Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 25 marzo 2017

Vertenza Frusinate. Il lavoro non ha bandiere, il lavoro è la bandiera.

Luciano Granieri




Giovedì scorso  ho partecipato, presso la sede della Provincia,  al dibattito organizzato dal Fronte della Gioventù Comunista, sul tema dell’uscita dall’Unione Europea. Qui ho incontrato i ragazzi della vertenza frusinate, riuniti in assemblea permanente per chiedere la proroga degli ammortizzatori sociali , in scadenza nel prossimo mese di giugno. Come è noto vertenza frusinate è un'organizzazione di  lavoratori  che hanno perso la propria occupazione  a seguito della dismissione di diverse unità produttive della nostra Provincia, la maggior parte  di essi  era impiegata alla Videocon di Anagni. 

Per manifestare vicinanza ad una lotta così  dura ed estenuante,  ho acconsentito a  farmi scattare una foto fra di  loro. Per rendere più significativa l’immagine, ci siamo posizionati dietro uno  striscione ed ognuno di noi mostrava un cartello con dei messaggi di protesta. Il mio recitava: “Il lavoro non ha bandiere”. Scrivere “Il lavoro non ha bandiere” è incompleto bisognerebbe aggiungere che   il lavoro  è esso stesso una bandiera. E’ la bandiera della lotta per la presa del potere da parte della classe lavoratrice. Per non soccombere  bisogna esporla quella bandiera, esibirla  sempre e  in ogni luogo. 

Il potere sta nelle mani dei lavoratori è un dato inconfutabile. Fino a quando la scienza non riuscirà a trovare una enzima in grado di indurre  l’apparato digerente umano a metabolizzare  la carta filigranata dei soldi,  o la cellulosa delle cedole azionarie, ci sarà  sempre bisogno di qualcuno in grado di  produrre  pane e mortadella, e di qualcun altro abile a realizzare i macchinari e le strutture necessarie per fare sia il pane che la mortadella.  C’è bisogno, cioè, di quei lavoratori che per quanto bistrattati, derisi, ridotti a schiavi, sono la base per il procedere della vita. Non è un potere da poco, a pensarci bene, e come tale andrebbe rivendicato con forza.  

E' dunque  necessario un salto di qualità nell’agire il conflitto . I ragazzi di vertenza frusinate, stremati dalla permanenza ad oltranza nel salone provinciale, sono in lotta per ottenere, mi sia consentita la brutalità,  l’elemosina di un  prolungamento della  mobilità, o di un salario da fame come  lavoratore socialmente utile, o la miseria di un reddito minimo garantito.  Si sono confrontati a tutti i livelli istituzionali locali (Comuni, Provincia, Regione) senza ottenere neanche lo straccio di una questua . L’ultimo calcio in faccia risale all’altro ieri quando, ricevuti dall’assessore regionale al lavoro  Lucia Valente, si sono visti rifiutare il prolungamento  della mobilità, misura di competenza del governo centrale. Alla Regione,  infatti, spetta solo la somministrazione della cassa integrazione in deroga. Dunque, è stato il suggerimento, che si mobilitino gli eletti della provincia per esercitare pressioni sull’esecutivo affinchè si riesca ad ottenere un provvedimento governativo ad hoc. I ragazzi di vertenza frusinate hanno deciso di continuare il presidio in provincia, fino a quando non si concretizzerà l’incontro con i deputati, Frusone, Pilozzi e i senatori Scalia e Spilabotte, per sollecitare l’impegno governativo. 

E’ sacrosanto coinvolgere le Istituzioni, organi deputati a risolvere questo problema, così come è indispensabile, per tirare avanti, ottenere un minimo di retribuzione, sia essa derivata da mobilità o da reddito minimo. Ma bisogna andare oltre, alzare il livello dello scontro, imporre quella bandiera del lavoro prima citata. Un vessillo che la globalizzazione, cui l’Unione Europea è elemento integrante, ha dissolto, bruciato. La vicenda di vertenza frusinate, è una dei tanti sfaceli prodotti dalla natura liberista di questa Unione Europea,   dei governi nazionali e locali,  braccio armato dello sfruttamento capitalistico finanziario. 

La storia della Videocon è emblematica in questo senso. Nel 2005 la Thomson, proprietaria dell’azienda di Anagni , decide di cedere l’unità produttiva, in forte attivo,  alla plurimiliardaria famiglia indiana dei Dooth,  maggiori azionisti del marchio Videocon. Tale operazione genera importanti dividendi sia per gli azionisti francesi che per gli indiani, ma mette a rischio il futuro di 2.400 lavoratori. La Videocon, presentando un piano industriale basato sul rilancio produttivo del sito anagnino, ottiene fondi dalla Regione, allora guidata da Marrazzo, e dalla Provincia il cui presidente era Scalia (ironia della sorte  lo stesso che deve adoperarsi per  ottenere  la proroga della mobilità per gli operai). Inoltre può godere di linee di credito agevolate e di un finanziamento europeo di 180 milioni. 

In realtà quel mirabolante piano industriale si risolve nello stoccaggio nel sito di Anagni di vecchi macchinari comprati, a prezzo di ferro vecchio, da una vetusta  fabbrica di Taiwan. Ferraglia  del tutto  insufficiente per portare avanti la produzione. Il fallimento è la naturale conseguenza. I miliardari indiani, dopo aver intascato ingenti dividendi azionari,  i soldi pubblici di Regione, Provincia ed Unione Europea, si ritirano in buon ordine,  producendo la macelleria sociale di 1197 disoccupati. Siamo di fronte ad un’ordinaria storia di speculazione finanziaria, che ha prodotto immani profitti per gli azionisti e la disperazione per i lavoratori. Il tutto foraggiato da soldi pubblici.

