Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 15 gennaio 2011

Mirafiori: la classe operaia prova ad uscire dal coma

di Luciano Granieri





L’accordo  imposto da Marchionne  e sottoscritto dai sindacati del regime corporativistico padronale  è stato approvato dai lavoratori di Mirafiori. Il ricatto travestito da referendum (schiavi o licenziati) ha prodotto la vittoria dei si. Tutto come previsto ma con esiti numerici inaspettati. Il si ha vinto di misura, non con la cospicua entità che ci si attendeva, solo il 54% dei consensi contro il 46% dei contrari al piano.  Decisivo per la vittoria del si     è stato il voto degli impiegati su 441 voti espressi solo 20 sono risultati contrari. Un film già visto purtroppo. Già nell’autunno del 1980 i colletti bianchi furono decisivi nella sconfitta della lotta operaia contro i licenziamenti (24.000 operai in cassa integrazione a zero ore in attesa di essere licenziati) decisi dalla Fiat in cambio dell'investimento per un piano di ristrutturazione pari a cinque miliardi e mezzo.   La lotta, 35 giorni  di cortei interni ed esterni, picchettaggi 24 ore su 24   blocco delle merci, inizialmente cavalcata dal PCI e dai sindacati, falli  perché questi si defilarono col passare dei giorni, lasciando gli operai soli.  La sconfitta  definitiva fu sancita  dalla marcia dei 40 mila. Il 14 ottobre  1980 per la prima volta, tutta la schiera dei leccapiedi del padrone prendeva il coraggio di schierarsi contro la lotta operaia in modo organizzato. Erano  capi, impiegati, dirigenti, intermedi, operai crumiri, padroncini delle boite dell’indotto, cittadini benpensanti; furono  definiti la “maggioranza laboriosa”, avevano come slogan: “Vogliamo lavorare in pace”. Sarebbe stato più adatto “Vogliamo comandare in pace”, anche perché gran sgobboni non erano : questi preferivano  far lavorare gli altri, mentre loro controllavano. Uno sciame di colletti bianchi composto da 15 mila persone ( 40 mila era la stima del quotidiano padronale “La Stampa”) scese in piazza contro i loro colleghi operai determinandone la definitiva sconfitta. Si era all’inizio degli anni ottanta e questo fu  il primo traumatico strappo del  disastro  sopravvenuto  in questo decennio. Si è assistito al progressivo smembramento dei diritti dei lavoratori, alla migrazione dei redditi verso le tasche dei più ricchi  con  l’incremento dei profitti finanziari e con il potere d’acquisto dei salari mortificato dall’abolizione della scala mobile. La promozione del partito leggero, di craxiana memoria, depurato da ogni scoria ideologica,   ha prodotto la disgregazione del PCI.  Nella sua inesorabile diaspora e adesione di pezzi importanti della dirigenza alla logica del capitalismo moderato l’ex pci  lasciò  priva di rappresentanza la sua base sociale .  Un tale scenario  ha favorito   l’avvento di  Berlusconi  che con la sua cialtroneria mediatica ha prodotto nell’arco del ventennio  successivo una macelleria sociale senza pari,  determinando la desolazione in cui oggi gli operai di Mirafiori e  con loro tutti gli lavoratori si trovano a vivere . Dall’estero le politiche friedmaniane (eliminazione della sfera pubblica, libertà totale per le imprese, distruzione di ogni tipo di welfare) di Regan e della Tatcher procurarono  un enorme aumento del divario fra i più ricchi del mondo   (sempre di meno) e i più poveri  (sempre di più).  Gli anni ’80  ecco i veri anni piombo. Da qui è iniziato quel processo che in sei lustri  ha ridotto allo stato comatoso le classi subalterne e il proletariato mondiale, precipitando oltre la soglia di povertà anche parti delle middle class e della piccola borghesia.  Ma oggi sono forti e presenti  inequivocabili segnali che da quel coma ci si sta risvegliando. Il risultato del referendum di Mirafiori ne è una dimostrazione. La maggioranza  degli operai   (ricordiamo che i si hanno vinto grazie ai voti decisivi  degli "improduttivi"  colletti bianchi) votando no  al ricatto  di Marchionne , ha operato una scelta di solidarietà con le generazioni future. I tanti che hanno bocciato l’accordo capestro,   incuranti del rischio di essere  licenziati ,  hanno espresso  forte e chiara la volontà di costruire un mondo dove il lavoro torni al centro del progresso sociale, hanno espresso forte e chiara la voglia di liberare il sistema dalle asfissianti regole del mercato finanziario e tornare a progredire con i frutti della  propria laboriosità. Si guadagna lavorando  non  speculando, o  comprando e vendendo denari . QUESTE SONO LE REGOLE. Il  risultato, la di là dei trionfalismi di facciata, è estremamente pericoloso per Marchionne e il potere ultra liberista . Significa che il ricatto non funziona più, è segno che minacciare il licenziamento, se non si rinuncia alla propria dignità di lavoratore, non paga,  anzi alimenta il conflitto. Questo importante segnale, unito alle lotte degli studenti ormai diffuse in tutta Europa, alle rivolte di Tunisia e Algeria contro l’aumento dei prezzi e l’arricchimento smisurato delle èlite è sintomo che dal coma si può e si deve uscire. Basta continuare a lottare .

Il brano è "come in coma" di Daniele Sepe

"Il Piede e l'orma" è uscito il secondo numero

di Fausta Dumano


IL PIEDE E L' ORMA, numero due è stato presentato venerdì pomeriggio presso la libreria EDICOLE' ,il direttore della rivista è ALFONSO CARDAMONE, che non ha certamente bisogno di presentazioni.La redazione invece è ''itinerante'' vale a dire che si compone ogni volta secondo la tematica che viene affrontata. Oggetto di questo numero ''DALLE PARTI DI CAMUS''La scelta non è legata semplicemente all' anniversario, ma spiega il CARDAMONE, parlare oggi di CAMUS significa parlare di un'epoca delle migrazione della lotta per  l' affermazione della propria identità.CAMUS rappresenta un modello di scrittura di adesione alla realtà, capace di coniugare impegno e creatività. ''CAMUS è un pensiero di incontri , all' incrocio di una via puoi ignorarlo, ma se lo guardi , se lo osservi con lo sguardo impudico dell' innocenza, segna senso, direzione e verso alla tua strada''. Il novecento letterario si è chiuso con BORGES e YOURCENAUR che si dichiarano apolidi,così come durante la prima guerra mondiale si sviluppò nella letteratura del MITTLEUROPA , UNA VASTA LETTERATURA DEI SENZA PATRIA......Questa letteratura è una ricchezza di un mondo senza confini, senza bandiere, senza la peste del nazionalismo.La storia di CAMUS è ''il meticciato''la doppia cittadinanza.....questo secondo numero si chiude con un ponte verso il nuovo numero''MARGINI''.Ogni intervento di ogni autore meriterebbe un post a parte , citarne uno significa far torto all' altro. La rivista è possibile acquistarla presso Edicolè oppure abbonandosi





venerdì 14 gennaio 2011

Solidarietà ai lavoratori LSU del Comune di Priverno!

da Partito dei Comitati d’Appoggio alla Resistenza – per il Comunismo (P-CARC)
Sezione “Luigi Di Rosa” – mail: roccaseccapriverno@carc.it ;

Il Partito dei CARC esprime solidarietà ai quaranta Lavoratori Socialmente Utili del Comune di Priverno da più di una settimana in agitazione per difendere il loro posto di lavoro.
Oggi a Priverno 40 lavoratori, padri e madri di famiglia, si ritrovano minacciati di rimanere sul lastrico a causa delle politiche d’attacco ai diritti che Stato, Regioni e Comune stanno perpetrando contro di loro.

Le istituzioni per quasi un decennio si sono servite di questi lavoratori sottopagandoli e mantenendoli in una condizione di dura precarietà. Ciò nonostante durante tutto questo tempo gli LSU hanno garantito il funzionamento di importanti servizi comunali altrimenti vacanti. Per quasi un decennio le istituzioni hanno sempre risposto picche alla legittima richiesta degli LSU di essere stabilizzati e ottenere diritti e condizioni lavorative degne. Ricordiamo infatti che in tutto questo tempo gli LSU hanno lavorato senza cumulare contributi per la pensione (se non contributi “figurativi”) e  percependo al posto di un salario un sussidio da 400 euro.

