Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 26 settembre 2015

Audizione con la Commissione ambiente della Regione Lazio, alla presenza dell’assessore ai rifiuti Civita, in merito al Decreto Legislativo del 29 Luglio 2015, in attuazione dell’art.35 della legge 164/2014.

Associazione Fare Verde Lazio
Associazione Reti di Pace
Comitato Malagrotta
Comitato Roma 12 per i Beni Comuni
Coordinamento Rifiuti Zero Roma
Forum Rifiuti Zero Lazio
QRE, Quartieri Riuniti in Evoluzione – Municipio VI
Retuvasa - Rete per la Tutela della Valle del Sacco


"Dove ci sono inceneritori, c'è pericolo di corruzione e malaffare".

Con questo concetto espresso da Paul Connett nel 2008, Maurizio Melandri del Comitato Malagrotta, intervenuto come primo richiedente dell'Audizione, ha esordito, suscitando mormorii di approvazione da parte di un pubblico costituito da un’ottantina di rappresentanti di Comitati e Associazioni ambientaliste regionali, oltre a consiglieri municipali del Municipio Roma XI e membri della Commissione Malagrotta del XII Municipio.

Oltre ai richiedenti l’audizione infatti (Associazione Occhio del Riciclone, Comitato Malagrotta, Associazione Reti di Pace, Associazione Rifiuti Zero Roma, Comitato ”Cittadini Liberi della Valle Galeria”, Comitato Roma 12 per i Beni Comuni, Forum Rifiuti Zero Lazio, Coordinamento Rifiuti Zero Roma, Coordinamento Rifiuti Zero Lazio, Q.R.E. Quartieri Riuniti in Evoluzione-Municipio VI, Legambiente Lazio) erano anche presenti altri organismi associativi quali Fare Verde Lazio e Retuvasa.

Il punto cruciale di questa nuova paradossale situazione di rilancio dell’incenerimento dei Rifiuti Urbani è la costituzione, con la Legge 164, dell’ATO Unico Nazionale che comporta la necessità, secondo il provvedimento governativo, di  una pianificazione di incenerimento,  sulla base di dati complessivi nazionali, previlegiando l’incenerimento come trattamento dei Rifiuti Urbani Residui.

Non sono occorse molte parole per esprimere la contrarietà di tutte le associazioni convenute a questa scelta deleteria, capace di bloccare l’evoluzione verso obiettivi, già raggiunti in alcuni casi e comunque raggiungibili, superiori al 70-75% di Raccolta Differenziata (RD) di qualità, nell’ambito delle pratiche verso “Rifiuti Zero”, cioè ben oltre il livello del 65%, menzionato piu’ volte come obiettivo richiesto dall’EU e spesso frainteso come limite non superabile.

La risposta piu’ diretta dell’Assessore Civita a queste contrarietà è stata che la Regione Lazio ha chiesto ed ottenuto, al tavolo di confronto Stato-Regioni, che si attivasse una procedura pubblica VAS (Valutazione Ambientale Strategica) a livello nazionale; nelle more del tempo necessario alla procedura (almeno un anno) la Regione Lazio, come le altre Regioni, potranno verificare le reali necessità regionali di incenerimento di rifiuti, sulla base di dati aggiornati, e in continua evoluzione, dei livelli di RD e non sui dati del 2013, usati dal Ministero dell’Ambiente, considerati già obsoleti.

Entrando nel merito della Regione Lazio, è stata quindi ribadita dall’Assessore Civita la necessità di verifiche aggiornate, con la confidenza di poter escludere la costruzione di nuovi inceneritori. Per quelli dove ci sono già delle procedure autorizzative in essere, l’Assessore Civita ha escluso la necessità dell’inceneritore di Albano, ha confermato la continuazione di funzionamento, monitoraggio e controllo di quello di San Vittore, ha preannunciato la necessità di riattivazione con “revamping” di quello di Colleferro, e una verifica della necessità dell’inceneritore di Malagrotta per il quale si ipotizza, forse, una linea attiva per 90.000 t/anno.

E’ stato ribadito all’Assessore Civita che, comunque, l’attuale costituzione di un ATO Unico Nazionale pregiudicherà scelte autonome delle Regioni, le quali dovrebbero invece procedere ad una ferma contestazione dell’impostazione governativa, chiedendo impegni decisi e circostanziati, con obiettivi temporali, verso un’impostazione nazionale senza inceneritori , sull’esempio della scelta del Governo danese del 2013: “Denmark without waste – recycle more, incinerate less”.

E’ stato ribadito altresì che molti comitati considerano gli impianti di Digestione Anaerobica (DA), che estraggono biogas dalla fermentazione dei rifiuti, alla stregua di impianti di incenerimento, perché il loro scopo non è quello strettamente di recuperare materia riutilizzabile (compost di qualità) dalla materia di scarto (rifiuti organici).

A riguardo l’Assessore Civita, ricordando che sono stati tolti gli incentivi alla produzione di biogas, ha affermato che il bio-metano (su cui invece rimangono incentivi) “si produce naturalmente” (quindi senza passare attraverso la fase di bio-gas da raffinare ?!?), che un impianto casalingo di riscaldamento a gas,  secondo lui, inquina di piu’ di un moderno DA, ad es. come quello  citato di Rocca Cencia, dove si prevede di bruciare il bio-metano per ottenere energia termica ed elettrica solo per il consumo interno.

Condividiamo la considerazione finale dell’Assessore sul fatto di aver rispetto reciproco dei  tecnici di propria fiducia, ma rimarremmo comunque molto sorpresi di ascoltare professionisti, che supportano con leggerezza le affermazioni precedenti.

La cultura dell’austerità uccide

Giorgio Cremaschi

Tagli alla salute. Ora con le politiche di austerità il governo abbandona i principi illuministi per tornare a quelli medioevali, meglio che un malato muoia prima piuttosto che spendere dei soldi in più. L’autorità pubblica ha così potere di vita e di morte e il principio che la ispira è quello del mercato, rispetto alla cui suprema autorità, come nel Medio Evo, le persone normali non hanno più diritti personali indisponibili.

Che cosa rende una visita, un esame cli­nico, inu­tile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende par­ti­co­lar­mente inu­tile? Il fatto che que­sto esame sia stato pre­scritto solo in via pre­cau­zio­nale, magari pro­prio solo per esclu­dere il rischio malat­tia e   tranquillizzare il paziente.
Que­sti esami inu­tili, se passa il prov­ve­di­mento legi­sla­tivo annun­ciato dal governo, non si potranno più fare, pena san­zioni con­tro il medico che li pre­scrive. Quindi saranno utili solo gli esami cli­nici che riscon­trino effet­tive pato­lo­gie, magari irrecuperabili.
Natu­ral­mente i soliti pif­fe­rai libe­ri­sti spie­ghe­ranno che si tratta di eli­mi­nare spre­chi,  definendo stan­dard validi per tutti, senza danni per nes­suno. Mi pare che abbiano annunciato come esem­pio che gli esami sul cole­ste­rolo dovreb­bero farsi ogni cin­que anni. Imma­gi­niamo una per­sona che improv­vi­sa­mente abbia sin­tomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scom­pensi nel meta­bo­li­smo, da sot­to­porre ad ana­lisi. Se il paziente ha oltre­pas­sato i tempi stan­dard dall’ultimo con­trollo il medico potrà fare la prescrizione, se invece cosi non è dovrà aspet­tare. Oppure rischiare di finire sotto procedura  di con­trollo e sanzione.
Si dice che in que­sto modo si rispar­mie­ranno 13 miliardi che potranno essere spesi meglio. Tutti i tagli alla spesa pub­blica son giu­sti­fi­cati così da sem­pre, e da sem­pre sap­piamo che que­sto non è vero. La sostanza è che si ridurrà la pre­ven­zione sulle malat­tie, solo i ric­chi potranno con­ti­nuare a per­met­ter­sela men­tre i poveri si amma­le­ranno e mori­ranno prima.
Il sistema pen­sio­ni­stico dalla riforma Dini si fonda sull’aspettativa di vita. Più que­sta statisticamente sale più si deve andare in pen­sione ad età ele­vate. Per que­sto le tabelle già preve­dono la pen­sione a 70 anni di età nei pros­simi decenni. Imma­gi­niamo allora che i tagli alla sanità bloc­chino o addi­rit­tura abbas­sino que­sta aspet­ta­tiva di vita. Sarebbe un dop­pio gua­da­gno per le casse dello stato, da un lato risparmi sulla spesa sani­ta­ria, dall’altro su quella pen­sio­ni­stica per­ché pur andando in pen­sione più tardi si morirebbe prima.
I medici sono giu­sta­mente in rivolta con­tro que­sta legge, per­ché ver­reb­bero sot­to­po­sti ad un stan­dard di regole e com­por­ta­menti di modello azien­da­li­stico. È evi­dente infatti anche in que­sta “riforma” il modello Mar­chionne, il nume ispi­ra­tore a cui Renzi vor­rebbe fare un monu­mento. Come nella scuola con i pre­sidi capo­rali, anche nella sanità ci saranno strutture e poteri buro­cra­tici che avranno il com­pito di deci­dere sui comportamenti.
Ancora più infame è poi la par­tita di scam­bio che viene offerta ai medici per com­pen­sarli della distru­zione della loro libertà. Il governo intende impe­dire le cause dei cit­ta­dini per mala­sa­nità. Così come ha fatto con il decreto Ilva, che ha garan­tito impu­nità ai mana­ger che inqui­nano nell’esercizio delle loro fun­zioni, il governo offre la stessa pro­te­zione ai medici. I pazienti saranno meno immuni da malat­tie gravi, ma i medici ver­ranno immunizzati dalle cause dei pazienti.
L’Italia è il paese di Cesare Bec­ca­ria , che alla cul­tura medioe­vale con­trap­pose quella illu­mi­ni­sta delle pene: meglio un col­pe­vole libero che un inno­cente in pri­gione. Con lo stato sociale que­sto prin­ci­pio di civiltà si era esteso ai diritti sociali. Meglio spen­dere 13 miliardi in visite anche per chi non ne ha biso­gno, che negare le cure a chi invece ne necessita.
Ora con le poli­ti­che di auste­rità il governo abban­dona i prin­cipi illu­mi­ni­sti per tor­nare a quelli medioe­vali, meglio che un malato muoia prima piut­to­sto che spen­dere dei soldi in più. L’autorità pub­blica ha così potere di vita e di morte e il prin­ci­pio che la ispira è quello del mer­cato, rispetto alla cui suprema auto­rità, come nel Medio Evo, le per­sone nor­mali non hanno più diritti per­so­nali indisponibili.
Quella dell’austerità è prima di tutto una cul­tura di morte.