 Alla luce dei fatti, non basta battersi per l’elemosina di un ammortizzatore sociale, si deve obbligare i dirigenti locali di allora, Marrazzo e Scalia, a rendere conto dell’incauto finanziamento concesso alla Videocon, ricorrere presso la Corte europea per i diritti Umani  affinchè si ottenga la restituzione dei fondi dalla  famiglia Dooth, ottenere  da parte dello Stato la nazionalizzazione della Videocon e affidarne la gestione agli operai licenziati. 

Se si sono trovati venti milioni di euro per finanziare le banche, non è un problema trovare i soldi per acquisire  la fabbrica di Anagni. Ciò è contrario alle normative Europee? Un motivo in più per unire, alla lotta per un lavoro decente, la lotta per il rifiuto di questa Unità Europea. La bandiera del lavoro esiste, facciamola sventolare alte e fiera, non solo per i diritti dei lavoratori, ma anche per il dissolvimento del sistema capitalista. 

Rifondazione a Congresso Ancora un progetto di collaborazione di classe?

Alberto Madoglio
 

Dal 31 marzo al 2 aprile si svolgerà a Spoleto il Congresso nazionale di Rifondazione Comunista. E’ un’assise che cade in un momento certamente non ordinario. Entriamo nel decimo anno di crisi dell’economia mondiale,  venticinque dalla nascita di quel partito. Ciò induce a riflessioni su un bilancio di questa esperienza politica.

Il fallimento di una politica
Diciamo fin da subito che, al di là dei richiami alla Rivoluzione d'Ottobre sulla tessera 2017 e al di là di una certa retorica "rivoluzionaria" che traspare dai due documenti contrapposti in discussione, Rifondazione non fa nessun bilancio autocritico e non rompe con le fallimentari politiche che l’hanno condotta nel profondo stato di crisi in cui si trova. E questo nonostante lo stato di crisi del partito guidato da Paolo Ferrero.
Sono gli stessi documenti che danno un giudizio impietoso sullo stato di Rifondazione. Dai circa 130.000 iscritti del 1997 si è arrivati, con un costante e irrefrenabile calo, ai 17000 del 2015. Si consideri che in generale il numero dei militanti con un minimo di attività è sempre stato calcolato, in questo partito, corrispondente a circa il 10% degli iscritti.
Ma quello che più balza all’attenzione è che anche con questi numeri, che se reali non sarebbero comunque insignificanti, in realtà 
il partito non è in grado ad oggi di dotarsi al livello locale, di un minimo di struttura organizzativa. Tantoché nel testo di maggioranza si fornisce come obiettivo per l’immediato quello di avere, per ogni federazione, un tesoriere,  un responsabile organizzativo, uno del lavoro di massa e financo un segretario.
Affermare che la presenza di queste figure non è più derogabile, vuol dire che non è stato così fino ad oggi. Ciò segnala la differenza che passa tra un partito che, pur tra mille difficoltà, esiste, e un altro che, al di là dei numeri, in molte sue federazioni rimane solo sulla carta e in tante città ormai non si vede più nemmeno nelle manifestazioni.
Questo quadro, senza dubbio drammatico, riteniamo sia il frutto delle scelte politiche fatte da Rifondazione fin dalle sue origini e ribadite anche negli ultimi anni contribuendo al consolidarsi della situazione che i suoi stessi dirigenti descrivono.

La retorica del "comunismo"
La “rifondazione comunista” non è stata mai un aggiornamento del marxismo sulle proprie basi, non ha mai significato il rivendicare, non solo nelle parole ma nei fatti, la necessità di una rottura rivoluzionaria del sistema capitalistico.
Si è trattata in realtà - almeno nelle intenzioni dei vari gruppi dirigenti che si sono succeduti - di un’operazione in cui il richiamo al comunismo era qualcosa di molto vago, sentimentale, che serviva solamente a occupare lo spazio politico e elettorale che si apriva con lo scioglimento del Pci, e di conseguenza  garantire la sopravvivenza a un apparato politico che negli anni ha assunto dimensioni notevoli. Per i militanti e gli elettori si trattava di vivere nella speranza, meglio nell’illusione, che grazie alla combinazione di peso istituzionale e presenza nei movimenti e nel sociale, per usare termini cari ai gruppi dirigenti, si sarebbero potuti ottenere miglioramenti per le classi popolari del Paese.
In realtà non è mai stato così: e lo dimostrano le varie esperienze di partecipazione a governi di centrosinistra, a livello nazionale o locale, che non ricordiamo qui nel dettaglio ma delle quali abbiamo trattato svariate volte sulla nostra stampa e sul nostro sito web. Questo progetto di collaborare con la "borghesia progressista" ha fallito per due secoli e tanto più si dimostra fallimentare nel pieno di una crisi economica profondissima del capitalismo, che rimuove ogni spazio seppur minimo per concessioni e richiama al contrario l'esigenza imperiosa (per la borghesia e i suoi governi) di sferrare politiche di attacco frontale alle masse popolari, di smantellamento dello "stato sociale".
Politiche a cui per anni Rifondazione ha dato una copertura di sinistra.