Oggi il Comune di Priverno in combutta con la giunta Polverini vuole liquidare gli LSU e si dichiara pronto ad assumersi la responsabilità di lasciare sul lastrico 40 lavoratori e lavoratrici.
E’ proprio il caso di dire: città che vai, Marchionne che trovi!!
A Torino un manager senza scrupoli cerca di liquidare cinquanta anni di conquiste sociali della classe operaia. A Priverno la partita che si gioca è di diversa entità ma Macci ha in comune con Marchionne l’avidità, l’autoritarismo e il disinteresse per le condizioni di vita dei lavoratori.

Appoggiamo la lotta intrapresa dai lavoratori LSU del Comune di Priverno per chiedere il rinnovo dell’accordo tra Comune e Regione e l’impegno del Comune ad assumere gli LSU del Comune di Priverno. Abbiamo sostenuto le iniziative di lotta intraprese questa mattina e continueremo a farlo.

I lavoratori LSU per rendere la loro lotta vincente devono renderla ingestibile al Comune e alle Autorità tutte. Bisogna proseguire sul sentiero inaugurato questa mattina con l’occupazione dell’aula consiliare: nessun passo indietro di fronte ai tentativi dell’Amministrazione di spaccare il fronte dei lavoratori, di fronte a chi dice che “le casse sono vuote e gli LSU sono una spesa insostenibile”. Gli sperperi di denaro pubblico, i lussi e i privilegi che lorsignori (sindaci, politicanti vari, ecc.) si permettono sono una valida ragione per non cedere ai loro ricatti e pretendere la stabilizzazione e un lavoro dignitoso.

Tutti coloro che dicono di difendere i diritti dei lavoratori devono stare al fianco della lotta intrapresa dagli LSU: la lotta per il diritto al lavoro è una lotta di civiltà!

Da Mirafiori a Priverno la lotta  è una sola! Se vogliamo impedire l’indiscriminato attacco ai diritti, la devastazione ambientale in nome del profitto, corruzione, leggi ad personam, licenziamenti e disoccupazione è necessario lottare per un governo d’emergenza delle organizzazioni operaie e popolari. Da disoccupazione, precarietà e licenziamenti non ci salverà un governo retto dai servi dei capitalisti e degli speculatori che hanno creato la situazione in cui ci troviamo (PDL, PD, ecc.).
A disoccupazione, precarietà e licenziamenti si può porre rimedio soltanto con un governo che abbia nella difesa del posto di lavoro la sua missione costitutiva, un governo che abbia il suo primo centro di potere nella piazza e in quelle organizzazioni che come la FIOM, l’USB  ecc. hanno oggi un ruolo nella resistenza al procedere della crisi!

giovedì 13 gennaio 2011

Sì della Consulta, adesso la parola ai cittadini

da Ufficio Stampa Comitato Referendum Acqua Pubblica





La Corte Costituzionale ha ammesso due quesiti referendari proposti dai movimenti per l'acqua. A primavera gli uomini e le donne di questo paese decideranno su un bene essenziale. La vittoria dei “sì” porterà ad invertire la rotta sulla gestione dei servizi idrici e più in generale su tutti i beni comuni.
Attendiamo le motivazione della Consulta sulla mancata ammissione del terzo quesito, ma è già chiaro che questa decisione nulla toglie alla battaglia per la ripubblicizzazione dell'acqua e che rimane intatta la forte valenza politica dei referendum.
Il Comitato Promotore oggi più che mai esige un immediato provvedimento di moratoria sulle scadenze del Decreto Ronchi e sull'abrogazione degli AATO, un necessario atto di democrazia perché a decidere sull'acqua siano davvero gli italiani.
Il Comitato Promotore attiverà tutti i contatti istituzionali necessari per chiedere che la data del voto referendario coincida con quella delle elezioni amministrative della prossima primavera.
Da oggi inizia l'ultima tappa, siamo sicuri che le migliori energie di questo paese non si tireranno indietro.

Roma, 12 gennaio 2011




Tunisia e Algeria: RIVOLTE PER IL PANE

di Riccardo Bocchese  Lega Internazionale dei lavoratori (Lit)





La rivolta del pane dilaga in Tunisia. La ribellione è quella dei giovani che vediamo in queste ore nelle strade di molte città dell’Algeria e della Tunisia. Una ribellione diffusa e che sta contaminando e diffondendo il malumore verso gli sfruttatori, verso quanti, e sono poche centinaia di persone, gestiscono da decenni il potere con i privilegi e la ricchezza che questo comporta.
Il potere del capitale risponde. Nei modi che gli sono abituali: la repressione, l’intimidazione, la minaccia, le armi.
Ecco allora che in Tunisia il bilancio delle vittime nell’ultima settimana di scontri a Thala e Kasserine è salito a 50. Secondo quanto racconta la radio tunisina Kalima, i morti sarebbero almeno 16 nella città di Tala, 22 a Kasserine, 2 a Meknassi, 1 a Feriana e 8 a Reguab. Numerosi i feriti.

Piazze in rivolta in Tunisia e Algeria
In Tunisia la rivolta contro il carovita e la disoccupazione è iniziata il 17 dicembre dopo che Mohamed Bouazizi, un ambulante laureato di 26 anni, si era dato fuoco a Sidi Bouzid per protestare contro la polizia che gli aveva confiscato la frutta e la verdura che vendeva per sopravvivere. Il suicidio di Mohamed ha innescato una rivolta inedita e da metà dicembre i tunisini sono in strada. Soprattutto i giovani, spinti alla disperazione dalla disoccupazione e dall’ingiustizia sociale.
In Algeria le proteste sono cominciate il 4 gennaio a seguito della decisione governativa di aumentare del 20-30% i prezzi dei prodotti alimentari di largo consumo, come il pane.
Forti rincari anche per olio e zucchero. La tensione si sta diffondendo in un Paese in cui il 75% dei 35 milioni di abitanti, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, ha meno di 30 anni e il 20% dei giovani è disoccupato. Negli ultimi giorni quattro persone sono state uccise e circa 800 persone, tra le quali 300 agenti, sono rimaste ferite.
La repressione - che in realtà ha l'effetto di alimentare la rivolta - ha provocato anche quattro suicidi. Houcine, 22 anni, a Menzel Bouzaine davanti alla folla, ha gridato "non voglio più miseria e disoccupazione".
Le ragioni del malcontento dei giovani proletari tunisini sono simili a quelle dei loro coetanei algerini: la mancanza di lavoro e di prospettive. Ma in Tunisia c’è anche un’ansia di libertà: la rivolta non è solo contro i rincari alimentari, ma anche contro la censura e la mancanza di libertà di espressione.
I blog, facebook, la musica rap diventano le uniche forme di espressione, ma la censura sta arrivando anche lì. Il governo tunisino, per avere la meglio sulla protesta, sta impiegando gli hacker su internet per accedere agli account degli attivisti su Facebook, Google e Yahoo e intercettare i successivi passi della rivolta, secondo quanto denuncia la Commissione per la protezione dei giornalisti (Cpj). Ma la protesta non sta coinvolgendo solo i giovani. C’è stata, per esempio, un’altissima adesione degli avvocati tunisini allo sciopero di categoria: un segnale che testimonia il diffondersi del dissenso anche tra le classi medie. Il grido che sale dalla piazza mentre si bruciano le foto del presidente Ben Ali, da 23 anni al potere, è "barakat", basta!
Gli interessi italiani ed europei
Il ministro Frattini dichiara: “Sosteniamo i governi di Tunisia e Algeria. Noi condanniamo ovunque la violenza, ma sosteniamo governi che hanno avuto coraggio e costituiscono un’importante presenza mediterranea, soprattutto nella lotta al terrorismo”. Questo il commento del ministro berlusconiano di fronte alla repressione brutale dei governi di quei Paesi. Frattini peraltro è lo stesso ministro che si è recato in Tunisia in compagnia di altri ministri a ricordare Bettino Craxi, morto latitante ad Hammamet sotto la protezione proprio del presidente Ben Ali (divenuto presidente grazie ad un colpo di Stato “medico” nel 1987 quando il precedente presidente Bourguiba fu deposto facendolo giudicare dai medici inidoneo per senilità, agevolato da alcuni servizi segreti tra cui il Sismi italiano). Ma sono gli affari soprattutto a dettare questa presa di posizione, unica in Europa per il momento. Basta una veloce ricerca in rete per vedere quanto rilevanti siano gli affari italiani nel Magreb : sia con accordi per il gas e il petrolio (l’Eni con l’offshore del mar Mediterraneo proprio di fronte ad Hammamet), sia con le produzioni manifatturiere a bassissimo costo del lavoro (ad esempio Benetton che oggi conta oltre 5000 terzisti che lavorano nel nord Africa). Ma non manca la finanza con Mediobanca che partecipa ad una nuova banca tunisina con una quota del 30%.
E il gas ed il petrolio algerino sono da anni preda delle multinazionali anche dell’energia francesi e americane, e i fosfati marocchini altrettanto. Con tutti questi affari risulta difficile esprimersi contro chi permette tutto questo lucro.
Anche Francia e Europa non hanno nulla da dire. “C’è una lobby tunisina a Parigi – scrive Le Monde - fortissima sia a destra che a sinistra. La Francia sostiene questo regime dalla sua nascita nel 1987”.
La paura del Capitale: l’emulazione della rivolta La “rivolta del pane” per la prima volta ha coinvolto anche i giovani di Bechar e Maghnia, lungo la frontiera con il Marocco che, la sera di domenica 9 gennaio, sono scesi in strada a protestare. Ma l’emergenza supera i confini del Maghreb. La Fao ed il suo economista Abdolreza Abbassian hanno lanciato l’allarme sui prezzi dei cereali aumentati del 50% e sui conseguenti "rischi di rivolte sociali". Si registrano, infatti, tensioni anche in Asia, nello Sri Lanka, dove di fronte all’aumento dei prezzi delle derrate agricole, il governo ha deciso di mobilitare l’esercito per acquistare i prodotti dai contadini e rivenderli ai cittadini.
Che il Capitale cominci ad avere qualche timore lo si intuisce dall’interesse che i media cominciano a dare alla questione che fino a fine dicembre, nonostante i morti e gli scontri, non trovava spazio se non in qualche piccola nicchia.
Ora, il primo ministro algerino Ahmed Ouyahia è costretto a riferire che il Consiglio interministeriale ha adottato “una sospensione ed esonero dei diritti doganali, di tasse e imposte”, temporanea, su olio e zucchero, che permetteranno di ridurre del 41% i prezzi.
Ben Ali da Tunisi s’impegna a creare 300 mila posti di lavoro tra il 2011 e il 2012.
Per parte nostra, come rivoluzionari, non possiamo che essere pienamente solidali con i giovani in rivolta. La loro lotta, pur generata da cause apparentemente distinte, è in definitiva la stessa lotta dei giovani che in questi mesi hanno infiammato le piazze d'Europa, è la lotta per cercare un'alternativa al capitalismo e alla miseria a cui questo sistema sociale condanna l'umanità. Una volta di più emerge imperiosa l'esigenza di coordinare l'insieme di queste lotte nel mondo, costruendo una direzione internazionale rivoluzionaria, la Quarta Internazionale, che sappia sviluppare le lotte e le rivolte di piazza in rivoluzioni socialiste vittoriose.