 fonte: "il manifesto" del 26 settembre.

venerdì 25 settembre 2015

Le due (o tre) lezioni ateniesi

Francesco Ricci
 
La scuola di Atene di Raffaello 1509
La seconda vittoria elettorale di Syriza, il 20 settembre, rialimenterà illusioni e consentirà a molti ciarlatani della sinistra riformista di esercitarsi nel loro mestiere. Ma i fuochi artificiali saranno stavolta più deboli di quelli sparati per la precedente vittoria elettorale e sono destinati a ricadere rapidamente a terra. Ciò perché il Tsipras II (ancora una coalizione tra Syriza e la destra di Anel) dovrà passare rapidamente dall’ormai consumato tradimento delle promesse elettorali all’applicazione delle misure del terzo memorandum dell’imperialismo europeo. E in questo nuovo feroce attacco contro le masse greche, lo spazio per i giochi pirotecnici è inesistente.
Per qualche mese, comunque, è da prevedere che anche i dirigenti della sinistra italiana esulteranno per questa “vittoria”. Grottesco che lo facciano in coro con le borse che, come Ferrero, Vendola, Civati e Landini, hanno festeggiato in tutto il mondo l’esito del voto greco. Questa “vittoria”, che si ha imbarazzo persino a definire “di Pirro”, consentirà infatti ai promotori della “Syriza italiana” di varare l’ennesimo partito della sinistra governista, mettendo insieme i cocci prodotti dalle cadute precedenti.
Proviamo  qui   a enucleare le due (o tre) lezioni universali che tutta questa vicenda ci lascia.
 
Prima lezione: gli interessi di classi opposte non sono conciliabili in un governo comune
Una verità che i riformisti odierni negano è che la società è divisa in classi. Questo è un tratto distintivo del solo riformismo moderno, cioè del riformismo nell’epoca della putrefazione sua e del sistema capitalistico che lo alimenta. Il riformismo classico (quello dei Bernstein, dei Kautsky, dei Togliatti) ammetteva l’esistenza delle classi, dei loro interessi. Oggi invece si rimuove il concetto stesso di “classe”, sostituendolo con la metafisica categoria dei “cittadini”. Scomparse le classi (ovviamente solo nella fantasia), scompare d’incanto anche la lotta tra gli interessi inconciliabili delle classi. È qui che fanno la loro comparsa i concetti come “la casta”, “i politici” e come “buona politica”, consistente nella pretesa di eliminare la corruzione dalla società capitalistica, il che equivarrebbe a togliere la crema dal pasticciotto leccese.
Pur nelle differenze, tanto il riformismo classico come la sua moderna versione caricaturale concludono predicando la pace sociale e il compromesso. Compromesso di classe con la cosiddetta “borghesia avanzata” nel caso del riformismo d’antan; compromesso sociale tra i “cittadini onesti” nel caso del riformismo che abbiamo sotto il naso oggi.
Marx ebbe a ricordare che non andava ascritta a suo merito la scoperta delle classi, dei loro diversi interessi e della inevitabile lotta che ne discende: questa era infatti una “scoperta” degli storici borghesi della Grande rivoluzione francese, come Mignet e Augustin Thierry. La “novità” apportata dal marxismo è stata quella di vedere nell’impossibile conciliazione tra le classi l’alimento di una lotta che periodicamente raggiunge il suo acme nelle rivoluzioni; e di teorizzare come unica possibile conclusione vittoriosa di una rivoluzione la conquista del potere da parte della classe oppressa, attraverso la “rottura” dello Stato, il rovesciamento della dittatura della borghesia e la sua sostituzione con una dittatura (o dominio) del proletariato. Scopo dei marxisti non è andare al governo ma conquistare il potere: che è cosa ben diversa.
Teorizzare la conciliazione tra i differenti interessi (di classe) presenti nella società contrasta con tutta l’esperienza storica. Ma ancor più irrealistico (per quanto venga presentato come realistico in contrapposizione alle presunte utopie dei rivoluzionari) è pensare che siano possibili “politiche di redistribuzione della ricchezza” nel bel mezzo della più devastante crisi economica che il capitalismo abbia vissuto: cioè quella in cui siamo immersi dal 2007-2008. E l’assurdo è portato all’ennesima potenza quando simili teorie vengono avanzate per la Grecia, un Paese ridotto a semicolonia dell’imperialismo europeo.
Eppure, queste teorie ci sono state propinate prima della vittoria dello Tsipras I, dopo l’evidenza della sua capitolazione, prima delle nuove elezioni (indette con l’incoraggiamento dei banchieri per vincere sfruttando quanto resta delle passate illusioni); e, prevedibilmente, queste stesse teorie verranno riscaldate nelle prossime settimane, quando lo Tsipras II sferrerà il suo attacco, dimostrando che non di riforme (per quanto timide) si parla ma di controriforme.
Tutti i governi nel capitalismo fanno gli interessi del capitale. Questa banale verità, che dovrebbe essere accessibile anche a chi non sa che Marx definiva i governi nel capitalismo “comitato d’affari della borghesia”, è negata dai dirigenti riformisti greci e nostrani.
Ma oltre a questo riformismo esplicito c’è anche quel semi-riformismo (o centrismo) che si professa marxista, riconosce la lotta di classe, ma poi, con una capriola logica, certifica la possibilità che in una società borghese nascano governi “neutri”, al di sopra delle classi, “in disputa”, orientabili. Questa teoria è stata sostenuta fino a poche settimane fa da Kouvelakis e dagli altri dirigenti di quella Piattaforma di sinistra che, dopo essere stati messi alla porta da Tsipras, si sono visti costretti a presentarsi alle elezioni come Unità Popolare. E pare che nemmeno l’esperienza pratica induca questi marxisti per equivoco a prendere atto che ogni governo nel capitalismo, a prescindere da chi vinca le elezioni, si regge su uno Stato di classe (Engels lo definiva: “bande armate a difesa del capitale”) e concorre, insieme alle altre istituzioni, alle chiese, alle scuole, ai mass-media, a difendere la proprietà privata.
Come tutta una lunga storia insegna (tanto che ne parlava già Engels riferendosi alla Francia del 1848), quando i sedicenti rappresentanti dei lavoratori collaborano in un governo borghese (come borghesi sono tutti i governi nel capitalismo, inclusi quelli definiti “di sinistra”), il primo effetto è la passivizzazione delle masse, la delega al governo che viene visto come “proprio”. È il vantaggio che le classi dominanti riconoscono in questi governi borghesi “sui generis” che, proprio per questo, in determinate situazioni tollerano o favoriscono: perché riescono a imporre politiche antipopolari che nessun governo ordinario riesce a realizzare.
 