Due documenti ma poche differenze
Come dicevamo all’inizio, dai testi congressuali non si evidenzia una rottura radicale col passato ma al contrario si riafferma nella sostanza la pratica fino a oggi seguita, magari infarcendola di qualche frase radicale, ma nulla più.
I due documenti alternativi non offrono nemmeno differenti ipotesi strategiche, tant’è che i sostenitori del testo di minoranza ammettono che avrebbero preferito un documento a tesi emendabile, ma a causa del rifiuto del gruppo dirigente di Ferrero, sono stati costretti a presentare un testo alternativo. Questa premessa chiarisce oltre ogni dubbio quanto sulle scelte di fondo i due raggruppamenti congressuali non siano in realtà alternativi.
Certo in entrambi i documenti è presente una fraseologia di sinistra abbastanza marcata, ma non potrebbe essere diversamente: le politiche anti-operaie particolarmente dure degli ultimi governi, il peggioramento delle condizioni di vita, dei diritti politici e sindacali dei lavoratori, richiedono a Rifondazione - se vuole indicare una ragione per la sua esistenza - l'uso almeno di "frasi rosse". Ma è chiaro che qualche parola da sola fa ben poco, se ad essa non corrispondono le intenzioni reali.
 E andando a leggere con attenzione i testi si può osservare come ad affermazioni perentorie non corrispondano altrettanto perentorie conclusioni.
Si fa una analisi della enorme concentrazione di ricchezza che si è avuta in questi anni, mentre centinaia di milioni di lavoratori vedevano diminuire il proprio salario e resa sempre più precaria la propria condizione lavorativa. Si afferma  correttamente che quella che stiamo vivendo è una crisi dovuta all’abbondanza e non alla miseria (così come lo sono tutte le crisi in epoca imperialista), spiegando che il capitale ha difficoltà a riprodursi: anche se si poi si argomenta questo fatto facendo propria la tesi del "sottoconsumo", cioè di salari troppo bassi per acquistare le merci prodotte; dando cioè peso solo a una delle due facce della crisi, essendo l’altra, quella decisiva, legata alla caduta del saggio di profitto. Poi però si ritorna, specie nel documento di maggioranza (Ferrero), a vagheggiare fantomatiche soluzioni neokeynesiane, come se il loro abbandono dalla metà degli anni Settanta non fosse stato inevitabile, in una società fondata sul profitto.

Il governo greco come stella polare
Si afferma, in entrambi i documenti, che l’Unione Europa non è riformabile, di come l’euro sia lo strumento attraverso il quale la borghesia imperialista europea estrae profitti a danno dei lavoratori e condanna allo stato di semi colonia i Paesi del sud e dell’est Europa, ma dopo questa analisi corretta ci si limita a chiedere l’abolizione del fiscal compact, la ristrutturazione del debito pubblico e la creazione di una Banca Centrale Europea che "risponda ai parlamenti". Seminando così illusioni che le istituzioni, anche quelle presunte democratiche, siano super partes e non funzionali al dominio del capitale. Dell’unica rivendicazione realmente progressista davanti al disastro dell’Europa di Maastricht, cioè quella della lotta per gli Stati socialisti d’Europa e di un conseguente programma politico attraverso il quale concretizzarla, non c’è la minima traccia.
Al contrario si continua a guardare con fiducia (documento di maggioranza) o a criticare timidamente (documento di minoranza), governi come quello di Syriza, che in Grecia è stato lo strumento attraverso il quale la borghesia del vecchio continente ha imposto i suoi diktat al proletariato ellenico.
Si riconoscono ed evidenziano gli squilibri che stanno mettendo in discussione i vecchi rapporti tra le potenze a livello mondiale, affermando (testo di maggioranza) che non esistono campi progressisti né tanto meno socialisti ai quali rifarsi. Ma si liquida, in entrambi i documenti, una situazione di ascesa delle lotte come quella del Brasile (e lo stesso si fa con altre degli ultimi anni) come un golpe ordito dall’occidente ai danni di esperienze di governo “progressiste”.

La Costituzione come limite invalicabile
Per quanto riguarda l’Italia, la assenza di opposizione da parte delle organizzazioni sindacali alle politiche del governo, viene spiegata come un errore, seppure drammatico, ignorando come il ruolo delle burocrazie sindacali sia stato qualcosa di qualitativamente diverso. Quella degli apparati di Cgil e Fiom è stata un’azione cosciente per evitare che anche in Italia, come in Grecia, Spagna e da ultimo Francia, prendesse vita una opposizione di lotta delle masse contro le politiche di austerità. Quello che non si dice nei testi (in particolare in quello maggioritario) è che Camusso e Landini sono stati i garanti non solo della pace sociale, ma della guerra dei padroni contro i lavoratori senza che ci sia stata (almeno fino ad ora), una resistenza adeguata, in cambio della conservazione dei loro privilegi per i loro apparati.
Con queste premesse dunque l’asse fondamentale di riferimento viene identificato nella Costituzione Repubblicana.
Per gli uni, maggioranza ferreriana, sarebbe addirittura alla base di un programma di transizione verso il socialismo. Per gli altri, un compromesso tra capitale e lavoro ma che presenterebbe punti di rottura e incompatibilità col sistema capitalistico. Il fatto che la Costituzione fu lo strumento attraverso il quale si favorì e si sancì la fine del periodo rivoluzionario del 1943/48 e che per settant’anni ha consentito alla borghesia di prosperare per i presentatori dei due documenti resta un fatto ignoto.