mercoledì 12 gennaio 2011

La pena di morte in Italia

da SnORky

Verso il referendum di Mirafiori

di Luciano Granieri



Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”

George Orwell  “1984”

Eccola la strategia di Marchionne, quella di spremere gli operai fino a ridurre le menti  a fogli bianchi su cui poter riscrivere il proprio sistema di schiavizzazione. Il referendum di Mirafiori non risponde a logiche di rilancio dell’azienda, ma all’esigenza dell’alienazione di un peso morto come i lavoratori, non più funzionali allo sviluppo  della fabbrica ma anzi inutili e dannosi. Elementi inibitori dell’incremento smisurato dei  profitti finanziari. I premi che percepisce  Marchionne sono legati all’entità dei dividendi che la sua strategia riesce ad assicurare agli investitori e non all’aumento delle vendite o alla conquista di quote di mercato. La  compressione dei diritti, così come definita, implica un risparmio sul costo del lavoro pari ad un misero 7%  Di venti miliardi promessi in cambio della schiavizzazione degli operai, per adesso solo uno è inserito nel piano industriale di Mirafiori. Un investimento insufficiente a sostenere  la produzione prevista  degli attuali modelli, più un Suv di lusso a marchio Alfa –Chrysler. Dunque la pianificazione dell’amministratore illuminato dal maglioncino blu appare inadeguata, non solo per un  rilancio produttivo, ma non è neanche sufficiente a fermare l’attuale emorragia  di vendite. E' invece molto efficace nell’ottica dell’aumento del profitto. (Si profila un ritorno sul capitale del 33%)  QUESTA E’ IDEOLOGIA E ATTO POLITICO VERO,  SOVVERTITORE  DELLE LEGGI E DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI   . L’ideologia del corporativismo finanziario usa le regole del mercato senza mediazione per aumentare smisuratamente le ricchezze di pochi (che non lavorano)  ai danni dei  lavoratori che si trovano in numero sempre maggiore proiettati verso il  baratro della povertà. E’ l’ideologia promossa dall’iper liberista Milton Friedman  che prevede  l’eliminazione della sfera pubblica,  la liberazione della corporation da qualunque vincolo  e una spesa sociale ridotta all’osso. Altro che immobilismo ideologico della FIOM. E se gli altri sindacati non hanno  capito questa stritolante strategia o sono ignoranti e sono conniventi.

martedì 11 gennaio 2011

Dimensionamento scolastico Piano Inaccettabile

da FdS Lazio



 “Il Gruppo della Federazione della Sinistra ha espresso parere contrario al piano regionale di dimensionamento scolastico 2011/2012. I motivi della inaccettabilità del piano permangono nonostante alcuni emendamenti presentati a correzione ed integrazione del testo siano stati approvati”. È quanto affermano in una nota congiunta Fabio Nobile, consigliere della Federazione della Sinistra alla Regione Lazio e vicepresidente della XIV Commissione - Scuola, diritto allo studio, formazione professionale e università, e Loredana Fraleone, segretario regionale del Prc/FdS.


“Sebbene, -proseguono- la commissione abbia approvato l’emendamento per l’integrazione del nuovo indirizzo di scienze applicate nel liceo Meucci di Ronciglione e quello per la salvaguardia dell’offerta formativa nel territorio di Ostia Levante, il testo rimane inaccettabile”.

“La presunta “razionalizzazione”, infatti, non è dettata da scelte inerenti allo sviluppo socio-economico e culturale dei territori, ma da interessi localistici motivati da fini elettorali. Basti pensare alla gravità assoluta dello smembramento del polo artistico e agrario nella provincia di Frosinone”.



“Di fronte –continuano- all’attacco alla scuola pubblica a livello nazionale, le scelte regionali fatte con scarso coinvolgimento delle realtà locali rischia di affossare definitivamente il sistema scolastico pubblico”.



“Ci appelliamo –concludono Nobile e Fraleone- all’Assessore Sentinelli affinché questa delibera venga corretta, prevedendo nel contempo l’ascolto delle organizzazioni sindacali e degli studenti, a partire da quelle di Frosinone, la provincia più penalizzata dal piano di dimensionamento”.