Seconda lezione: i dirigenti riformisti sono il principale ostacolo per un’alternativa di classe
Dalla prima lezione discende una seconda, che richiede meno spazio per essere illustrata ma che non è meno importante.
La vicenda greca conferma qualcosa che ritroviamo in tutta la storia degli ultimi due secoli: ciò che è mancato non sono le lotte o la combattività delle masse. In Grecia, 35 scioperi generali, con assalto al parlamento, non rendono necessario rispondere alla consueta litania riformista sulla “passività delle masse”.
Ma se non sono mancate le lotte delle masse, perché in conclusione si stanno applicando le politiche della Merkel contro le masse?
La risposta è per noi semplice: Syriza. I riformisti normalmente dominano tra le masse perché assecondano e incrementano l’ideologia dominante, mentre i rivoluzionari arrivano in genere fino alla vigilia della rivoluzione come minoranza. È la storia del bolscevismo che, da infima minoranza ancora nel giugno 1917, guadagnò un’influenza di massa solo alla vigilia dell’insurrezione – e solo grazie all’aver costruito, per anni, sulla base di un programma corretto, un partito d’avanguardia, minoritario ma con solidi rapporti con importanti settori della classe operaia. Finché i rivoluzionari non riescono a guadagnare le masse, quando la rivoluzione apre rapidamente delle brecce nell’ideologia dominante, fino ad allora sono i riformisti a dominare, imponendo una politica di subalternità alla borghesia, di compromesso (da dentro o da fuori) con i suoi governi, di rinuncia all’obiettivo della conquista del potere (sostituito con l’obiettivo della “conquista del governo” per via elettorale).
Per questo motivo i dirigenti riformisti (che, come ben spiegava Rosa Luxemburg, non hanno semplicemente “idee diverse” rispetto ai rivoluzionari ma hanno interessi materiali burocratici) sono i veri pilastri di questa società. È grazie al riformismo (tanto di origine socialdemocratica, come stalinista o post-stalinista, incluso quello attuale, che si distingue dai primi due per essere più debole, privo di radicamento) se il capitalismo è riuscito a conservarsi ancora vivo passando attraverso due secoli di rivoluzioni.
Lenin definiva i dirigenti dei partiti riformisti “agenti della borghesia nel movimento operaio”. L’espressione rende bene l’idea del ruolo che svolgono i vari Vendola, Civati, Ferrero, Landini, Tsipras (ma anche Kouvelakis, che vorrebbe tornare con Unità Popolare a una mitica quanto inesistente “Syriza delle origini”). Il loro compito è rimuovere dalla coscienza e dalla pratica delle masse l’idea che è possibile una società senza classi, senza sfruttatori, dominata dalla maggioranza che oggi è sfruttata.
Ecco perché la terza lezione (o appendice della seconda) che ci viene da Atene, e che ci limitiamo qui ad enunciare  è che senza partito rivoluzionario, costruito su scala internazionale nel vivo delle lotte delle masse ma capace di separarsi dalle illusioni borghesi delle masse; senza un partito che riconosca la necessità di condurre le lotte fino all’instaurazione di governi operai in ogni Paese, per questo rimanendo all’opposizione di qualsiasi governo nella società borghese (comunque camuffato); senza un partito di lotta che miri a organizzare il rovesciamento rivoluzionario dei governi borghesi per avviare l’esproprio della borghesia; senza un tale partito, ogni lotta dei lavoratori e dei giovani, per quanto coraggiosa, sarà destinata alla sconfitta. Come una sconfitta per le masse è certo l’insediamento del governo Tsipras II, non a caso festeggiato da borse e banchieri.
Solo se chi lotta contro questa società, in Grecia come altrove, saprà apprendere dalle lezioni ateniesi, anche questa momentanea sconfitta potrà capovolgersi in nuove vittorie.

La Volkswagen e gli altri

Vincenzo Comito

Dunque si è scoperto che la Volkswagen, la grande impresa dell’auto tedesca, che controlla anche i marchi Audi, Skoda, Porsche, falsificava, non si sa bene da quanto tempo, i test statunitensi sulle emissioni inquinanti dei suoi modelli a motorizzazione diesel. La società teutonica si è subito presentata all’opinione pubblica come rea confessa, indicando che anche molte altre delle sue vetture, per un totale di 11 milioni di unità, che circolano nel resto del mondo presentavano lo stesso problema.
In ogni caso il danno economico per una società che stava proprio in questi mesi raggiungendo il traguardo di primo produttore mondiale del settore, davanti a Toyota e a General Motors, appare elevatissimo.
L’evento sembra a prima vista molto sorprendente sia per la fama che il gruppo aveva acquisito sul mercato mondiale, sia per la scoperta che anche dietro il miracolo tedesco, di cui la società era uno dei campioni più rappresentativi, si potevano celare dei segreti inconfessabili.
Sull’episodio si possono fare molte ipotesi e porre molti interrogativi, nonché avanzare una constatazione.
Intanto la scoperta delle anomalie è avvenuta per caso da parte dell’Epa, l’agenzia statunitense incaricata dei controlli ambientali, o magari, come qua e la si fa intendere, per le denunce in proposito alle autorità Usa da parte di un membro della famiglia Porsche escluso dai giochi di potere nel gruppo? O invece non abbiamo per nulla a che fare con una mossa casuale o occasionale? Siamo così forse di fronte ad un tentativo da parte degli americani per cercare di far fuori un concorrente pericoloso nel settore o anche, più in generale, di dare una lezione ad un paese, la Germania, che forse studia troppo da vicino l’ipotesi di allargare gli spazi di autonomia politica e di avvicinarsi alla Cina? In questa direzione tendono a portarci anche certe analisi di esperti di geopolitica, partendo in particolare dal caso ucraino.
Ma è possibile comunque pensare che una compagnia come la Volkswagen possa aver portato avanti nel tempo da sola un comportamento così delittuoso e così ad alto rischio? La cosa appare a prima vista inverosimile e ci spinge a svolgere un ragionamento che ci porta un po’ lontano.
Con lo scoppio della crisi, ormai circa otto anni fa, si scopre che alla sua origine sta per una parte almeno il settore bancario. Da allora, tra l’altro, sono stati scoperti tanti scandali di tipo finanziario, molto di frequente commessi da molte banche in combutta tra di loro (mi vengono a tale proposito in mente, ad esempio, l’episodio della fissazione fraudolenta del Libor sul mercato di Londra e quello relativo al mercato dei cambi, sempre su Londra). Si può così tranquillamente affermare che quello finanziario è un business portato avanti per larga parte da un’associazione a delinquere, che agisce in totale impunità grazie anche alla complicità dei poteri pubblici e delle autorità di controllo dei vari paesi.
Ora tocca all’auto; chi si occupa professionalmente del settore sa da diversi anni che, ad esempio, la gran parte delle imprese che operano nel nostro continente presenta ufficialmente dei dati relativi ai livelli di inquinamento largamente sottovalutati rispetto alla realtà, compiendo varie acrobazie poco lecite. I deboli tentativi di Bruxelles di controllare meglio la questione e anche di rendere più stringenti le norme in proposito si scontrano da tempo con l’opposizione della Germania, ma anche con quella di diversi altri paesi europei.
Ai casi dell’auto e della finanza si deve aggiungere ora anche quello della cosiddetta “economia della condivisione”, da Uber a Lyft, a Airbnb ecc.. Molte delle imprese operanti da qualche anno nel settore, per affermarsi sul mercato, non rispettano, questa volta non in maniera occulta, ma pubblicamente, le normative fissate in proposito dai vari governi, con esiti peraltro i più vari nella differenti regioni del mondo.
Che quindi quello del passare sopra le leggi, quando sia necessario o anche opportuno, in maniera occulta o anche palese, non sia alla fine che un modo di essere normale del sistema capitalistico, almeno di quello contemporaneo?

giovedì 24 settembre 2015

L'unità nella lotta è il messaggio che sale forte dall'assemblea di "Vertenza Frusinate"

Luciano Granieri


L’assemblea convocata dal movimento “Vertenza frusinate” martedì 22 settembre presso la sala conferenze della Provincia di Frosinone, segna un avanzamento decisivo nel percorso di lotta verso la riacquisizione di un minino di dignità e diritto di cittadinanza per chi risiede nella nostra Provincia. 

Come indicato nell’appello di convocazione dell’assemblea,  il degrado e l’impoverimento, del nostro territorio ha raggiunto livelli talmente indegni da porre il cittadino ciociaro ben lontano dagli standard minimi di sopravvivenza. Con un reddito pro capite, per chi lavora, mediamente inferiore al 30% della pur misera media nazionale e con un tasso di disoccupazione cresciuto del 106,20% dal 2009, il doppio rispetto al dato regionale che si attesta al 49%.

 In linea con le dinamiche ricorrenti il frutto avvelenato di questi dati è figlio di un inasprimento della diseguaglianza sociale che anche nel nostro territorio vede  diminuire il numero dei ricchi, congiuntamente alla proporzionale crescita del loro conto in banca, ed aumentare il numero dei poveri con la proporzionale crescita del loro tasso di disperazione.  
Il salto di qualità  decisivo nella rivendicazione di una vita minimamente dignitosa per noi che viviamo in questa Provincia ha imposto un'evoluzione per cui  dalla difesa del diritto al  lavoro, così come assicurato  dall’art.3 della Costituzione, si è progrediti  verso la lotta  per il diritto ad una esistenza  umanamente praticabile . Un esistenza che preveda come incondizionata prerogativa l’accesso al lavoro, ma anche l’usufrutto delle risorse  indispensabili alla vita , l’accesso all’acqua  e la tutela della salute. 