Un riformismo senza riformePotremmo fare decine di esempi che comprovano quanto la retorica rivoluzionaria e barricadera di alcune frasi scada poi in un riformismo senza riforme che permea fino nel profondo i due documenti. Ma più dei documenti, delle parole, delle polemiche congressuali, crediamo sia l’azione concreta, quotidiana che confermi quanto i gruppi dirigenti di Rifondazione non vogliano fare realmente un serio bilancio del proprio passato. Il continuare a essere presente, seppur in numero ridotto rispetto al passato, in giunte locali a fianco dei partiti borghesi, prova che l’illusione che il capitalismo possa essere governato nell’interesse dei lavoratori rimane il punto centrale dell’azione di quel partito. Così l'evitare di  affermare la propria indisponibilità a ogni futura alleanza elettorale "progressista" è il viatico a un alleanza col Pd o con Dp di Bersani. Così non partecipare al processo di ricomposizione sindacale su basi genuinamente anti concertative, in cui spicca l'azione del Fronte di Lotta No Austerity, prova che gli appelli all’unità tra i lavoratori sono mere petizioni di principio.   Il voler costruire un partito di tesserati e non di militanti, non dotarsi di un chiaro programma rivoluzionario sono la dimostrazione che i richiami alla attualità della Rivoluzione d’Ottobre non sono sinceri, ma utili solo a fare un’operazione nostalgia per fini elettorali.  
Sappiamo che, nonostante la sua crisi, ancora tanti giovani e lavoratori guardano con interesse alle sorti di Rifondazione Comunista. A queste compagne e compagni va tutto il nostro rispetto perché sappiamo di condividere gli stessi interessi di classe.  Allo stesso tempo ribadiamo che non sarà Rifondazione Comunista l’organizzazione che potrà rappresentare un argine agli attacchi del capitale e dei suoi governi al mondo dei lavoratori:  né col documento di Ferrero né con quello della pur consistente minoranza.        
Ci rivolgiamo dunque a tutte le compagne e compagni di quel partito che come noi credono che la storia non sia finita col crollo del Muro di Berlino,  che credono che il capitalismo non abbia nulla di positivo da offrire all’umanità, invitandoli a fare quel bilancio dl quarto di vita di Rifondazione che non è presente in nessuno dei due documenti congressuali. Per poi prendere atto che bisogna costruire realmente una alternativa di classe comunista e rivoluzionaria al dominio del capitale. In questo lavoro sono impegnati le compagne e i compagni di Alternativa Comunista: consapevoli che le loro solo forze non bastano certo per un progetto tanto ambizioso, che è necessario unire le forze: non a partire dalle idee particolari di questo o quel gruppo, ma sulla base degli elementi essenziali del programma rivoluzionario che vinse cento anni fa, nel 1917: indipendenza di classe dalla borghesia e dai suoi governi, costruzione di un partito radicato nella classe operaia, un partito di lotta (per cui la partecipazione elettorale è solo un elemento secondario per sviluppare propaganda), un partito che cerca di portare nelle lotte quotidiane il socialismo, un partito internazionalista, cioè partecipe da subito della costruzione dell'internazionale rivoluzionaria.
 

venerdì 24 marzo 2017

Sabato scegli l’Europa delle lotte e dei lavoratori contro quella del capitale e delle guerre. Con intervista a Vladimiro Giacchè

 Militant blog collettivo politico comunista.


Domani scenderà in piazza la vera “altra Europa”: quella delle lotte sociali, del conflitto, del lavoro, dei poveri, dei migranti e dei precari. E’ l’Europa popolare e subalterna contrapposta all’Europa delle banche, della finanza, delle guerre, del liberismo, delle nuove schiavitù, dei razzismi. Sembra stanca retorica, eppure mai come domani, in questo ventennio di accelerazione europeista, la contrapposizione assumerà caratteri così spiccatamente simbolici. Nelle sedi istituzionali della città vetrina verrà celebrata la razionalità neoliberale del progetto europeista: capi di Stato e di governo bivaccheranno in un centro anestetizzato della sua popolazione; da Porta San Paolo – origine della Resistenza romana – prenderà forma il rifiuto dell’Unione europea e delle sue intrinseche politiche liberiste. Una manifestazione che segna una rottura anche nella sinistra. La forza materiale dei processi storici impone oggi una critica all’Unione europea. Una critica che, ovviamente, non esaurisce lo spettro delle proposte politiche, ma che al tempo stesso diviene elemento necessario al proprio posizionamento: o con questa Unione europea o contro di essa. Sarà sempre più questo il terreno di scontro dei prossimi anni, e non perché lo decidiamo noi, ma perché questo è imposto alla popolazione europea nel suo insieme: o lo affrontiamo, o i “populismi” saranno destinati a egemonizzare il campo del dissenso politico verso le élite dominanti. Peraltro, il vertice sarà tutto fuorché rituale o meramente celebrativo: verranno invece poste le fondamenta per un salto qualitativo del processo europeista in grado di rispondere alla crisi economica, politica e di consensi di cui è vittima la Ue come istituzione e come narrazione politica. Di seguito, una breve intervista a Vladimiro Giacchè, che aiuta alla comprensione del vertice stesso e di cosa si nasconde dietro le proposte di “difesa comune” e di “doppia velocità” di cui si è tanto parlato in questi mesi. Ci vediamo domani, ore 14.30, da Porta San Paolo: contro Unione europea e liberismo.