La Gatta sul tetto che scotta

 di Fausta Dumano



Ops...ops.....blocco notes, la redattrice di Aut oggi vi racconta la vita sui tetti della PISANA, stamattina dopo 2 ore al discount Gelmini è andata a camminare sui tetti...anno nuovo, vita nuova, ma i tetti sono gli stessi, appena sono arrivata l' usciere B mi ha riconosciuto subito, una volta passavo inosservata, ma adesso i tetti sembrano la mia seconda casa''DA QUALI GATTI VAI'''IN REALTA’ SUI TETTI ERAVAMO 4 GATTI, sembravamo 4 amici che invece di andare al bar passeggiano sui tetti, incontrando altri gatti con altre vertenze, oggi mancavano quelli della sanità. Sembra che loro ci siano il 21, è l' alternanza delle vertenze sui tetti, Mia madre ascoltava la GATTA di GINO PAOLI, sarà per questo che cammino sui tetti. Un prof. stamattina mi dice :''CHE VAI A FARE FINISCE 3 A 2 PER NOI''Un altro prof. ieri mi ha detto:''vengo ma non voglio le bandiere rosse''a
Al secondo camminando sui tetti mi viene da rispondere la pattuglia è Cobas e docenti scapigliati, aspetta di sapere chi vota qua dentro''Al primo le previsioni le hai indovinate,ma non hai indovinato il vincitore, perchè a darti la ''sola''è stato proprio l' amico tuo La mia bisnonna diceva ''MAI FIDARSI DI UN ''AMICO'' QUANDO STA SEDUTO ANCHE SU UNO STRAPUNTINO''Camminando sui tetti ho capito che occorre una laurea speciale per capire le dinamiche quando si vota anche alla riunione di condominio..La FDS che ha votato contro insieme al Pd parla di scelte dettate da fini elettorali....quindi fatevi da soli una mappa di dove si vota in CIOCIARIA .......e capite lo smembramento del polo artistico.......Se la mappa da sola non vi è chiara, la mia bisnonna che pensava sempre male ,ma non possono censurarle il pensiero e tanto meno denunciarla per gossip calunnioso a meno che non vogliono andare a cercarla all' altro mondo........fatevi una mappa all' archivio civile ,consultate gli alberi genealogici da ADAMO ED EVA,intrecciate con la proprietà transitiva''TI HO SALVATO L' OSPEDALE, A TE INVECE HO DATO L' USCITA DELL' AUTOSTRADA, A TE HO COSTRUITO UNA PIRAMIDE NEL DESERTO.......insomma camminando sui tetti ascoltando altre vertenze trovi la guerra dei poveri...la coperta la tiri un pò qua e un pò là. So contenta per i gatti DI RONCIGLIONE (SOLIDARIETA’ DI GATTI UNITI DAI TETTI E DAI PONTI DEL TEVERE) ma alla redattrice di Aut le è rimasta questa torta pasticciata in gola che non fa né su né giù..........però dall' alto dei tetti prima di lanciarmi con il deltaplano........una cosa devo dirla''IO MI INSOGNO CON LA PASSIONE PER LA POLITICA PER UN ALTRO MONDO è POSSIBILE, MA VOI VI'' insognate''peggio di me nel pensare che alla Pisana una coalizione di destra sconfessasse una coalizione di destra della provincia'' La mia bisnonna che era saggia diceva che le promesse dei mestieranti della politica si sciolgono come la neve al primo sole di primavera, oggi a ROMA ,alla PISANA faceva caldo, ops leggo il comunicato proprio adesso di un politico''HO ASCOLTATO LE RICHIESTE''DUE SONO LE COSE O NON HA CAPITO LE RICHIESTE DEL POLO ARTISTICO OPPURE è SORDO, POI C'è UNA TERZA OPZIONE, SIETE INTELLIGENTI ...L' INSOGNATA NON DEVE SUGGERIRE.....

lunedì 10 gennaio 2011

Singer. I nuovi orizzonti della lotta operaia contro le multinazionali

Inchiesta a cura di  Domenico Carosso, Cristiana Cavagna, Dino Invernizzi, Brunello Mantelli

Composizione politica  e crisi produttiva alla Singer di Leinì

La Singer di Leinì era una fabbrica metalmeccanica di 2300 operai, situata presso Torino. L’azienda chiuse  nell agosto ’75.  Dopo di allora gli operai rimasero in assemblea permanete fino al settembre 1978. Viene qui preso in esame il periodo agosto ’75 – gennaio ’76; in questo mesi gli operai si scontrano bruscamente con l’assenza della controparte consueta, capi e dirigenti, e devono imparare a confrontarsi con i politici. Nella fabbrica non si lavora più, si è cessato di essere forza-lavoro e si sopravvive come pura composizione politica, grazie alla forza accumulata nel passato, forza che quasi subito inizia a disperdersi.  Non tanto le vicende istituzionali quanto gli effetti di queste sulla soggettività operaia costituiscono il centro di questo capitolo. Le parti virgolettate sono estratti da interviste a operaie ed operai della Singer. 