Non a caso affianco agli ex lavoratori della Videocon, della Marangoni, dell’Ilva, della Multiservizi di Frosinone, si sono impegnati i comitati in difesa dell’acqua pubblica e della sanità provinciale.   A  Gino Rossi, per gli ex lavoratori della Videocon, Paolo Iafrate protavoce degli ex dipendenti della Multiserizi, si sono succeduti, nel prendere la parola, Severo Lutrario, del comitato provinciale acqua pubblica di Frosinone e Francesco Notarcola del coordinamento provinciale della sanità. 

E’ indubbio che la drammatica situazione e le ipotesi messe in campo per uscire dal degrado sociale fossero oggetto di discussione su cui confrontarsi  con le  istituzioni  e con gli eletti del territorio,  i quali,  come al solito,  hanno brillato per la loro assenza, con l’eccezione del deputato Luca Frusone, Movimento 5 Stelle e dei consiglieri comunali Marco Maddalena di Ferentino e Manuela Maliziola già sindaco di Ceccano.  

Nel susseguirsi degli interventi è emerso il corto circuito fra la sottrazione del reddito da  lavoro da parte del  capitale e il reinvestimento di quest’ultimo nella messa a profitto dei beni comuni. Un sistema che, prima ha impoverito la collettività  sottraendole linfa vitale per la sopravvivenza e poi l’ha ulteriormente vessata imponendo tariffe  abnormi  per l’accesso agli elementi necessari alla vita  come acqua e tutela della salute.  La condivisione delle lotte è stata la via nuova che i partecipanti all’incontro, coordinato dal direttore del quotidiano “l’inchiesta” Stefano  Di Scanno, hanno proposto per uscire dalla crisi sociale ed economica che attanaglia il nostro territorio. 

Non solo, è emerso anche come stia ai movimenti imporre una nuova idea di società basata sulla condivisione, sul mutuo soccorso. Un nuovo modello di sviluppo  sociale che indichi cosa, come e dove produrre, valorizzando le risorse proprie  del territorio rispettando l’ambiente  e la morfologia idrogeologica del territorio stesso. 

Proprio la riaffermazione dei valori della condivisione e della solidarietà sociale è l’elemento più difficile da realizzare. Si tratta infatti di scalfire quel modello culturale ormai radicato, per cui i problemi possano essere risolti singolarmente da  ogni individuo, magari raccomandandosi al politico o al potente di prossimità. Un retaggio imposto dall’idea ormai sedimentata che i diritti siano privilegi.  Il lavoro è un diritto sancito dalla Costituzione italiana e deve essere difeso con le rivendicazioni comuni e non elemosinato all’Assessore o al Senatore. 

Oltre alla proposizione di una piattaforma che prevede, fra l'altro,  il rifinanziamento della legge regionale per il sostegno al reddito di  quei soggetti i quali,  superata l’età di cinquant’anni  si trovano estromessi dal mondo del lavoro, la fuga dalla solitudine e dalla vergogna di non poter lavorare, la riaggregazione   e la messa in comune di obbiettivi e bisogni, è l’altro difficile obbiettivo da raggiungere. 

Ma siamo certi che il percorso intrapreso sia quello giusto. Siamo certi che l’unità nel rivendicare il diritto e non il privilegio alla piena promozione della dignità umana potrà scardinare il giogo fatto di paura e solitudine che oggi impedisce a noi cittadini ciociari di condurre un esistenza decente. 

I video dell'assemblea sono a cura dell'associazione culturale "Oltre l'Occidente"









mercoledì 23 settembre 2015

Brasile, decine di migliaia in piazza: blocchiamo il Paese!

Fabiana Stefanoni

San Paolo, 18 settembre


Leggete con attenzione questo articolo perché, in Italia, difficilmente avrete occasione di leggere altrove di quello che sta realmente accadendo in Brasile, uno dei Paesi più grandi del mondo, considerato, almeno fino a poco tempo fa, una delle principali economie "emergenti". Mentre sentirete parlare delle "grandi manifestazioni" promosse dai partiti di destra per chiedere l'impeachment di Dilma Rousseff, nessuno vi parlerà delle grandi manifestazioni e delle proteste operaie e di massa che stanno attraversando il Brasile, al grido di "nós paramos o Brasil"  ("blocchiamo il Brasile").
Il 18 settembre sono scese in piazza a San Paolo, contro il governo Dilma e contro le destre, decine di migliaia di persone (quella che in Italia, vista l'abitudine di certa sinistra a moltiplicare le cifre a uso stampa, si sarebbe detta una manifestazione "da centomila"). Un corteo enorme (come si vede dalle foto impressionanti), promosso dal sindacato Csp Conlutas con oltre 40 sigle sindacali, di movimento e politiche, con un ruolo dirigente di primo piano del Pstu (il partito fratello del Pdac in Brasile). Domenica 19 è stata la volta di una enorme assemblea (con delegazioni di operai, donne, studenti, neri, lgbt da diverse città del Brasile), nel corso della quale si è deciso di rilanciare la mobilitazione, fino allo sciopero generale.
Il mito del Lula operaio
In Italia quasi nessuno parla della straordinaria stagione di lotte che si è aperta in Brasile e, soprattutto, del ruolo importante che stanno svolgendo in essa il Pstu e la Csp Conlutas, il più grande sindacato di base e di classe del mondo (con circa 3 milioni e mezzo di affiliati). Difficile fare piazza pulita delle illusioni che per anni hanno ubriacato la sinistra di casa nostra: ovverosia che il governo di fronte popolare a guida Pt (il partito dei lavoratori di Lula e Dilma) sia il "governo della classe operaia", simbolo di una grande speranza di cambiamento.
Ma, nella realtà, a parte qualche concessione di facciata (come la "bolsa familia", di fatto un'elemosina a vantaggio delle famiglie più povere), il governo di centrosinistra ha agito a sostegno degli investimenti delle multinazionali (in particolare quelle del settore automobilistico, dalla Fiat alla General Motors alla Volkswagen), sulla base di accordi centrati su bassi salari e alti profitti: le multinazionali hanno così avuto un aiuto prezioso da Lula e Dilma nell'attuazione delle loro politiche di delocalizzazione e sfruttamento.
Per alcuni anni la relativa crescita economica del Brasile ha dato l'impressione di un miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice, con una conseguente pace sociale funzionale agli investimenti del grande capitale internazionale: una pace sociale garantita dal radicamento operaio del Partito dei lavoratori (il partito di Lula e Dilma appunto), strettamente legato alla Cut, la principale confederazione sindacale del Brasile.
Sull'onda della crisi economica mondiale, le cose hanno cominciato a cambiare. Il governo ha attuato, progressivamente, sempre più pesanti politiche di austerità: tagli allo stato sociale, privatizzazioni, congelamento dei salari dei dipendenti pubblici, tutto accompagnato da aiuti e finanziamenti diretti e indiretti alle multinazionali e alle banche.
L'invenzione del golpe
Tutto questo ha determinato la frattura tra la base sociale tradizionale del Partito dei lavoratori e il governo, generando un fortissimo malcontento popolare e, soprattutto, operaio. I partiti della destra approfittano di questo discredito, propongono l'impeachment accusando il governo di corruzione (per l'utilizzo di fondi pubblici in campagna elettorale) e cavalcano il malcontento popolare promuovendo manifestazioni di piazza contro Dilma. Il governo per difendere la propria politica di attacchi alla classe lavoratrice e al contempo cercare di reagire al discredito in cui è caduto utilizza lo spauracchio del "golpe". Uno spauracchio, appunto: non ha nessun fondamento dire che oggi ci sia in Brasile il rischio di un golpe militare, visto che il capitale internazionale non ne avrebbe nessun bisogno, considerato quanto si sono riempite le pance delle multinazionali all'ombra dei governi di Lula e Dilma... (1)
La verità è ben diversa. In Brasile si è aperta una fase prerivoluzionaria, con un'esplosione di lotte quotidiane, nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, che pongono all'ordine del giorno non solo le rivendicazioni salariali, ma anche la cacciata del governo. L'espressione più nota in Europa di questa nuova fase sono le manifestazioni del giugno 2014, in occasione dei mondiali di calcio, quando decine di migliaia di giovani sono scesi in strada per protestare contro l'aumento del prezzo del biglietto dei trasporti pubblici e per dire no agli sprechi dei mondiali. Ma i sommovimenti in Brasile sono ben più profondi: la classe operaia sta prendendo coscienza del fatto che ben poco di "operaio" ha messo in atto il partito del "presidente operaio" (2): e ora la sfida è aperta.
La capitolazione della sinistra riformista e il ruolo fondamentale del Pstu 
A metà agosto di quest'anno la destra che punta all'alternanza di governo ha organizzato alcune manifestazioni in tutto il Paese per chiedere l'incriminazione di Dilma: le manifestazioni sono state molto partecipate, proprio in virtù del malcontento popolare nei confronti del governo. A sua volta, Dilma ha promosso, qualche giorno dopo (il 20 agosto) una manifestazione a difesa del governo, facendo appello a tutti i movimenti e i partiti della sinistra (anche quella all'opposizione) a scendere in piazza contro "il pericolo delle destre": un ritornello che, come sappiamo bene anche noi in Italia, spesso utilizzano le forze politiche che non hanno una politica di alternativa di potere e di sistema e finiscono così per sostenere il "meno peggio". E' così che alcuni partiti e movimenti della sinistra brasiliana, dal Psol (partito riformista) ai Sem Terra, hanno deciso di partecipare alla manifestazione a difesa di Dilma: una manifestazione, come era prevedibile, disertata dalla classe lavoratrice: perché mai gli operai e i giovani avrebbero dovuto scendere in piazza per difendere un governo che li sta massacrando?
Per fortuna, in Brasile esiste una sinistra rivoluzionaria che non capitola a queste pressioni: il Pstu, la sezione brasiliana della Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale, ha un forte radicamento nella classe operaia brasiliana, dai metalmeccanici agli operai edili, fino ai lavoratori dei cantieri navali e dei trasporti (tra cui i famosi "metroviarios" che paralizzarono San Paolo alla vigilia dei mondiali). E' grazie al Pstu se in Brasile esiste un sindacato come la Csp Conlutas, che raggruppa milioni di lavoratori, lavoratrici, movimenti e che ha fatto appello a costruire un polo di classe, alternativo al governo e alle destre. E' grazie ai rivoluzionari che il 18 settembre, per le strade di San Paolo, hanno marciato decine di migliaia di lavoratori al grido di "Basta Dilma", per rivendicare un'alternativa di potere al governo di collaborazione di classe.
Come Pdac (sezione italiana della Lit-Quarta Internazionale) facciamo appello a tutte le organizzazioni e ai movimenti della sinistra classista in Italia a sostenere questo fronte di lotta in Brasile e a infrangere la barriera di silenzio (3) su queste grandi mobilitazioni dirette dalla sinistra rivoluzionaria. Rafforzare il Pstu e la battaglia delle masse operaie in Brasile significa rafforzare una prospettiva rivoluzionaria su scala internazionale, contro i tradimenti della sinistra riformista. 