D. Le celebrazioni per il 60° anniversario del trattato di Roma, atto costitutivo dell’architettura economica e politica della Ue, sembrano ai più, ormai, non soltanto una stanca e vuota cerimonia ma un momento politico in cui andranno a maturare alcuni passaggi politici significativi. Concordi su questo scenario o lo ritieni un evento solo formale?
R. L’evento in sé potrà senz’altro essere “solo formale”. In fondo oggi qualunque celebrazione dei Trattati di Roma che ambisse ad essere qualcosa di diverso farebbe emergere di necessità le fratture profonde che attraversano l’Unione Europea, la diversità delle diverse agende nazionali e l’insussistenza di quel “sentire comune europeo” che ormai esiste soltanto nella retorica ufficiale. Questo però non toglie che la “Deep Union” continui a procedere, nonostante e contro le opinioni pubbliche dei diversi paesi, in una direzione fortemente voluta dalle tecnocrazie europee e dall’establishment: quella di un’integrazione sempre più inestricabile, e al tempo stesso sempre più antidemocratica. Per avere un’idea di come l’agenda di queste élites sia distante da un orizzonte democratico basterà citare due casi recenti: quello del polacco Tusk (presidente del Consiglio Europeo) e quello di Djisselbloem (presidente dell’Eurogruppo). Nel primo caso il governo polacco ha fatto sapere di essere contrario alla riconferma, ma la riconferma è avvenuta lo stesso; nel secondo caso il partito laburista guidato da Djisselbloem ha perso i tre quarti dei voti alle ultime elezioni olandesi – e ciò nonostante sembra ci sia l’intenzione di riconfermare questo signore (peraltro recentemente autore di frasi razziste all’indirizzo dei paesi del Sud Europa) alla guida dell’Eurogruppo. Non si tratta di episodi di poco conto: in entrambi i casi emerge la totale autoreferenzialità dei politici “prestati all’Europa” nei confronti del proprio elettorato – che poi dovrebbe essere la loro fonte (diretta o meno) di legittimazione. Ma tutto questo avviene nella noncuranza generale, come se fosse la cosa più normale del mondo. Questa è l’Europa che si ha l’impudenza di proporre quale orizzonte di democrazia al resto del mondo (ultimamente anche agli stessi Stati Uniti – impossessandosi parodisticamente dello strumento propagandistico dagli stessi Stati Uniti forgiato e utilizzato durante la Guerra Fredda in funzione antisovietica).
D. Nell’agenda politica della Ue ci sono alcune questioni decisive da sciogliere, dopo le dure batoste subite nell’ultimo anno con la Brexit e la sconfitta referendaria del 4 dicembre scorso in Italia e la caduta di Renzi. Forze centrifughe stanno mettendo a rischio l’assetto interno del comando Ue. Sui banco di prova dei prossimi mesi ci sono due questioni: la prima è la crescente divaricazione tra il gruppo ristretto di paesi del nord Europa, che vede saldamente al comando la Germania, e i paesi del sud la cui condizione è di totale subalternità alle politiche di Francoforte e Bruxelles; dall’altra il tentativo contraddittorio di accelerazione del processo di integrazione militare europea. Quale scenario tendenziale ritieni più probabile al momento su questi due punti dirimenti?
R. I due aspetti sono connessi. Non è infatti un caso che, proprio in un contesto che vede lo spostamento sempre più netto dei rapporti di forza intraeuropei a vantaggio dei paesi del nord e a svantaggio di quelli del sud, si cominci a parlare di un’integrazione maggiore sul piano militare. Non mi sembra difficile vedere nell’accelerazione verso l’esercito europeo anche uno strumento per blindare un’unità europea sempre più lontana nei fondamentali economici e sempre più asimmetrica e squilibrata, oltreché socialmente ingiusta (tra paesi e all’interno dei singoli paesi). Credo che si sbagli nel considerare i tentativi di riarmo integrato europeo esclusivamente nel contesto della accentuata dialettica verso gli Stati Uniti di Trump. Il dato principale è il tentativo di costruire un ulteriore collante di un’Unione sempre più in crisi di identità e sempre più drammaticamente divaricata. Si è detto spesso che l’euro è una moneta senza esercito. Ora si vuole creare un esercito per l’euro. Si tratta di un ulteriore tassello di una politica di integrazione che ormai è ben oltre lo stesso funzionalismo di Robert Schumann: l’integrazione procede attraverso la politica dei fatti compiuti, una politica che tende a mettere in piedi processi irreversibili, tali da resistere contro la stessa volontà dei popoli europei. Questa almeno è l’intenzione: ma al tempo stesso queste operazioni aumentano la rigidità del sistema e quindi lo rendono più esposto al rischio di un crack. Si tratta di un rischio sempre più concreto. La storia è piena di oligarchie che contro la realtà hanno finito per rompersi la testa – e in qualche caso per perderla in senso non solo metaforico.

Giovani Comunisti contro l'UE.

Luciano Granieri




Il Fronte della Gioventù Comunista,  in un’assemblea   organizzata presso la sala consigliare del palazzo della Provincia a Frosinone, ha spiegato la propria  linea politica nei confronti dell’Unione Europea. L’incontro, svoltosi ieri sera, aveva lo scopo di aprire un ampio  dibattito  sulla necessità  di uscire dall’ UE. Il tavolo dei  relatori, invitati da Gianluca Evangelisti del Fronte della Gioventù Comunista di Frosinone, era composto da Tiziano Censi, responsabile regionale della formazione giovanile comunista, già candidato Presidente del VII Municipio all'Assemblea capitolina per il Partito Comunista, Fabio Massimo Vernillo componente del comitato centrale del Partito Comunista. 

Al saluto di  Gino Rossi, portavoce di disoccupati ex VDC costituiti  nel movimento “Vertenza Frusinte”  - riuniti  in assemblea permanente per rivendicare oltre che il posto di lavoro, il prolungamento degli ammortizzatori sociali - è seguito l’intervento di Tiziano Censi.   La relazione del giovane dirigente comunista è stata lucida  e rigorosa. Ha inquadrato perfettamente la situazione, svelando ciò che si nasconde dietro la menzogna dell’Europa dei Popoli. Un  enorme terreno predatorio   in cui i grandi monopoli e le  lobby speculativo-finanziarie, mietono le loro vittime fra i lavoratori e gli studenti, depredando ulteriormente quel popolo del 99% di sfruttati che possiede una ricchezza pari al restante 1% di super ricchi.  

Censi  ha spiegato come la burocrazia di Bruxelles sia manovrata direttamente da queste mega entità economiche, le quali,  possiedono parte dei  loro uffici vicino ai palazzi delle Istituzioni Europee. Ciò al fine  di indirizzare, controllare e condizionare, per il proprio profitto,  le politiche riguardanti  tutti i cittadini. Politiche che incidono quotidianamente sulla carne viva delle persone non solo del vecchio continente ma di tutto il mondo globalizzato. Il jobs act rientra nella logica, imposta dall’UE tesa a rendere il lavoro una variabile da sacrificare sull’altare della competitività. Come non rilevare che l’abolizione dell’art.18 rende i lavoratori schiavi, destinati ad accettare ogni sopruso pur di non essere licenziati. Stesso dicasi per la Buona, si fa per dire, Scuola, altro mostro  renziano emanazione diretta dei diktat europei, dove l’alternanza scuola-lavoro non produce altro che mano d’opera gratuita per le grandi multinazionali, Mc Donald’s in primis. 