Non sembra azzardato dire  che i tempi e gli esiti della lotta della Singer si sono tutti specificati e definiti nei primi mesi successivi alla chiusura. In questo periodo si sono giocate pressoché tutte le carte  che hanno deciso l’esito finale della partita, alla cui conclusione stiamo assistendo proprio ora. Dall’agosto al dicembre 1975 gli operai misurano fino in fondo l’inadeguatezza della propria composizione politica ad affrontare l’abrgazione della fabbrica; l’esperienza consolidata nella memoria operaia – memoria di lotte ed organizzazione  - era pesantemente insufficiente. “Io ho fatto tutti gli scioperi, quando sono entrata era finito il periodo dell’accordo, la lotta del ’69 l’ho fatta tutta... allora non ci sono mai stati cortei interni o lotte contro la direzione, queste cose si sono fatte dopo , 3 o 4 anni fa...dopo il ’69 è cambiato tanto, quando si è formato il Consiglio di Fabbrica al posto della Commissione Interna...chiamavi il delegato per reclamare, anche solo per chiedere come andava la linea e te lo dicevano....”;
“Adesso quando si lavora si hanno delle paure, ma quando lavoravamo noi si lavorava male....perché c’era il caldo, c’era la produzione...c’erano ritmi veloci...non c’erano ancora i jolly...” Dalle dichiarazioni per quanto frammentate  e filtrate dalla memoria di questi operai emerge chiaramente come gli elementi centrali dell’esperienza  1969-1975 fossero costituiti dall’allentarsi del controllo della gerarchia aziendale  sugli operai e di conseguenza  dall’allargarsi dei “pori” nel tempo di lavoro (pause maggiori, ritmi più sopportabili), dal sostituirsi  ad una organizzazione sindacale separata ed estranea (la Commissione interna) del Consiglio dei delegati, realtà più vicina, controllabile, ed indiscutibilmente sentita come propria.  Va comunque precisato, a scanso di equivoci organizzativistici, che con ogni probabilità il vero salto qualitativo si verificò non  nel ’70 anno in cui venne formato il primo  Cdf, ma nel ’72-’73, quando i delegati vennero in gran parte sostituiti e la fabbrica attraverso ulteriori assunzioni, acquistò in pieno le caratteristiche  di  grande unità produttiva. Ciò rappresentò con ogni probabilità il definitivo stabilizzarsi della figura di operaio-massa come asse centrale degli operai Singer. E’ significativo tra l’altro il carattere contraddittorio che hanno molti dei giudizi che gli operai danno sulle assunzioni del ’73, si va da affermazioni quali “per vivere bene bisogna eleminare la disoccupazione e anche al più presto possibile...” ad  altre di tono  assai diverso, magari fatte dal medesimo operaio “Siccome sono meridionale ero sempre per le assunzioni ma bisognava pensarci bene, se si doveva sollevare la Singer si doveva fare lo staordinario perché la Singer doveva guadagnare di più per fare nuove assunzioni in seguito...”.  Il perno della specifica coscienza collettiva che si forma alla Singer sembra essere la percezione di aver sottratto, per quanto in modo parziale, le variabili salario e intensità di lavoro al totale dispotismo della direzione di fabbrica, attraverso l’impatto materiale delle vertenze e degli scioperi. In altri termini tutte le esperienze attraverso cui gli operai passano hanno in comune la percezione concreta di una controparte interna, sempre presente ed a cui contrapposi momento per momento, nelle sue articolazioni paternalistiche e repressive, nelle sue interne modificazioni quali cambi di dirigenti e rafforzamenti nella struttura di comando. In questo senso anche quelle che appaiono osservazioni marginali e di poco conto, quando non addirittura segno di una cultura “prepolitica”, come le ricorrenti e puntuali analisi di questo o quel dirigente e del suo rapporto con gli operai si configurano realtà come articolazioni del punto di vista operaio che quotidianamente fa i conti con la gerarchia di fabbrica. I capi si mostravano paternalistici anche quando parlavano con gli operai, gli dicevano siete dei padri di famiglia ma non appena questi operai si allontanavano avevano sempre qualcosa da dire”.
Se prendiamo adesso ultimamente c’erano dei capi che....ma parliamo del maresciallo, quando era qua in divisa aveva già la strada fatta, allora si è congedato  e lo hanno assunto...”.
“Nel periodo che sono entrato io, diciamo dal ’70 all’anno dopo, ed oserei dire nel ’72 i capi gli operai li bastonavano dandogli delle multe...ce n’è uno che ha preso tre giorni di sospensione... poi è cambiato capo, è venuto un paternalista uno che andava dall’operaio, cercava di farsi capire...e riusciva sempre ad ottenere quel che voleva...” Con la chiusura invece, ed è qui che si consuma la più netta rottura, una controparte di questo genere sparisce. Gli operai si ritrovano come sperduti ed alla ricerca faticosa e spesso inconcludente di punti di riferimento su cui costruire una efficace strategia di risposta. All’inizio, indiscutibilmente prevale un atteggiamento di sorpresa; anche quando si afferma che C’erano in giro delle voci in proposito” è palese che la tendenza era rimuoverlo: “qui andavamo già preoccupati – per gli spostamenti...si andava già a parlare...che la fabbrica ci si poteva tirare avanti ancora sei mesi, un anno...per il i reparto dove lavoravo io si andava sventolando questa voce, che l’azienda andava a cercare scuse per poter chiudere definitivamente...” E’ importante notare come si apra qui la significativa divaricazione tra quegli operai, una  minoranza, che portavano con sé il bagaglio di precedenti esperienze di fabbrica e gli altri lavoratori, la più parte, per i quali la Singer di Leinì aveva rappresentato la prima esperienza di lavoro salariato in una grande unità produttiva industriale. Un bel giorno il direttore ha chiamato il consiglio di fabbrica per dire che voleva fare gli straordinari...naturalmente...ciò voleva dire non fare assunzioni di altri lavoratori...il padrone ha cercato di tagliare la strada ed ha fatto una proposta al consiglio di fabbrica di aumentare l’organico della fabbrica, questo significava smaltire le commesse che aveva e poi licenziare in tronco i lavoratori...io prevedevo che quando il padrone raddoppia il personale senza investire una lira significa che deve disfarsi dei lavoratori. Io avevo l’esperienza del cantiere Tosi di Taranto, che in un certo periodo raddoppiò l’organico poi venne chiuso...secondo il mio punto di vista bisognava costringere la direzione ad allargare la fabbrica, mettere dei capitali, in poche parole a mettere un investimento di miliardi, di modo da non permettere all’azienda di scappare, perché investimenti significava dare garanzia di lavoro... Così un operaio di 40 anni, originario di Taranto, ci ha esposto il suo punto di vista, mentre diversamente la vede un altro trentenne, venuto a Torino da Napoli nel’68: Si sapeva che la Singer avrebbe chiuso, ma si cercava sempre di sperare. Uno dei punti che si può rimproverare al consiglio di fabbrica è di non aver accettato la mobilità interna, perché è giusto che un operaio lavori le otto ore all’interno della fabbrica...” L’operaio sembra attribuire alle lotte la responsabilità della chiusura, e più avanti così ritorna sull’argomento, per la verità non senza contraddizioni: “C’era una precisa volontà della direzione, però è vero che il costo del lavoro è diventato un pochettini alto in Italia... Si percepisce in questa seconda testimonianza come il dubbio che la chiusura fosse dovuta realmente a livelli di forza materiale sviluppati dalla classe sia circolato realmente nella testa degli operai, magari come rovescio della medaglia della consapevolezza della propria potenzialità di conflitto e quindi di speranza di poter imporre al capitale i propri tempi ed i propri bisogni. Nell’assenteismo io vedo un po’ la mancanza di volontà dell’operaio, un po’ lo vedo male sul dottore che magari dà con troppa facilità dei giorni di mutua, a delle persone che non ne avrebbero bisogno  e in certo casi ci sarà qualcuno che avrà avuto dei malori che realmente disturbavano. Noi sovente al mattino alle sei quando si arrivava non si riusciva ad incominciare a lavorare perché mancavano sempre da trenta a quaranta persone e su una linea quando manca così tanta gente non si riesce ad incomincaire la lavorazione, si doveva aspettare le sette e un quarto per avere a disposizioni”.  Più oltre però è  la stessa operaia ad affermareLa colpa è del governo che lascia che le multinazionali vengano a sfruttare la nostra mano d’opera e poi gli fa comodo ritirarsi e lasciare tanti operai allo sbaraglio”. Da qui, da questo timore di aver causato essi stessi, almeno in parte, la fuga della multinazionale, venne con ogni probabilità un pesante impatto sulla stessa volontà di resistenza operaia, che determinò uno spostarsi complessivo degli operai più a “destra” del ceto politico di fabbrica, dei delegati. Crediamo che in questo modo possa essere letto il confuso e contraddrittorio episodio dei cartelli contrari alla occupazioni e favorevoli alla cassa integrazione comparsi nei reparto nell’agosto-settembre1975, quando una scelta di tal genere era all’ordine del giorno. Ne parleremo diffusamente più oltre: basti per ora notare come la maggioranza del Consiglio di fabbrica fosse, sostanzialmente schierata a favore dell’occupazione mentre tra gli operai i rapporti erano rovesciati. Ovvio che questo contribuì in misura non irrilevante ad approfondire le spaccature  tra i lavoratori e lasciò uno strascico di tensioni destinate a perpetuarsi nel tempo. 



La Singer di Leinì

a cura di Luciano Granieri

Rileggere il passato per costruire il futuro, in base a questa logica presentiamo un inchiesta a puntate sulla Singer di Leinì. La storia di questa fabbrica metalmeccanica, il suo sviluppo il suo declino e la sua chiusura, costituiscono  una tappa importante e nell’evoluzione della lotta operaia dopo i conflitti  della fine degli anni sessanta. Gli operai della Singer di Leinì misero in atto, nella seconda metà degli anni ‘70 delle forme di protesta contro la chiusura della loro fabbrica, molto dure e aspre, durante i tre anni di assemblea permanente aprirono anche una Radio “Radio Singer” dalla quale informavano la gente sull’evolversi dell’occupazione. Nonostante la grande determinazione ne uscirono  sconfitti. Nel 1978 la fabbrica chiuse. Ma le ragioni della sconfitta risultarono  particolari e inedite . Gli operai furono disorientati dal fatto di non avere una controparte contro cui lottare all’interno della unità produttiva. La Singer era una multinazionale e come tale la dirigenza era fuori dalla fabbrica. Le lotte operaie messe in atto alla fine degli anni ’60 avevano come teatro la fabbrica e una controparte padronale  ben definita. In questo caso la fabbrica stessa diventava un teatro di conflitto senza nemico, anzi non esisteva più come luogo di contrapposizione e il nemico era un fantasma liquido privo di corporeità. Tutto ciò ha disorientato gli operai frantumandone gli obbiettivi di lotta , disgregando la consolidata solidarietà di classe. Poco a poco saliva la percezione che forse per sbarcare il lunario fosse meglio intraprendere un percorso individuale svincolato dalla condivisione con gli altri operai.  I fatti della Singer, eccezionali per l’epoca, oggi sono all’ordine del giorno. Gli operai non hanno più una coscienza di classe non sanno più chi è il reale nemico da combattere la stretta sui diritti operata dalla Fiat ha trovato terreno fertile proprio grazie a questa frammentazione iniziata alla fine degli anni ’70 cui resiste come unico baluardo la FIOM e i sindacato di base . A questa degenerazione della solidarietà di classe ha contribuito, l’insipienza e il tradimento  di sindacati e partiti politici referenti del lavoro salariato, prima nel non pianificare  una strategia nuova adatta a combattere sul nuovo terreno costruito dalle multinazionali, e poi farneticando soluzioni di equidistanza fra capitale (reale –finanziario) e lavoro diventando burocrati portaborse  delle multinazionali stesse e delle banche, umiliando ulteriormente quella classe che avrebbero dovuto difendere. L’inchiesta  è tratta dalla rivista “Ombre Rosse” una rivista edita dalla Savelli che diffondeva le sue pubblicazioni negli anni settanta. Per facilità di fruizione la posteremo in tre parti La prima e quella già  pubblicata sopra, le altre seguono  .  Speriamo che rileggendo il passato, SIA POSSIBILE  RICONQUISTARE IL PROPRIO FUTURO A COMINCIARE DALLO SCIOPERO DEL 28 GENNAIO.