Note
(1) La stessa Dilma, rendendosi evidentemente conto dell'assurdità di questa invenzione del "golpe", parla del rischio di "una forma moderna di golpe", riferendosi a una probabile caduta del governo anticipata rispetto al mandato elettorale. Applicando questa definizione in Italia... negli ultimi anni ci sarebbero stati innumerevoli "golpe", visto i numerosi ribaltoni governativi.
(2) Così è stato definito Lula dalla stampa internazionale, in quanto ex operaio metalmeccanico salito alla presidenza del Brasile nel 2002 col 61% dei voti.
(3) Vergognoso e incomprensibile che in Italia, a parte rarissime eccezioni (il Pdac, il Si.Cobas e il Coordinamento No Austerity) tutta la sinistra (inclusa quella sedicente rivoluzionaria) taccia su queste mobilitazioni, attualmente le uniche nel mondo dirette da un partito rivoluzionario.


martedì 22 settembre 2015

La proprietà privata è un furto.

Luciano Granieri



L’articolo 42 della Costituzione la garantisce la  proprietà privata . Ma la legge  ne determina i modi di acquisto,  godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e l’accessibilità alla comunità . In base al dettato costituzionale, la proprietà privata può, in base a quanto prevede  la  legge, e quindi nel caso in cui non ne sia assicurata la funzione sociale, essere espropriata, salvo indennizzo, per motivi di interesse generale. 

Nella nostra città fra i tanti pezzi di proprietà privata che tolgono spazio e respiro ai cittadini ne esiste uno a cui si potrebbe, anzi  dovrebbe,  applicare l’art.42 della Costituzione. Ci riferiamo al piazzale di Via Tiburtina in zona De Mattheis, situato di fronte all’ufficio postale. Si tratta di un’area rigorosamente transennata, con tanto di cartello “proprietà privata”, tenuta in  condizioni indecenti. L’asfalto del piazzale è scrostato, invaso da erbacce e sporcizie varie. Un monumento al degrado posto nel pieno centro della città bassa. 

Qualche anno fa il piazzale era adibito a fermata e stazionamento dei mezzi del Cotral che in quel tratto di strada transitano numerosi, soprattutto negli orari di punta. Non potendo oggi usufruire di quello spazio perché il proprietario non ha più  ritenuto consono adibire la sua proprietà   a quell’uso, i pullman sono costretti a fermarsi per la strada, congestionando il traffico, con conseguente aumento dell’inquinamento. 

Il risultato è che da un lato c’è un pezzo di città sfregiata da un piazzale  privato sporco e in degrado,  perché  evidentemente il proprietario non ritiene doveroso impegnare risorse economiche  per pulirlo e  renderlo decente, dall’altra gli autobus, non potendo usufruire di quel parcheggio, intasano la strada e, insieme alle altre autovetture coinvolte nell’ingorgo, avvelenano l’aria di anidride carbonica e PM10. Non ci si può dunque  meravigliare  se Frosinone è  ai primi posti fra le città più inquinate. 

Non sappiamo chi sia il proprietario di quello spazio, proprietà tanto strenuamente difesa, è certo però  che così come è messa, quell’area squalifica la decenza  urbanistica cittadina e non assolve alla funzione sociale  prevista  dall’art.42 della Costituzione,  in quanto non ospita più gli autobus. 

Le condizione per espropriare il piazzale e restituirlo alla sua   destinazione d’uso originaria ci sono tutte. Cosa aspetta il sindaco a far rispettare quella Costituzione su cui ha giurato? Ci sarebbe la questione dell’indennizzo da corrispondere al proprietario. Il caso non sussiste, perché i danni in termini di inquinamento e  di deterioramento del decoro urbano superano abbondantemente il valore dell’indennizzo. Ma un sindaco cosi intimamente legato ai poteri forti è in grado di imporre  l'interesse  dei cittadini e impegnarsi  affinchè essi possano tornare  in possesso di un’area di indubbia utilità per la collettività? La risposta mi pare scontata. 


lunedì 21 settembre 2015

INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO: PER IL COMUNE DI PIEDIMONTE SAN GERMANO NON ESISTE

Alessandro Barbieri
Presidente Consulta dell'Ambiente di Piedimonte S.G.


«Quello che è accaduto nei giorni scorsi nel Comune di Piedimonte San Germano è di una gravità assoluta.» Così esordisce Alessandro Barbieri, presidente della Consulta dell'Ambiente della città. «Nonostante la nuova amministrazione targata Nocella fosse stata messa per tempo a conoscenza che, attraverso i monitoraggi ambientali, scoprimmo per la prima volta nel marzo 2014 (dal 1998) il superamento della soglia di rischio (CSR) dei 6 V/m degli impianti TLC a ridosso del parco pubblico di Piedimonte Alta, ha acconsentito lo stesso di allestire gli stand gastronomici per la manifestazione di sabato e domenica scorsi proprio sotto i ripetitori della Telecom. Ricordiamo che nello stesso mese era stato convocato un tavolo tecnico tra Comune, Telecom, Arpa Lazio e la nostra associazione, rinviato per l'assenza della compagnia telefonica e la stessa Arpa. Una leggerezza, dunque, che non è ammissibile, in quanto la popolazione che in quelle sere ha sostato nei pressi degli stand ha assorbito il cosiddetto "inquinamento elettromagnetico" (elettrosmog), esposti all'elettrosensibilitàNel 2011 presso l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) a Lione 31 esperti di 14 Paesi si sono riuniti per valutare la cancerogenicità dei campi elettromagnetici a radio frequenza (RF, da 30kHz a 300 Ghz) e a quattro anni di distanza il volume “Non ionizing radiation part 2 – radiofrequency electromagnetic fields” riporta la classificazione dei campi elettromagnetici a radiofrequenza come possibili cancerogeni per l'uomo, corrispondente al gruppo 2 B, dove si trovano classificati altri 274 agenti. I sintomi dell’elettrosensibilità sono formicolio, prurito, insonnia, debolezza, mal di testa, nausea e malessere generale. Si riscontrano anche riduzione della memoria, bradicardia e disturbi dell’umore che possono degenerare in depressione. Oltre ai disturbi avvertiti, vi sono alcuni effetti biologici che secondo alcuni specialisti possono essere ricondotti all’esposizione ai campi elettromagnetici, come i danni a carico di alcuni organi. Inoltre si ritiene che le persone portatrici di protesi metalliche siano particolarmente esposte all’elettrosensibilità. «Per questo motivo - conclude Barbieri - chiederemo l'immediata chiusura dell'area interessata dalle radiazioni affinché venga al più presto risolto il problema».