L’analisi è stata condivisa dall’altro relatore, Fabio Massimo Vernillo, il quale ha messo in risalto  che nessun correttivo è possibile per un’ Unità Europea concepita in funzione del pieno sviluppo capitalista e liberista. L’unica alternativa è rigettare questo disegno e ripensare le dinamiche dei rapporti sociali e politici mondiali nell’ottica di un’organizzazione in cui il potere sia nelle mani dei lavoratori e di coloro che oggi sono sfruttati. Per fa ciò, ha aggiunto Vernillo, è necessario  riorganizzare   una  stretta collaborazione e condivisione fra studenti e lavoratori. Un sodalizio che fra gli anni e ’60 e ’70, grazie alle grandi lotte ingaggiate sui temi dei diritti sociali, era riuscito ad ottenere   importanti conquiste sui diritti  del lavoro, sulla sanità e  sull’istruzione pubblica. 

Il dibattito è proseguito con interventi e domande. Un ragazzo di chiara estrazione riformista, ha riproposto  la  tesi mainstream basata su un’Unità Europea, sicuramente  da correggere, ma  indispensabile a  combattere le derive antidemocratiche dei cosiddetti populismi, e  necessaria a difendersi in modo più incisivo dal terrorismo. Evidentemente le basi di questo ragionamento non contemplano le ragioni liberiste su cui è stata pensata un’unione che è solo economica. Marina Navarra, dirigente provinciale di Rifondazione Comunista, portando il saluto del segretario, Paolo Ceccano,  e dei militanti,  ha condiviso le posizione del Fronte della Gioventù Comunista. Temi compresi anche nella seconda mozione, da lei votata,  presentata al congresso nazionale di Rifondazione. Un documento  nel  quale si auspica la rottura con questo modello di Unità Europea. Una visione  che si differenza da quanto espresso nella prima mozione, quella maggioritaria, favorevole ad ampi correttivi in senso politico e sociale delle dinamiche europee, piuttosto che  il  rifiuto  del processo unitario. 

Un ragazzo ha posto il problema di come attuare azioni più immediate contro le derive liberiste, considerando il processo di  percezione e condivisione della natura anticapitalista dell’UE lungo e complicato. Un tema che ha ripreso anche il sottoscritto suggerendo come, un’ uscita dall’euro, la conseguente nazionalizzazione delle banche, il rifiuto da parte dei Paesi del sud Europa di pagare il debito, il rigetto del  fiscal compact, possano costituire prime azioni di sabotaggio al vorace ingranaggio capitalistico-finanziario.  

Al di la delle posizioni emerse,  e delle varie appartenenze, è scaturita  la volontà di costruire una casa comune su questi temi. Una costruzione in cui, partendo dalla condivisione del rifiuto di un’ Unione liberista,  si  avvii  un percorso condiviso  per l’ottenimento di una comunità   internazionale anticapitalista e liberista.  

In termini numerici, la partecipazione si è rivelata  in linea con tutte le iniziative politiche che di solito si tengono nel Capoluogo, una città, assolutamente dormiente sulle questioni sociali e politiche. Un fatto nuovo è però emerso: l’età media dei partecipanti abbondantemente al di sotto dei  venticinque anni. Se non avesse partecipato, oltre al sottoscritto, Marina Navarra ,Fabio Massimo Vernillo,  militanti sulla cinquantina, l’età media avrebbe potuto essere anche più bassa. Pure  gli inviati del quotidiano “l’Inchiesta” di Frosinone, Luca Claretti e Matteo Ferazzoli, sono ragazzi, giovani e pieni di speranze rivoluzionarie (è una mia valutazione non  me ne vogliano Matteo e Luca). 

Dunque non è vero che la passione politica non si addice al mondo giovanile. E’ una pericolosa e ingiusta semplificazione considerare i giovani una massa  disinteressata e nichilista. Il dibattito di ieri dimostra come  importante sia la militanza di  ragazze e ragazzi consapevoli, informati , e combattivi. E’ una presenza che lascia ben sperare in un futuro dove la lotta sociale potrà avere un’importante evoluzione . Sta però a noi, vecchi militanti , fare un passo indietro, lasciare che questa nuova generazione possa trovare un suo spazio importante, predominante. 

Forse uno dei tanti errori compiuti  è stato proprio quello di soffocare, in virtù di un protagonismo comune a molti di noi, il sottoscritto in primis, l’affacciarsi di nuovi soggetti. Non si tratta di passare la mano e ritirarsi in buon ordine, ma è necessario mettere a diposizione la nostra esperienza con il suo portato di sconfitte e vittorie, alle  forze giovani che si stanno affacciando nel panorama politico, e aprire con loro un nuovo capitolo  di lotta decisamente più incisivo.




mercoledì 22 marzo 2017

Quella sera che Miles fu aggredito dalla polizia.

Luciano Granieri



Continuiamo a stupirci per i provvedimenti razzisti adottati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, tale stupore segue allo sbigottimento provocato dall’elezione stessa di Trump, giudicato dai più, inadatto alla presidenza della più grande potenza mondiale. In realtà non c’è  nulla da stupirsi perché l’America che ha scelto Trump ha una tradizione razzista secolare. In  un quadro di nichilismo e sfiducia, determinato dalla delusione per le politiche sociali promesse da Obama, solo parzialmente realizzate, e dal fallimento generale del partito democratico  , la scelta di Trump era nelle cose. 