La Singer di Leinì, alle porte di Torino, nasce negli anni Cinquanta, vive a pieno il boom economico degli anni Sessanta, e conosce poi un lento ma inarrestabile declino negli anni Settanta, fino alla definitiva chiusura nel 1978.  Il suo arrivo segna profondamente le dinamiche del luogo che la vede crescere: donne e uomini che dentro l’edificio lavorano, crescono, protestano, si aggregano. Vivono. La storia dell’azienda è paradigmatica di quello che l’industria italiana ha rappresentato in quegli anni per il nostro Paese, che vede incrociarsi la vita delle persone con i simboli del nuovo
benessere (come i frigoriferi nuovi di zecca che ogni giorno escono proprio dallo stabilimento Singer), il tempo libero con i ritmi della fabbrica, le proteste operaie con alcuni eventi culturali di altissimo livello. La fabbrica e le sue vicende diventano un punto di osservazione privilegiato per narrare i nuovi universi lavorativi che mescolano tempo libero ed esperienze sindacali e culturali fiorite proprio tra i cancelli della fabbrica.  Alla notizia della chiusura dello stabilimento, ed è questo che rende la Singer in qualche modo unica, non ci si limita a scioperi, cortei e manifestazioni. All’interno della fabbrica occupata, le lotte per la difesa della produzione e del posto di lavoro si intrecciano con eventi culturali di altissimo livello organizzati dagli stessi lavoratori. Sul palco della Singer si esibiscono Guccini, Milva, Franca Rame, Dario Fo e il Living Theatre, che per la prima
volta propone un percorso teatrale anticipando il teatro di comunità, i cui  contenuti emergeranno in maniera rilevante nei decenni successivi.  Tutto questo rappresenta un elemento di pressoché assoluta novità nel panorama delle lotte operaie di quegli anni. Un percorso di protesta che si fa percorso creativo, grazie anche alla diretta partecipazione dei lavoratori che danno vita a Radio Singer, la prima radio libera a trasmettere da una fabbrica, e realizzano numerosi murales sulle pareti dello stabilimento. Artisti ed operai che, grazie al documentario, potranno tornare a ricordare quei giorni, raccontando a distanza di anni, quelle esperienze.  Un viaggio che si intreccia con il territorio circostante,  segnandolo profondamente e facendo emergere lo stretto legame esistente tra una città e la sua fabbrica e di come questa abbia profondamente influenzato le vicende personali e collettive di uomini e donne nel nostro Paese.  





Nel 1977, la multinazionale produttore americano macchina da cucire, Singer, ha chiuso la sua fabbrica a Leini. La forza lavoro Singer aveva lottato e suggestivo per anni. Ma  nonostante il tempo e le energie spese da tanti, i loro sforzi sono stati vani. Il 1 ° ottobre 1977, Radio Singer, la voce della protesta ha dovuto piegarsi ; diverse molotov sono state gettate al bar Angelo Azzurro di Torino, un ragazzo è stato ucciso, e con lui è morto un'epoca e un amore.

Singer:la chiusura della fabbrica disgrega la solidarietà di classe

Va detto del resto che la tesi della chiusura e della ristrutturazione come risposta alle lotte non “degli” operai ma di “quegli operai” di “quella” specifica fabbrica era, negli anni dal ’73 al ’76 particolarmente diffusa nella sinistra sindacale e non solo sindacale. Pressoché nessuno si aspetta una lotta dai tempi così lunghi con ogni probabilità non si dà eccessivo affidamento alla reale possibilità di una chiusura. “Una voce seria sulla chiusura non c’è mai stata, sempre per vie di traverso,si diceva che questa fabbrica chiudeva, ma sempre così...non siamo mai stati informati seriamente”. “Quando la Singer è stata occupata io prevedevo fosse una cosa breve, non pensavo fosse una cosa così lunga, io credevo fosse una cosa per spaventare la gente, che si risolvesse prima...”. Di qui un diffuso senso di stupore quando ci si rende conto che la chiusura invece è un fatto reale; si insiste sul fatto che il mercato “tirava” che gli ordini c’erano ed erano stati respinti. “Riguardo la chiusura della fabbrica mai più mi aspettavo. La Singer nel circondario di Torino era una fabbrica abbastanza all’avangiardia, quindi quando hanno chiuso per me è stato più che altro una sorpresa perché abbiamo avuto richieste fino all’ultima settimana”,”l’ultimo giorno di lavoro io ho ricevuto 2000 sportelli di frigoriferi di nuova produzione, quindi richieste di lavoro ne avevano...”  Gli operai della Singer iniziano qui a fare i conti  con livelli di potere capitalistico del tutto estranei alla loro pratica esperienza: le multinazionali, le loro scelte, la politica economica, le scelte governative diventano una realtà materiale ben determinata che impone i suoi tempi e la sua logica alla classe. Un operaio commenta:”con le divisioni che c’erano alla Singer penso che quando gli americani se ne sono andati potevano concludere poco, dovevano essere di più i partiti politici a risolvere il problema...noi abbiamo bisogno delle multinazionali perché siamo un paese povero ma anche loro devono rispettare le leggi...” Parallelamente al venir meno della fabbrica come luogo di lavoro e di lotta i comportamenti individuali iniziano a divaricarsi ed a non venir più giustificati in nome della pratica collettiva.  Se ne ha un primo esempio a proposito dell’assenteismo. Tale pratica da un lato risulta molto diffusa, dall’altro viene pressoché da tutti condannata quando  non è giustificato lo stare a casa”. “Bisogna vedere i punti di vista , bisogna vedere sotto quale forma si dice assenteismo, per noi meridionali l’assenteismo si presentava sempre sotto le feste di Natale, perché a noi ci piaceva stare con la famiglia, l’altro assenteismo può essere la mancanza di strutture sociali, scuole materne eccetera, si dice assenteismo quando un genitore resta in malattia per accudire i figli, ma mancando tutte queste cose come si fa? L’assenteismo dipende anche dal fatto che c’è il lavoro nero c’è per l’insufficienza  di paga...”.  Ad una posizione di questo genere, che sembra ricercare motivazioni sociali al fenomeno, se ne contrappongono altre assai più convenzionali: “...gli ultimi scioperi che si sono fatti perché licenziavano uno che veniva a lavorare una volta al mese non erano giusti...non parlo di quello che era proprio ammalato ma di quello che non voleva proprio venire...ce ne erano di quelli che andavano a lavorare in altri posti e quelli che se ne stavano al bar...” “la  gente non deve stare troppo a casa in mutua, bisogna controllare di più anche da parte dei medici...”, “l’assenteismo io l’ho sempre disapprovato, se è giustificato va bene ma c’è tanta gente che invece sta a casa proprio così...” In altre parole l’incapacità di leggere collettivamente e politicamente i propri comportamenti, tendenza destinata a rafforzarsi con la chiusura della fabbrica.  