L'affondo del governo Renzi contro la scuola pubblica

Mauro Buccheri
 

Noncurante delle mobilitazioni che per mesi hanno visti protagonisti studenti e lavoratori della scuola, il governo Renzi lo scorso luglio ha varato la famigerata legge 107, che porta avanti il progetto della cosiddetta “Buona scuola”, e conseguentemente ha avviato le procedure del “piano straordinario” di immissione in ruolo dei precari.
Nonostante i proclami governativi e le autocelebrazioni di Renzi e del suo entourage, che hanno parlato di una “rivoluzione” nella scuola pubblica italiana e di un piano di stabilizzazioni senza precedenti, ritornello diffuso fino alla nausea dagli organi di “informazione” filo-padronali, la realtà dei fatti è ben diversa. La realtà è che i precari della scuola hanno bocciato in massa il progetto renziano, e che hanno provato a far passare attraverso gli organi di stampa, incappando spesso nella censura, le ragioni del loro rifiuto.
In alcuni articoli delle scorse settimane (1) abbiamo analizzato in cosa consiste questa riforma della scuola, pienamente in linea con quelle varate (o tentate) dai governi precedenti (super poteri ai presidi, attacco ai diritti dei lavoratori, aziendalizzazione della scuola pubblica, incentivi ai privati). E abbiamo già rimarcato come questo piano straordinario di “assunzioni” varato dal governo Renzi sia nato in seguito alle critiche mosse dall'Unione europea nei confronti dello Stato italiano per il  trattamento riservato ai precari e al fine di evitare pesanti sanzioni.
 
Le menzogne sulle cifre e sul presunto superamento del precariatoLe menzogne governative hanno riguardato innanzitutto le cifre relative alle assunzioni. Il governo ha parlato infatti di oltre 102000 stabilizzazioni, da effettuarsi attraverso un piano che consta nel complesso di quattro fasi, denominate rispettivamente “0”, “a”, “b” e “c”. In realtà, quella che il governo chiama “fase 0”, e che era finalizzata ad immettere in ruolo entro la fine di agosto 36627 docenti, si riferisce a un contingente di stabilizzazioni già preventivate e relative al normale (si fa per dire) turn over annuale.
Non contando dunque gli insegnanti immessi in ruolo in fase 0, cioè quelli stabilizzati indipendentemente dall'intervento del governo in carica, ci accorgiamo che il piano dell'esecutivo prevede in realtà la stabilizzazione di circa 67000 docenti. Di questi, solo le 10849 stabilizzazioni della fase a hanno previsto l'assunzione – come è sempre avvenuto - su base provinciale e regionale. Le altre decine di migliaia di docenti da stabilizzare, cioè quelli che ricadono nella fase b (fase chiusa pochi giorni fa e finalizzata ad assegnare i posti rimasti non coperti nelle fasi 0 e a) e nella fase c, saranno stabilizzati non a livello locale ma su scala nazionale, problema su cui ci soffermeremo fra poco. E i docenti stabilizzati in fase c, in particolare, saranno immessi in ruolo non su regolari cattedre, ma su posti di “organico di potenziamento”, novità introdotta dalla legge 107 e dai contorni ancora non chiari (2).
Il tutto mentre diverse categorie di precari, ad esempio decine di migliaia di docenti abilitati attraverso tfa e pas, nonché il personale ata (personale ausiliario, tecnico, amministrativo), sono stati esclusi dal piano di assunzioni.
Qualcuno potrà obiettare che comunque 67000 stabilizzazioni non sono poche. Intanto, diverse migliaia di questi posti rimarranno alla fine scoperti, e dunque le relative stabilizzazioni solo sulla carta, non solo perché tanti insegnanti si sono rifiutati di fare la domanda per l'immissione in ruolo (per i motivi che spieghiamo più avanti), ma anche perché in questi anni i governi che si sono alternati – incluso quello attuale - hanno palesato, fra l'altro, incompetenza e superficialità, dimostrando di non conoscere nemmeno la situazione reale della scuola italiana e la mappatura delle risorse disponibili: col risultato che sono stati banditi concorsi per classi di concorso (termine tecnico con cui ci si riferisce alle discipline insegnate) che risultano in esubero (anche a causa dei tagli effettuati negli ultimi anni) piuttosto che per altre discipline rispetto alle quali scarseggiano gli insegnanti. Ecco perché, quando fra qualche settimana – con la fase c - la procedura del piano di assunzioni sarà ultimata, faremo il conteggio definitivo delle migliaia di posti rimasti vacanti per assenza di insegnanti disponibili per alcune discipline. Possiamo già dire tuttavia che dei 16000 posti messi a disposizione dal Miur in fase b, quasi la metà non sono stati assegnati.
 
Il “piano di stabilizzazione” fra procedure oscure e guerre fra poveriPer ottenere l'immissione in ruolo nelle fasi b e c (quelle su scala nazionale) gli insegnanti precari hanno dovuto inviare entro metà agosto una domanda online al ministero, indicando ben 100 province in ordine di preferenza. La domanda andava fatta praticamente a occhi chiusi, nel senso che la normativa non chiariva esattamente quale procedura sarebbe stata utilizzata dal computer del ministero per assegnare a ogni docente la eventuale provincia, e relativo posto, di destinazione. E da parte del ministero è stata fatta una pressione enorme, ai limiti del terrorismo psicologico, per convincere i docenti a fare questa domanda, paventando conseguenze catastrofiche per chi avesse deciso di non farla.
Senza contare che in quei giorni concitati i rappresentati del Miur che, sotto la pressione degli insegnanti, provavano a rispondere ai loro quesiti (e il Miur stesso nelle apposite faq), fornivano – in merito a questioni importanti relative alle procedure - risposte in contrasto fra loro ed anche in contrasto con quanto scritto nella legge 107!
Questa procedura farraginosa e per niente trasparente ha alimentato tra l'altro le solite guerre fra poveri. Ha destato polemiche ad esempio il fatto che gli immessi in ruolo in fase b (sui posti rimasti liberi nelle due fasi precedenti) sono stati stabilizzati in province lontane centinaia o migliaia di chilometri da casa (dopo dieci o venti anni di precariato sulle spalle!), mentre quelli che – a novembre, stando ai i piani ministeriali - entreranno in ruolo in fase c avranno maggiori possibilità di evitare di allontanarsi dalla propria regione, pur avendo un punteggio inferiore rispetto ai colleghi stabilizzati in fase b (3).
 
Ricatti e deportazione dei precari L'intento del governo è quello di piazzare in qualsiasi modo i precari ovunque capita. Ecco perché, dopo la notte fra l'1 e il 2 settembre, cioè la notte in cui il cervellone elettronico ha mandato la fatidica mail ai destinatari di proposta di assunzione in fase b, si è materializzato l'esodo che facilmente in tanti avevano pronosticato. Le regioni più colpite in tal senso sono state quelle meridionali, e in particolare Sicilia e Campania, dove maggiore è il numero di docenti e minore, in proporzione, la quantità di posti messi a disposizione dal governo. Ecco come il governo Renzi intende affrontare la “questione meridionale”, che pur dice essere uno dei punti principali nella sua agenda!
Tantissimi insegnanti (non più giovani tra l'altro, si tratta di persone di età media superiore ai 40 anni) sono stati immessi in ruolo a migliaia di chilometri da casa, senza possibilità di rifiutare perché, come previsto dalla legge 107, la rinuncia alla proposta di assunzione avrebbe comportato l'esclusione da ogni graduatoria e dunque l'espulsione dal mondo del lavoro (il 97% dei destinatari di proposta di assunzione in fase b ha accettato infatti per i suddetti motivi; solo un 3%, cioè 244 insegnanti, ha scelto nonostante tutto di rifiutare la proposta, sperando in futuro di poter rientrare in gioco tramite concorso).
La quasi totalità di questi insegnanti ha accolto con dolore, se non con disperazione, quell'immissione in ruolo che in teoria dovrebbe essere vissuta come un momento di gioia: proprio perché il prezzo di questa stabilizzazione è abbandonare la propria casa, i propri affetti, i figli, il coniuge, i genitori anziani e magari disabili, in una parola il progetto di vita faticosamente messo su negli anni a prezzo di grandi sacrifici. E pensare che il Pd e gli altri partiti di governo sono fra quelli che si ergono a paladini della “famiglia” borghese! (4)
Molti di questi docenti, inoltre, sono stati immessi in ruolo su classi di concorso e ordini di scuole su cui non avevano mai lavorato prima d'ora (insegnanti di scuola media stabilizzati alle superiori e viceversa, oppure insegnanti da anni impegnati su posto comune, cioè nell'insegnamento della propria specifica disciplina, stabilizzati invece su sostegno), proprio perché il governo non ha rivolto alcuna intenzione alla didattica, all'interesse degli alunni e all'impiego al meglio delle risorse disponibili, ma ha mirato soltanto a piazzare, come pacchi, i docenti in qualsiasi luogo e modo possibile (5).
 