L’aspetto profondamente reazionario, classista e razzista americano emerge con forza nella  storia della musica jazz.  La discriminazione non riguarda solo il colore della pelle, ma anche la disponibilità economica, il credo politico. Il  jazzista nero povero, e magari comunista,  era l’icona del nemico numero uno per la società statunitense. Talmente radicato era l’odio della società ortodossa americana per i neri, che gli strali razzisti colpirono anche colui il quale, senza tema di smentita, è da considerarsi uno dei più famosi, se non il più famoso, jazzista del mondo, Miles Davis. 

Miles proveniva da una famiglia borghese, il padre era un dentista. A differenza di altri musicisti della sua età, che faticavano a sbarcare il lunario, Davis percepiva  dai genitori  una somma mensile che gli consentì dal ’45 al ‘47  di vivere a New York, comodamente nonostante la sporadicità dei primi ingaggi. Egli  non aveva particolari propensione alla rivendicazione politica, se non l’atteggiamento supponente ed irridente verso il pubblico, retaggio ereditato dalle esibizioni sostenute  affianco dei boppers. Un artista , dunque,  dotato di tutte  quelle caratteristiche indispensabili per  essere accettato dalla società borghese americana, tranne il colore della pelle. 

Probabilmente fu il primo jazzista  la cui notorietà travalicò l’ambito musicale. Nel 1958 la rivista Time pubblicò un servizio dedicato alla sua carriera. Life International lo inserì in un elenco di quattordici  personalità di colore che avevano “recato un significativo contributo nel campo   della scienza, della legge,  degli affari, dello sport, del divertimento, dell’arte, della letteratura, del mantenimento della pace fra gli uomini”. Nel marzo del 1959, Esquire, una sofisticata rivista dedicata ad una platea  d’èlite,  pubblicò un lungo articolo su di lui a firma di Nat Hentoff. Il suo sestetto era il più richiesto ed il più pagato. Miles era diventato una vera star, paragonabile alle più grandi stelle del rock. La gente lo venerava, quando suonava Miles non si andava ad un concerto di jazz ma  ad un concerto di Miles Davis. Il trombettista di Alton poteva permettersi vestiti firmati e girare in Ferrari. 

Nonostante ciò la furia razzista della polizia americana si abbattè anche su di lui. Nell’agosto del 1959  era di scena con il suo sestetto al Birdland a Brodway. Era una serata afosa e durante una pausa dell’esibizione accompagnò una ragazza fuori dal locale per chiamale un taxi. Disgraziatamente per lui la ragazza era bianca e un nero che accompagnava  una bianca, per la polizia, era un fatto poco ortodosso. Il taxi fece accomodare  la passeggera e Miles rimase fuori dal locale a prendere una boccata d’aria. Un poliziotto di ronda lo avvicinò minaccioso gli intimò di andarsene: “Lavoro qui” replicò Miles aggiungendo  che voleva semplicemente prendere un po’ di fresco e presto sarebbe tornato nel locale. Il poliziotto, non credendo a ciò   che il presuntuoso negro gli stava dicendo,   domandò a Miles se si riteneva “un tipo intelligente” e insistette: “se non ti muovi ti caccio dentro”. “Avanti cacciami dentro” fu la risposta di Miles. 

Mentre i due stavano discutendo un secondo poliziotto  piombò alle spalle di Davis e iniziò a picchiarlo selvaggiamente alla testa con il manganello. Coperto di sangue Miles fu portato in prigione e gli venne sequestrata la tessera temporanea di lavoro. A New York non si poteva lavorare senza quella tessera. Una piccola folla aveva assistito alla scena arrivando a bloccare il traffico. Più tardi la gente si raccolse davanti al 54mo distretto dove era stato condotto l’arrestato. Miles fu rilasciato il giorno dopo dietro il pagamento di una cauzione di mille dollari. Le contusioni gli costarono cinque punti di sutura in testa. “Mi hanno picchiato come un tamburo” osservò. Un testimone oculare commentò: “E’ stata la più orribile e brutale scena che mai mi sia capitanato di vedere. La gente gridava al poliziotto di non ammazzare Miles”. 

L’incidente ebbe vasta eco sulla stampa newyorkese ovunque si lessero commenti indignati e si dimostrò grande simpatia per il trombettista. L’Amsterdam News, diffusissimo giornale della comunità nera, diede risalto alla vicenda osservando che Davis aveva subito una violenza di “stampo sudista”. Miles fu accusato di condotta turbolenta e di aggressione. I due poliziotti sostennero che era stato lui  a fare la prima mossa violenta: “Davis aveva impugnato un bastone e si accingeva ad aggredire  il mio collega, per quello sono stato costretto a colpirlo sulla testa ” fu la versione del secondo poliziotto. Miles si difese dicendo di aver cercato di proteggere la sua bocca dalle percosse per non riportare danni alle labbra  e quel movimento forse aveva dato l’impressione che egli volesse prendere un bastone. 

A seguito di un telegramma inviato dalla sezione 802 della Federazione musicisti d’America al commissariato di polizia, nel quale si chiedeva un’indagine esauriente, a Miles Davis fu restituita la tessera del lavoro. Solo nell'ottobre  del 1960 Miles Davis fu scagionato  dall’accusa di aver tenuto un comportamento turbolento, ma rimase imputato del  reato di aggressione. Qualche tempo dopo cadde anche quest’ultima imputazione. Emblematiche la parole del giudice che emise la sentenza: “Sarebbe una falsa giustizia quella che considerasse la vittima di un arresto illegale colpevole di aggressione nei confronti di chi procede all’arresto”. 