Ma cerchiamo di vedere, a questo punto, come concretamente la classe operaia  si comporta di fronte alle scelte imposte dall’attacco portato avanti dalla multinazionale americana. Come sappiamo la Singer rende nota la propria scelta di chiudere il 9 agosto del 1975, in pieno periodo di ferie. Seguono alcuni giorni di confusione in cui non è ben chiaro né agli operai, né al sindacato come muoversi, mentre la maggioranza è in ferie. Con il rientro il 23 agosto, il terreno appare scaldarsi immediatamente, il Consiglio di Fabbrica  e l’F.L.M, indicono per il 27,28,29 agosto una serie di assemblee per decidere come rispondere all’attacco padronale. La via scelta sarà – scartata l’ipotesi dell’occupazione – quella del presidio della fabbrica da realizzarsi attraverso l’assemblea permanente: parallelemente viene deciso  di puntare sul massimo coinvolgimento di enti locali e forze politiche : già  nel pomeriggio del 27 Lucio Libertini assessore al lavoro della Regione Piemonte si incontra con il Consiglio di Fabbrica e nel pomeriggio di venerdì 29 alla Singer si svolge la prima assemblea a cui partecipano esponenti politici. Una scelta di gran peso come quella dell’assemblea permanente viene così presa in questo primi venti giorni, dopo un via vai di notizie contrastanti, e dopo i primi inconcludenti incontri all’Unione Industriali. Bisogna accettare la cassa integrazione  - così come del resto proponeva la Singer  nell’annunciare il proprio disimpegno – e con l’assemblea permanente limitarsi a realizzare una forma di lotta propagandistica , che privilegia la pressione sulle istituzioni , oppure puntare decisamente su forme di lotta dura sull’occupazine dello stabilimento? Questo è il quesito a cui operai e delegati devono rapidamente dare una risposta. Nel primo caso, sarebbe finito nei fatti con l’accettare la logica dell’azienda , collaborando anzi materialmente allo smantellamento accettando che una parte dei lavoratori portasse a termine i semilavorati  e vuotasse i magazzini , con la garanzia quindi – così si pensava allora -  del salario e la possibilità di resistere per il tempo – ritenuto breve – in cui la fabbrica sarebbe rimasta inattiva. Con l’occupazione si sarebbe imboccata la linea della lotta dura , dello scontro, al fondo del quale si profilava l’ipotesi di autogestione, in una situazione però in cui l’essere la fabbrica un puro terminale di montaggio, per di più, senza un mercato diretto operante in conto terzi  rendeva assai gravi i problemi dell’approvigionamento  dei materiali, dato il  vasto indotto , e della collocazione del prodotto.  Mentre la maggioranza del Consiglio di Fabbrica era disponibile a praticare l’occuoazione, reparti, base operaia spingevano in maggioranza verso l’accettazione della Cassa integrazione. Ci sono stati dei veri e propri cortei interni , in occasione delle assemblee, che avevano al centro la richiesta della Cassa Integrazione. Qual’è il significato che dobbiamo dare a questo comportamento? Senza voler sottovalutare il peso che può aver avuto la destra di fabbrica, due appaiono i fattori centrali , di orientamento di massa: da un lato la paura del salto nel buio, la percezione dell’inadeguatezza della propria forza e del proprio arsenale di lotta di fronte alla “mancanza” del nemico diretto, dall’altra la natura incomprimibile che il reddito operaio appare aver assunto in questa fase, cosa che in passato aveva costituito una delle principali molle delle lotte e che in questo momento si rovesciò in debolezza. Alla Singer il problema della salvagurdia del proprio livello di consumi era tra l’altro reso più impellente dalla contemporanea presenza in fabbrica di più componenti il medesimo nucleo familiare, cosa che rendeva impossibile una compensazione a livello di reddito complessivo della mancanza  di salario di un componente. La particolare struttura produttiva ed occupazionale dell’”area di Leinì” inizia qui a pesare in modo significativo sulle scelte di lotta della classe operaia. E non è che il primo esempio. Ma lasciamo la parola agli operai : attraverso le loro dichiarazioni i processi che hanno portato alla scelta in favore  della cassa integrazione emergono in tutta chiarezza : Il giorno prima della chiusura, della messa in cassa integrazione  a zero ore da parte della fabbrica, si è discusso molto all’interno della fabbrica ... era uscita una voce ...che dovevamo subito occupare la fabbrica per avere uno sbocco positivo , però ci siamo anche detti che doveva essere la massa a decidere questo.. allora abbiamo deciso che ogni delegato doveva fare un giro per il suo reparto...io assieme ad alcuni delegati feci un giro per la fabbrica . Ed in quasi tutta la fabbrica si trovavano dei carrelli con scritto – no all’occupazione, si alla cassa integrazione -, nonostante tutti gli sforzi che abbiamo fatto per far capire alla gente.....non siamo riusciti a spuntarla...” “Io pure riuscivo a capire che dovevamo rifiutare la cassa integrazione..ma purtroppo  devo dire che se non accettavamo la cassa integrazione eravamo abbassati dal punto di vista economico. Così siamo riusciti ancora a tirare avanti, non so,.senza, quanto avremmo resistito...”” La cassa integrazione dava sicurezza visto che si era in due a lavorare alla Singer. Ad occupare c’era la paura di rimanere senza lo stipendio...la cassa integrazione dà una certa sicurezza”.
E’ necessario mettere in rilevo  che se queste sono le posizioni iniziali degli operai , ben diverso risulta essere il loro giudizio a posteriori.  A distanza di quasi tre anni prevale il rimpianto per non aver occupato lo stabilimento . La Cassa integrazione viene pesantemente criticata per il modo saltuario ed incostante (tre, quattro mesi sa un’erogazione all’altra) con cui viene corrisposta e per l’effetto perverso di divisione degli operai che ha avuto.  Nel momento in cui la fabbrica viene chiusa l’indifferenza per tutto ciò  che è al di fuori della fabbrica caratteristiche centrali delle lotte precedenti, si rovescia in estraneità ostile. Non a caso nella memoria degli operai, oltre al ricordo delle varie manifestazioni  ed assemblee i contenuti della lotta, delle manifestazioni non ci sono. La storia della Singer per gli operai finisce con la chiusura della fabbrica.  