Gli obiettivi falliti dal governo e i diritti negati ai precariIl trenta percento circa degli insegnanti precari aventi diritto si è rifiutato di inviare la domanda al buio, col risultato che – calcolano alcuni sindacati – decine di migliaia di docenti resteranno nelle graduatorie provinciali ad esaurimento (gae), preferendo continuare a lavorare come precari sulle supplenze annuali o brevi nella propria provincia. Del resto, tanto più in considerazione dello stipendio medio degli insegnanti, complessivamente modesto (anche in relazione alla gran quantità di ore di lavoro non retribuito che nei fatti vengono loro imposte), vivere lontano da casa propria comporterebbe senza dubbio un netto peggioramento delle condizioni materiali di vita, nonostante la “stabilizzazione” formale.
Il governo ha fallito dunque l'obiettivo sbandierato ai quattro venti di svuotare le gae e di azzerare il precariato della scuola. Va detto inoltre – cosa che gli organi di “informazione” di sistema omettono di dire – che i docenti precari hanno il diritto, sulla base delle normative varate negli anni precedenti, di essere immessi in ruolo sulla loro provincia di riferimento (per quanto riguarda gli insegnanti presenti nelle gae) o sulla loro regione (i vincitori di concorso, che sono collocati per l'appunto in apposite graduatorie di merito su base regionale), per cui il progetto renziano costituisce l'ennesimo cambio delle regole in corsa, e come sempre a spese dei lavoratori.
Oltretutto, i fatti dimostrano che i posti di lavoro, in tutte le regioni e soprattutto al meridione, sarebbero molto più numerosi se i governi non avessero operato consistenti tagli agli organici in questi anni (il Pd, del resto, quando fingeva di opporsi al governo Berlusconi, aveva anche avanzato la promessa di annullare i tagli decisi dalla Gelmini) e se si decidessero a cambiare approccio. Soluzione, quest'ultima, che da rivoluzionari riteniamo impossibile, proprio perché il taglio e il saccheggio delle risorse pubbliche, inclusa la scuola, è la linea politica inevitabile che i vari governi di sistema devono seguire per foraggiare il padronato, tanto più in periodi di crisi.
 
Quelli che strumentalizzano il malcontento dei lavoratori della scuolaIn questo quadro disastroso, i lavoratori della scuola nelle ultime settimane hanno provato a reagire, attivandosi con presidi e mobilitazioni e provando a fare opera di divulgazione a partire dalle piazze, per diffondere la verità occultata dai mass media (6). Pur restando spesso imprigionati nelle maglie della logica di sistema: rimane diffusa infatti la tendenza a fare affidamento sulle burocrazie sindacali, nonostante i tradimenti continui che queste hanno riservato negli anni ai lavoratori.
E solo in questi giorni un numero crescente di lavoratori si rende conto che al di là delle critiche mosse al governo, a cui non seguono azioni concrete se non vaghe minacce di convocazioni di sciopericchi, i sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil), così come Snals e Gilda degli insegnanti, non hanno alcuna intenzione di promuovere una lotta radicale contro il governo per il ritiro della legge 107. Mentre altri sindacati più piccoli, che pur a parole si definiscono “di base”, al di là dei proclami combattivi conoscono pericolose involuzioni e una crescente assuefazione a quelle pratiche concertative e opportunistiche tipiche dei più grandi sindacati di massa che effetti devastanti hanno avuto sul mondo del lavoro (7).
La crescente disillusione e l'assenza di una chiara prospettiva antisistema porta ancora settori consistenti dei lavoratori della scuola a rifugiarsi nel mondo virtuale e nella lamentela fine a se stessa, oppure a limitarsi alle vie legali, avviando ricorsi e/o sperando che i provvedimenti governativi vengano bloccati dalla Consulta. Una strada indicata anche dal Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, forza populista reazionaria che prova a capitalizzare il malcontento del mondo della scuola in termini di consensi elettorali, ma senza avere la capacità e la volontà di indicare una reale via d'uscita ai lavoratori. Il tutto mentre altri soggetti politici, ad esempio i civatiani, che pure fino a ieri erano nel Pd a condividerne le politiche di mattanza sociale, provano oggi la via del referendum per l'abrogazione della legge sulla “buona scuola”, al fine di guadagnare qualche consenso fra i lavoratori della scuola.
 
Che tipo di lotta può fare vincere i lavoratori?Da rivoluzionari riteniamo persa in partenza una lotta che si limiti al piano legale (referendum abrogativi, ricorsi ecc) in quanto questo tipo di battaglia si mantiene ancora rigorosamente nel quadro del sistema capitalista, di cui le leggi sono solo un elemento sovrastrutturale. I lavoratori della scuola devono bypassare le burocrazie sindacali traditrici, unificare la loro lotta con quelle degli altri settori mobilitati nel quadro più ampio della guerra sociale che la borghesia sta scatenando contro le masse popolari.
La lotta va portata vanti da una prospettiva anticapitalista, e non deve dunque riguardare soltanto singoli aspetti dell'assetto formativo generale, ma deve avanzare parole d'ordine radicali come: il ritiro di tutte le controriforme della scuola, la stabilizzazione di tutti i contratti per porre fine alla precarietà, il ritiro di tutti i finanziamenti alle scuole private, il ritiro di tutti i fondi stanziati per le grandi opere e per le missioni di guerra e la loro destinazione verso un grande piano di edilizia scolastica, l'estensione degli spazi democratici dentro le scuole, l'eliminazione dei test nozionistici in stile Invalsi. Una lotta che non avanza queste rivendicazioni non è una lotta reale, in quanto rinuncia in partenza all'obiettivo della costruzione di una scuola laica, pubblica, gratuita, di qualità.
Per vincere questa grande battaglia riteniamo tuttavia che l'unità delle lotte attorno a una prospettiva antisistema sia una condizione necessaria ma non ancora sufficiente. Per preparare le basi della futura vittoria riteniamo infatti imprescindibile lavorare alla costruzione di un'organizzazione politica rivoluzionaria internazionale e internazionalista, capace di portare alle estreme conseguenze le contraddizioni del sistema capitalista e di condurre al governo la maggioranza della popolazione, la classe lavoratrice, oggi schiacciata sotto il tallone del padronato.
 
Note1) Consultare in particolare: http://www.alternativacomunista.it/content/view/2174/1/
2) Evitiamo di dilungarci su un aspetto così tecnico, rimandando chi volesse approfondire ad articoli della stampa specializzata. Fra i compiti degli insegnanti dell'organico “potenziato”, comunque, ci sarà quello di fare le supplenze in caso di assenza (non superiore a 10 giorni) degli insegnanti titolari di cattedra, motivo che ha spinto qualcuno a definirli “tappabuchi”.
3) Oltretutto, il governo ha deciso di dare la priorità nella stabilizzazione ai docenti vincitori del concorso 2012 rispetto ai precari storici delle graduatorie provinciali ad esaurimento, le cosiddette “gae” (mentre finora le immissioni in ruolo si erano basate sul criterio del 50% ai vincitori di concorso e 50% ai precari delle gae). E, senza addurre ragioni, oltre che contraddicendosi rispetto a quanto detto in precedenza, il governo Renzi ha deciso di dare la priorità rispetto ai precari storici delle gae non solo ai vincitori del concorso 2012, ma anche agli idonei non risultati vincitori. Queste scelte, non motivate e verosimilmente dettate dalla volontà di favorire amici di amici, hanno contribuito ad alimentare il malcontento e a sfilacciare un fronte, quello dei lavoratori della scuola, già troppo spesso dimostratosi poco coeso.
4) Il governo ha provato a edulcorare la pillola amara consentendo ai precari immessi in ruolo lontano da casa di posticipare di un anno la partenza nel caso in cui intanto a inizio settembre avessero ottenuto un incarico annuale nella loro provincia di riferimento. Ma questa mossa non ha sollevato di molto il morale degli insegnanti. Così come poco sollievo ha dato il varo di una “mobilità straordinaria” per tutti i docenti di ruolo per il prossimo anno, mossa con cui l'esecutivo ha provato ad incentivare la presentazione delle domande di stabilizzazione, alimentando le speranze di un possibile rapido rientro a casa dei precari immessi in ruolo lontano da casa. Speranze che in realtà si scontrano con possibilità oggettive limitate.
5) Per non parlare di casi di errori clamorosi che sono stati segnalati (come insegnanti stabilizzati su sostegno pur non avendone il titolo!) o di abbinamenti inspiegabili (insegnanti stabilizzati su una classe di concorso su cui avevano punteggi molto bassi), che hanno fatto aumentare i dubbi, già molto forti, sulla coerenza della procedura utilizzata dal ministero. Procedura su cui stanno per partire fiumi di ricorsi, e sui quali alcuni “sindacati” o sedicenti tali proveranno come al solito a speculare.
6) Tanti precari hanno usato, per questo piano di assunzioni, il termine “deportazione”, alludendo al trasferimento coatto in altre regioni, termine che il governo e molti pennivendoli di regime (tra cui il noto “giornalista” Enrico Mentana, nonché anche qualcuno dell'Unità) hanno strumentalizzato per aizzare una volgare campagna di denigrazione contro i precari della scuola, tacciati di fannullonismo, dipinti come quelli che “pretendono il posto sotto casa”. Una squallida campagna mediatica finalizzata ovviamente, attraverso una “informazione” parziale e scorretta, a garantire il consenso al governo e ad emarginare i lavoratori della scuola, alienando alla loro lotta la simpatia delle masse.
Ovviamente, quegli stessi giornalisti di sistema scandalizzati dall'uso “improprio” da parte dei docenti del termine “deportazione” non mostrarono il medesimo scrupolo linguistico quando, settimane prima, la ministra Giannini aveva definito “squadristi” un gruppo di insegnanti che la contestava!
7) Si pensi alla recente capitolazione delle dirigenze di alcuni sindacati di “base” all'accordo vergogna sulla rappresentanza sindacale. Contro la capitolazione dei dirigenti di Usb, in particolare, si sta sviluppando una lotta interna da parte di un gruppo combattivo di iscritti che chiede ai propri dirigenti l'immediato ritiro della firma dall'accordo vergogna con la Confindustria: 
http://www.alternativacomunista.it/content/view/2161/78/

domenica 20 settembre 2015

Una fontana dalla precisa coscienza politica

Luciano Granieri
I getti tricolore 

 Abbiamo sempre definito  la Giunta Ottaviani come  “Giunta degli effetti speciali”. Dalle strade rosse di Corso della Repubblica , alle pompose coccarde con cui si è avviluppato il palazzo della Prefettura, dalle struggenti  e costose rappresentazioni mistico religiose, alla sparizione delle delibere, la straordinarietà di certi effetti è stata una costante dell’amministrazione del buon Nicola. 

