperi e le lotte ogni volta che è possibile.
Sappiamo, per esperienza, che se i lavoratori si mobilitano, se scendono in sciopero numerosi e uniti, la loro coscienza cambia rapidamente: hanno fiducia in sé stessi, nella loro capacità di strappare risultati con la lotta e questo non può che rafforzare la loro combattività e ostacolare l’opera di pompieraggio delle burocrazie e delle direzioni traditrici.
Se per ora, invece, la classe operaia in Italia è sfiduciata, se non crede nella sua straordinaria forza (quella che prende forma nella lotta), se vota Salvini o la Meloni «per protesta» (secondo il Censis il 62% degli operai spera in un uomo forte al potere), la colpa non è sua. La colpa è di chi, affermando di difendere gli interessi degli operai, li ha, ieri come oggi, sistematicamente traditi, firmando accordi vantaggiosi solo per i padroni (le burocrazie sindacali) o sostenendo governi al soldo di Confindustria (i partiti della sinistra politica: Rifondazione comunista ieri, Sinistra italiana oggi). La colpa è di chi, di fronte a licenziamenti di massa e restrizione dei diritti nei luoghi di lavoro, fa di tutto per evitare azioni di sciopero ampie e incisive. Come nella vita capita che, in seguito a traumi dolorosi, alcune persone perdano il senso della realtà e si abbandonino al delirio, qualcosa di simile può accadere nelle dinamiche collettive. Il voto degli operai alla Lega o a Fratelli d’Italia – partiti che non mancano di richiamarsi, all’occorrenza, persino all’esperienza del fascismo, cioè al peggior nemico del movimento operaio – ha, in effetti, qualcosa di delirante. Ma chi ha scritto il copione di questo dramma non sono gli operai, bensì le burocrazie. Gli interrogativi di Landini, che sui quotidiani cerca di spiegarsi perché gli operai ripongono fiducia nell’«uomo forte», ricordano un po’ le rimostranze di un marito che si chiede perché la moglie lo ha lasciato dopo che lui l’ha tradita e maltrattata per anni. Parafrasando il canto delle femministe cilene che sta attraversando le strade di tutto il mondo, il responsabile di questa situazione sei tu, caro Landini!

Sardine et similia
Ma cosa c’entrano le sardine con il problema degli scioperi? Un collegamento c’è. Se le direzioni del movimento operaio sono troppo impegnate a sostenere il governo (Cgil, Cisl e Uil) o a farsi la guerra tra di loro (sindacati autonomi), è ben difficile che per merito della loro azione le piazze si riempiano di operai e di lavoratori, coi loro simboli e le loro bandiere (come invece succede in questi giorni in Francia). Eppure, le contraddizioni di questo sistema economico in putrefazione non possono essere sedate, se è corretta l’analisi che facevamo poco fa. Ecco allora che la mobilitazione delle masse sta trovando, in Italia, canali di espressione che non sono, prioritariamente, quelli tradizionali del movimento operaio. Si mobilitano gli studenti (futuri disoccupati) del Friday For Future (pensiamo alle oceaniche manifestazioni del 27 settembre scorso); si mobilitano in massa le donne contro il maschilismo (ricordiamo la grande manifestazione del 23 novembre a Roma); scendono in piazza decine di migliaia di persone al richiamo delle Sardine, spaventate dalla possibilità che il futuro riservi loro un governo reazionario e xenofobo di estrema destra.
Che il movimento delle Sardine sia contraddittorio è un dato di fatto: il Pd (cioè un partito borghese che è pure al governo) lo sostiene, direttamente e indirettamente, ai fini della campagna elettorale per le regionali; le trasmissioni televisive offrono enormi spazi a un leader casuale come Mattia Sartori (che non spaventa certo banchieri e industriali); i promotori vietano i simboli e le bandiere di partito, però poi partecipano alle assise del Pd e stringono la mano a Bonaccini; si dissociano con sdegno dalle bandiere rosse e dalle azioni dei centri sociali, ma si compiacciono dei complimenti di Mario Monti e di Romano Prodi…
Riconoscere questi aspetti non cancella però un fatto indubitabile: in quelle piazze ci sono tanti, tantissimi giovani (e non più giovani) che sono stanchi di subire passivamente la propaganda sciovinista e xenofoba; e una parte di loro non ha nessuna intenzione di votare Pd. In generale – e questo vale anche per il movimento delle donne e degli studenti – se questi movimenti, di per sé interclassisti, non si uniranno al movimento operaio, i partiti borghesi avranno gioco facile nel tentare di strumentalizzarli e sottometterli ai loro interessi. Solo se la classe operaia scenderà in campo e saprà assumere, nel suo programma, anche le rivendicazioni delle donne contro il maschilismo, quelle delle sardine contro il populismo e la xenofobia, quelle dei giovani studenti a difesa dell’ambiente, potranno crearsi le premesse per una mobilitazione più avanzata.
Ecco allora dove sta il collegamento tra gli scioperi e le sardine: dobbiamo costruire una diversa direzione del movimento operaio, in grado di rilanciare un’ampia e incisiva azione nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, per poter costruire movimenti più radicali di quelli che ora effettivamente esistono. Fare le anime belle, rifiutarsi di partecipare a queste mobilitazioni «perché sono interclassiste» o perché sono «strumentalizzate dal Pd» non serve a nulla. Probabilmente quelli che storcono il naso di fronte a questi movimenti – o che li liquidano come risultato di un complotto del Pd e della borghesia - sono gli stessi che non stanno facendo nulla per superare la passività e la frammentazione delle attuali direzioni del movimento operaio. Noi, invece, sappiamo dove stare: siamo e saremo in piazza con le sardine, con le donne, con gli studenti del Friday For Future, per spiegare perché l’alternativa non sono né Bonaccini, né Greta Thunberg, né il femminismo piccolo-borghese dei salotti televisivi. Contemporaneamente siamo e saremo nei sindacati e nei luoghi di lavoro a dare battaglia alle direzioni burocratiche che ostacolano la discesa in campo della classe operaia: anche per questo sosteniamo attivamente la costruzione del Fronte di Lotta No Austerity, struttura di fronte unico che può unificare la classe su una piattaforma di lotta superandone l’attuale frammentazione.
Se la classe operaia scenderà in piazza, massiccia, al fianco degli studenti, delle donne e delle sardine, non abbiamo dubbi: nessuno potrà strapparle le sue gloriose bandiere. Soprattutto, si aprirà, finalmente, anche Italia, un nuovo capitolo della lotta di classe.