Singer: la storia di un'estenuante occupazione

Troviamo per tutto il periodo in cui si è lavorato, citati aneddoti, episodi; gli operai ricostruiscono una storia che hanno vissuto, fatta di scontri con i capi, di scioperi per i ritmi, contro i fascisti. Le donne ricordano le lotte reparto per reparto sui problemi della nocività, quando il blocco di un solo reparto riusciva ad imporre lo spostamento di un’operaia incinta ad una mansione più leggera. Dal momento della chiusura questa storia non si trova più, non si riesce a ricostruirla, episodi ed aneddoti accaduti durante l’assemblea permanente , al di là dei fatti ufficiali, non si ricordano. Diventa prioritario nei racconti, rispetto alla vita di lotta, il rapporto con il territorio : il difficile rapporti con il paese di Leinì, l’ostilità dei commercianti, i rapporti con i familiari, col mercato del lavoro, con la Politica. Finisce il coinvolgimento diretto degli operai nella vita della fabbrica, sembra  che quanto è successo  dall’agosto’75  non sia più storia loro, vissuta in prima persona, ma la storia di un avvenimento politico: “Il caso Singer” , di cui altri erano i soggetti principali: le avanguardie politiche e il Consiglio di Fabbrica, in tutto 200-300 persone, la sinistra di fabbrica. Inizia con la chiusura della fabbrica quella disgregazione di cui si è parlato a proposito della forma “operaio-massa”, per cui chi può, chi ha già un altro lavoro e ha la possibilità di un posto sicuro, tipo Fiat, sene va. Entro il gennaio ’76 già se ne sono andati circa 300 operai . Dentro la fabbrica il clima generale e il rilassamento, di attesa sostanzialmente passiva, di scadenza in scadenza. Racconta un’operaia :”Per un anno e più sono andata alla Singer, notte e giorno si può dire, portavo anche mia figlia perché mi sembrava giusto difendere il mio posto di lavoro. Ad un certo punto mi sono scocciata perché vedevo tante cose storte, il sindacato diceva una cosa poi arrivavano quelli dei partiti e ne dicevano un’altra, ognuno tirava l’acqua al suo mulino ed a noi ci hanno sempre lasciati soli.”  Paradossalmente, si può forse dire che proprio la dimensione di “grande fabbrica”  che la Singer aveva assunto negli anni ’70 e che aveva permesso agli operai di “contare sulle proprie forze” adesso diventa una palla al piede. Comincia tra assemblee aperte, discorsi dei politici, la lunga attesa degli operai. La scelta dell’assemblea permanente comportò una situazione quantomeno ambigua per quanto riguarda il controllo della fabbrica. Gli operai “presidiano” , resta però attivo tutto l’apparato di controllo dell’azienda, guardie giurate e via dicendo. Intanto una quota di operai  è adibita alla manutenzione ed al completamento dei semilavorati. Già questo è fonte di contraddizioni. E non solo. In quasi tutte le interviste viene  messa in rilievo come elemento centrale la divisione tra gli operai tra chi occupava e chi no, tra chi passava le giornate  in fabbrica e chi, grazie al secondo lavoro, spesso preesistente alla chiusura, aveva la possibilità di sostituire integralmente il reddito venuto a mancare. Ci dice un’operaia Il rapporto  in fabbrica è abbastanza cordiale con quelli che vediamo sempre. E’ logico che quando vediamo qualcuno che viene e non si è mai visto da due anni a ‘sta parte un po’ di risentimento  ce lo abbiamo. Certo ognuno ha i suoi motivi. Molti fanno lavoro nero ma è colpa di chi li tiene in queste condizioni. E’ anche un po’ colpa degli operai che non sono preparati però. Se eravamo tutti niti qualcosa succedeva prima. Se siamo una minoranza di operai in fabbrica facciamo il gioco di quelli che ci tengono in queste condizioni qua”. Aggiunge un altro operaio: In molti in fabbrica non vengono perché ci sono quelli che stanno bene e se ne fregano di venire, e ci sono tanti che non vogliono venire proprio anche se non hanno i soldi, vanno a fare qualche ora di lavoro nero e siamo sempre i soliti a stare nella mensa a giocare a carte”. Sul lavoro nero della Singer si dilunga un recente documento steso da un gruppo di compagni operai occupanti ed i dati che fornisce  sono indubbiamente illuminanti : già precedentemente, quando il lavoro era normale, tanti operai uscivano dalla fabbrica e andavano a farsi due o tre ore in più di lavoro fuori per aiutarsi , per farcela a mantenere la famiglia , o si mettevano in  mutua per guadagnare intere giornate di lavoro extra”. Con l’inizio dell’assemblea permanente, il fenomeno si è ovviamente intensificato, tanti che alcuni gruppi di operai hanno cercato di organizzare una “ronda operaia” che intervenisse nelle boite della zona, dove si sapeva che il lavoro nero era pratica comune.  A giudizio degli stessi estensori del documento però l’iniziativa ha rischiato di approfondire ulteriormente la spaccatura tra gli operai . Impressionante comunque il quadro che emerge: gli operai della Singer trovano lavoro come autisti di camion, manovali per i traslochi, venditori ambulanti sul mercato del paese. In alcuni casi il datore di “lavoro nero” è addirittura l’Amministrazione comunale di Volpiano, che assume “singerini” in cassa integrazione come muratori e carpentieri da adibire al restauro dei nuovi locali del municipio e delle scuole medie (nel 1976). Molte donne facevano lavoro a domicilio montando penne biro per un’azienda di S.Benigno, attualmente chiusa, altre  lavorano in un’altra boita  che fabbrica biro, in Via Verdi, 14 (a Leinì. A Volpiano è la ditta Zucchelli che dà a lavoratori Singer materiale a domicilio per la produzione di apparecchiature elettroniche”. In un altro caso à la Casa di Cura Camoletto (parzialmente proprietà del parco di Volpiano) ad utilizzare operaie cassintegrate  come donne delle pulizie. Alcuni operai, evidentemente in buoni rapporti con l’amministrazione comunale di Leinì sono stati assunti come bidelli supplenti nella scuola media. Molti hanno cercato di arrangiarsi a Torino finendo col fare i manovali, i barbieri, i mediatori nella compra-vendita di auto usate, gli straccivendoli, gli aiuto meccanici e addirittura i distributori di depliants pubblicitari a domicilio o i venditori di profumi ecc. Altri ancora confezionano fiori di carta oppure montano nei portachiavi le chiavi delle automobili Fiat (lavoro ottenuto attraverso l’amicizia con capi e capetti dell’azienda).  E’ importante mettere in rilievo come qui si misuri fino in fondo la dispersione degli operai: come d’altra parte la varietà dei mestieri stia a testimoniare l’assoluta mancanza di continuità tra lavoro attuale e lavoro precedente, caratteristica intrinseca dell’operaio-massa; come infine molteplici fossero ( e tuttora siano) le possibilità offerte dal variegato mercato del lavoro dell’area torinese, e non certo in settori tutti ,arginali. Accanto alla vendita a domicilio è presente infatti il montaggio di componenti elettroniche e compare pure la pubblica amministrazione . E’ facile immaginare quanto tutto questo abbia diviso gli operai. Le contraddizione inoltre erano particolarmente forti tra le donne, in particolare tra quelle più vincolate alla famiglia e che quindi per se interessate e coinvolte non potevano materialmente partecipare all’assemblea permanente e quelle che invece riuscivano ad esserci anche se a prezzo di contraddizioni personali spesso acute. Appare chiaro comunque che la Singer “presidiata” non diventa un centro di orgaizzazione e propulsione di iniziative politiche.  Non è lì che si prendono le decisioni circa il futuro della fabbrica, che si articolano i tempi della lotta, che si individuano gli obbiettivi su cui puntare. Al massimo la fabbrica, è leggibile come la trincea su cui  si resiste, dove si sta almeno finché ciascuno se la sente. Rimanere per mesi a bagnomaria nella Singer presidiata comincia ben presto ad indurre una serie di modificazioni nel comportamento degli operai. Le mille differenze che in precedenza  erano schiacciate e compresse dalla omogenea condizione di lavoro nella produzione iniziano progressivamente a venire alla luce. Sono fattori materiali e fattori ideologici ad agire parallelemente come vettori della disgregazione. Paradossalmente ada andarsene tra i primi sono settori della struttura di comando e dell’apparato tecnico (capi e dirigenti, impiegati, tecnici)  - favoriti dalle dinamiche del loro specifico mercato del lavoro- e contemporaneamente gruppi di lavoratori su posizioni radicali, favorevoli all’occupazione. Questi ultimi una volta vista svanire la possibilità di una lotta dura, anticipano un giudizio nettamente negativo sulle prospettive e preferiscono “abbandonare la nave”. Inizia quasi subito ad aprirsi la divaricazione tra durezza politica e flessibilità materialmente fondata, tra chi occupa la fabbrica – caratterizzandosi sempre più come avanguardia politica-  e chi invece ripiega sul lavoro nero. Analogamente  vengono alla luce differenze tra chi può contare su livelli sicuri di salario familiare e chi invece dipende in tutto e per tutto dal reddito garantito (o meglio non garantito)  dalla cassa integrazione.  Il lavoro nero tende così a diventare una delle maggiori fonti di contraddizione all’interno della classe, non solo sul piano materiale  ma anche sul terreno ideologico. Ancora una volta gli operai dimostrano di aver perso ogni capacità di leggere collettivamente il proprio comportamento . Tutti condannano il lavoro nero come pratica egoista e individualista, tutti però lo accettano se e quando è motivato da necessità economiche. Allo stesso modo nel corso di quattro mesi si brucia nella mente degli operai ogni possibile fiducia nella Politica: i discorsi dei “rappresentanti in missione” spediti dalla Singer, dai partiti vengono sempre più percepiti come aria fritta, come puro momento di controllo, come di fatto indistinguibili gli uni dagli altri, se non da parte dei raffinati retori che affollano l’empireo istituzionale. L’idea di essere soli, sul territorio come di fronte agli imprescindibili meccanismi della Politica, di fronte ai misteri ed alle congiure  che si svolgono al tavolo della trattativa con velati e nebbiosi acquirenti come di fronte all’aprirsi e chiudersi capriccioso e senza senso di rubinetti della Cassa Integrazione. Inizia qui, negli ultimi mesi del ’75 quel lento processo di presa di coscienza che sfocerà negli episodi di lotta dura dei primi mesi del ’76. Ma con ogni probabilità l’occasione buona era già stata persa e l’unica soluzione possibile restava la scelta individuale , sia che questa fosse la caparbia volontà di resistere, sia che fosse la fuga verso altre possibilità di lavoro salariato. Non a caso il periodo di cui stiamo parlando può considerarsi chiuso con l’intervento della GEPI e la costituzione, di lì a poco, della Sei-Geri. Saltata l’ipotesi della nazionalizzazione, sfumata (almeno a tempi brevi) quella dell’acquirente privato che garantisce l’unità e la permanenza di 2200 posti di lavoro iniziali, prende corpo la realtà del congelamento teso ad autoridurre – stancandoli – gli operai presenti. Il piano avrà come sappiamo pieni successo.

domenica 9 gennaio 2011

Appello per sostenere la FIOM

da Associazione "LIBERTA' E LAVORO"



Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti



Abbiamo deciso di costituire un'associazione, «Lavoro e libertà», perché accomunati da una comune civile indignazione.



La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c'è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell'impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.



La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l'essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell'ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l'esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all'interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L'idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l'attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l'egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.



Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l'individualizzazione del rapporto di lavoro, l'aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell'ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l'affettività dei diritti stessi.



Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all'altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell'agenda politica: nell'azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall'autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un'associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un'azione adeguata con l'intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno. 

Per aderire si può inviare un E.Mail a  fgaribaldo@gmail.com