Ma esiste una  diavoleria che va oltre la spettacolarità, la straordinarietà. E’  un attrezzo magico, più dello specchio di Biancaneve, più della lampada di Aladino. Ci riferiamo  alla fontana che adorna piazzale Vittorio Veneto. Sono tre zampilli che allo scoccare, non si sa bene di quale magico comando, inondano la piazza con getti tricolore. Un effetto straordinario. Ma la meraviglia delle meraviglie    è che la fontana ha una precisa coscienza politica. E’ un prodigio idrico   moderato, iperliberista,   quasi conservatore,  il quale  rifiuta ogni  concessione a derive rivoluzionarie, anzi rigetta  persino  espressioni solo minimamente democratiche e partecipate. 

La precisa coscienza politica degli zampilli si mostrò la prima volta nel maggio del 2014, quando in occasione di una manifestazione del Movimento 5 Stelle, a cui partecipavano  alcuni parlamentari,  fra i quali Luca Frusone, Alessandro Di Battista e Paola Taverna,   dagli ugelli tricolori  sgorgò impetuoso un getto d’acqua, che manco gli idranti della Polizia. La folla presente al comizio si disperse,  si creò confusione fra gli onorevoli, ricordiamo le lamentele educate ma ferme  dell’onorevole Taverna “chi cazzo ha acceso sta fontana?”. Era evidente che il carattere  ribelle del Movimento 5 Stelle aveva suscitato il risentimento dei getti d’acqua dalla moderata coscienza politica. Allora si pensò ad un caso, non si voleva credere che quella fontana avesse veramente  una precisa coscienza politica. 

Ma il miracolo si è ripetuto ieri sera nel corso dell’evento  denominato “Costruiamo da Sinistra”organizzato dal circolo Altiero Spinelli di “Possibile”,  e Sinistra Ecologia e Libertà. Una due giorni di dibattiti e confronti su vari argomenti cari al gruppo di Civati e di Sel  come, ambiente, sostenibilità, e significato della sinistra nell’attuale panorama politico. Inoltre, nel corso dell’evento,  si poteva firmare per  gli 8 referendum proposti da  “Possibile” relativi all’abrogazione di alcune norme dell’Italicum  del Jobs Act , della Buona Scuola, insomma dell’architrave della devastazione liberista renziana.  

Un momento dell'incontro organizzato da "Possibile"
La valenza democratica dell’incontro organizzato dai sinistri riformisti era eccessiva per una fontana così moderata. Figuriamoci poi se si osava attentare al liberismo renziano -accettato da molta parte dei moderati di destra  trasversalmente distribuiti, fra cui  il sindaco Ottaviani - invitando a firmare  per referendum irriverenti.  Era troppo per la coscienza politica degli zampilli che immediatamente hanno scaricato getti d’acqua sugli astanti, inzuppando non solo i militanti ma anche delle ignare signore incuriosite dai temi che stava proponendo il dibattito. 

Tale  seconda manifestazione di intolleranza ad espressioni di democrazia popolare non lascia più dubbi. La fontana di Piazza Vittorio Veneto non zampilla a casaccio, ma emana i suoi dirompenti getti quando ritiene lesi i valori della sua precisa coscienza politica. Peggio di un idrante della polizia. Così si mantiene l’ordine il decoro, l’integrità morale che diamine! Questo è veramente un effetto speciale, anzi è magia pura. E come si può contestare un sindaco, che riesce a dotare la città di una simile meraviglia! Il prossimo slogan per la campagna elettorale sarà “Non solo facciamo l’impossibile ma ci siamo attrezzati anche per i miracoli” A proposito, speriamo che la fontana, oltre che ad una precisa coscienza politica, non abbia gusti musicali particolarmente raffinati. Non vorremmo che nel corso del prossimo festival dei conservatori, i reazionari ugelli   innaffiassero  un gruppo o un orchestra la cui performance non fosse particolarmente  apprezzata. 


LETTERA APERTA SULLA SITUAZIONE DELLA SANITA’ AD ANAGNI E IN CIOCIARIA

Comitato “SALVIAMO  L’OSPEDALE  DI  ANAGNI” 

La tutela della  salute dei cittadini di Anagni e dell’ ampio territorio limitrofo è compito istituzionale dei Sindaci dei  Comuni interessati.
La situazione ad Anagni è molto grave: i cittadini sono scoraggiati e forse  rassegnati  nel subire  le scelte  politiche, prima che amministrative, dei  manager aziendali  che hanno smantellato il nostro presidio sanitario e indebolito all’ inverosimile i servizi di assistenza di base ( LEA ) che la  legge  impone di assicurare.
La  Regione, nonostante gli annunci  ottimistici relativi al Bilancio in via di assestamento, non sembra avere alcun progetto sul fabbisogno di servizi sanitari nel territorio nord  della  provincia, che comprende  Anagni e una dozzina di altri Comuni.
In realtà è l’ intera  provincia che vede indebolite ogni giorno le  sue strutture sanitarie, in forte e  radicale  contrasto con quanto ripetutamente  affermato in campagna  elettorale da tutti gli esponenti  politici, in particolare da  Zingaretti,  sull’ assoluta  priorità di una  ristrutturazione e distribuzione  dei servizi  in risposta alle  effettive esigenze del territorio.
Questo conferma, se  ce  ne  fosse  ancora  bisogno, che il problema  è politico e chiama in causa direttamente i  rappresentanti  politici, a tutti i livelli, dalla  Regione  ai Comuni,  affinché rispondano  su che  cosa intendano effettivamente  fare  e su come intervenire per porre  rimedio a una situazione preoccupante, per l’ intera  provincia,  ma che, per la  città di Anagni e dei Comuni  limitrofi, non è ulteriormente  tollerabile.
Infatti, nelle  condizioni attuali , non si è in grado di far  fronte alle  urgenze ed  emergenze  quotidiane e alle  normali prestazioni  di Primo Intervento. 
Il  depotenziamento degli ospedali di Colleferro ed Alatri, con la chiusura di ulteriori reparti di degenza, ha creato una situazione che non è più sostenibile nella zona nord della provincia di Frosinone.
 Far confluire  presso l’ospedale di Frosinone (dove peraltro  i posti letto non sono  sufficienti : 1,6 x 1000 abitanti) le emergenze e i ricoveri che provengono da un territorio molto vasto, determina un concreto pericolo di vita per quelle patologie    ( infarto, Tia, Ictus ) dove il tempo di intervento è fondamentale per la vita stessa del paziente.
I Sindaci non possono continuare in una posizione di “attendismo” sterile,  né di miopi difese  di qualche  ancora  resistente privilegio che, illudendosi, ritengono possa essere  mantenuto.
In termini  molto  netti,  è chiaro che indebolire la  Sanità pubblica ha come risultato la crescita di quella  privata, a scapito di moltissimi e a vantaggio di pochissimi.
Alla nostra  Amministrazione chiediamo che il Consiglio Comunale discuta l’approvazione di un piano temporizzato di interventi, per sanare e ristrutturare la situazione, anzitutto quelli dovuti e possibili perché previsti dal Piano Aziendale sottoscritto.
Se ciò non è possibile si dichiari pubblicamente la mancanza di poteri  delle  Amministrazioni Comunali  per modificare la  situazione.
Tanto è dovuto ai cittadini ai quali non servono le  dichiarazioni di solidarietà –a parole- per non perdere consensi  elettorali, mentre – nei  fatti - si seguono le indicazioni delle amministrazioni gerarchicamente  superiori.

I cittadini vogliono riaffermare i Diritti democraticamente conquistati e sanciti dalla  Legge.

                       Il Comitato “SALVIAMO  L’OSPEDALE  DI  ANAGNI”
                                                               CHIEDE

 AL  SINDACO FAUSTO BASSETTA  DI  CONVOCARE , AL  PIU’  PRESTO, TUTTI I SINDACI DELLA  ZONA  NORD DELLA  PROVINCIA  DI  FROSINONE   PER ASSUMERE   DECISIONI CONCRETE  E DARE UN SEGNALE CHIARO DI  IMPEGNO  PER L’ OSPEDALE DI ANAGNI!