Questo aneddoto, dalla notevole rilevanza perché capitato ad uno dei più famosi musicisti d’America e mondiale, dimostra che la violenza verso i neri e l’odioso humus razzista, non ha mai abbandonato buona parte della società americana. Con l’avvento di Trump la lotta per i diritti civili diventa più difficile e aspra. Speriamo che movimenti come “black lives matter”, grazie all’appoggio di altre organizzazioni sociali  e   di una consistente parte di società  non imbarbarita possano continuare la loro battaglia per una convivenza più civile non solo in America ma in tutto il mondo. E’ una lotta difficile e dura perché combatte un pregiudizio, ma non continuare a lottare anche con l’aiuto dei musicisti e del mondo della cultura sarebbe delittuoso.

Good vibrations.

APPELLO per manifestare il 25 marzo contro il vertice romano per i 60 anni della UE.

Rilanciamo l’appello della Piattaforma Sociale Eurostop, a cui abbiamo aderito, invitando tutti alla massima partecipazione alla manifestazione nazionale indetta per il 25 marzo 2017 a Roma. Appuntamento h. 14.00 a Porta San Paolo.
Per dire NO all’UE, all’euro e alla NATO

                            Associazione
                     Scintilla Onlus


Il prossimo 25 Marzo verranno "festeggiati" al Campidoglio i 6o anni dalla firma del "Patto di Roma" del '57, con la partecipazione di 28 capi di Stato, che ha dato vita al processo che ha condotto nel tempo alla nascita della Unione Europea. In realtà questa non è affatto una ricorrenza da festeggiare in quanto la nascita della UE e l'introduzione dell'euro come moneta continentale hanno prodotto:
  • Un peggioramento netto e diffuso delle condizioni di reddito e di vita dei lavoratori, dei settori popolari e dei ceti medi spesso portati a livelli di povertà, soprattutto nei paesi dell'Europa meridionale.
  • Una restrizione degli spazi di democrazia con l'applicazione di trattati che centralizzano le decisioni economiche e politiche più rilevanti riducendo la sovranità dei popoli europei. La riforma costituzionale proposta da Renzi, sottoposta a referendum e bocciata dagli italiani andava esattamente in questa direzione.
  • Un interventismo militare che ha moltiplicato i conflitti dall'Ucraina fino alla sponda sud del Mediterraneo, in particolare in Siria e Libia, ed amplificato le drammatiche migrazioni dei popoli coinvolti dalle guerre.
 
Questi sono gli effetti di una costruzione istituzionale che oggi si sta dimostrando per di più incapace di fare i conti con una profonda crisi economica e sociale dimostrando l'inadeguatezza delle classi dirigenti del continente.
Tutto ciò avviene in un clima di crescente competizione economica e militare internazionale che oggi viene sostenuta dalla presidenza Trump negli USA, che si impegna nel riarmo nucleare, alla quale l'UE risponde da un rinnovato protagonismo anche militare, come è stato rivendicato nella 53ma edizione della Conferenza sulla Sicurezza tenutasi in Germania dall'Alto Rappresentante per la sicurezza Federica Mogherini.
Per questo pensiamo che il 25 Marzo non sia una giornata di festa ma deve divenire una giornata di lotta e mobilitazione contro il vertice che si terrà nella città di Roma.
Per questo il 25 marzo manifesteremo a Roma per ribadire il nostro NO sociale a Euro, UE e NATO, per la democrazia e i diritti sociali.
Primi firmatari:
Piattaforma Sociale Eurostop, USB, UNICOBAS, Movimento No TAV Val di Susa, Forum Diritti Lavoro, Contropiano, Carovana delle periferie Roma, Noi Restiamo, Militant Roma, Centro Sociale 28 Maggio Brescia, Rossa, Rete dei Comunisti, Partito Comunista Italiano, FGCI, Circolo Agorà Pisa, Fronte Popolare, P101, Economia Per I Cittadini, Collettivo Genova City Strike, Piattaforma Comunista, Scintilla Onlus,  Collettivo Putilov, Collettivo Politico Porco Rosso (Siena), Movimento "Noi mediterranei", Confederazione per la Liberazione Nazionale,  Collettivo Comunista (marxista-leninista) Nuoro, CS Corto Circuito, CS Spartaco, Circolo ARCI "Best" Osimo (AN), Circolo Prc "Dolores Ibarruri"-Valdelsa fiorentina, Rete No War Roma, Lista No Nato, Circolo Vegetariano Calcata, Cobas Siena, La Comune di Bagnaia, Rivista "valori" Basilicata, Laboratorio Comunista Casamatta Napoli, ALP CUB Pinerolo.
 
Nicoletta Dosio, Umberto Lorenzoni (partigiano Eros), Valerio Evangelisti, Dino Greco, Franco Russo, Giorgio Cremaschi, Eleonora Forenza, Mario Agostinelli, Angelo Ruggeri, Aboubakar Soumahoro, Fabrizio Tomaselli, Luciano Vasapollo, Carlo Formenti, Ernesto Screpanti, Ugo Boghetta, Sergio Cararo, Manuela Palermi, Mauro Casadio, Paolo Leonardi, Emiddia Papi, Paola Palmieri, Guido Lutrario, Carlo Guglielmi, Moreno Pasquinelli, Stefano d’Errico, Bruno Steri, Walter Tucci, Francesco della Croce, Stefano Zai, Francesco Piccioni, Ferdinando Imposimato, Mimmo Porcaro, Luigi di Giacomo, Ezio Gallori, Claudia Candeloro, Sergio Cesaratto, Giovanni Bacciardi, Massimo Grandi, Simone Grecu, Nico Vox, Beppe De Santis,   Giuseppe Aragno,  Alfonso Gambardella, Nello De Bellis Maurizio del Grippo e Francesco Maggio, Angela Matteucci, Paolo Loconte, Roberto Garaffa, Salvatore Mannina, Renzo Scalia, Vito Matranga, Gaetano Santoro, Giuseppe Di Martino, Giuseppe Lo Verde,Guido Sorge, Fabio Giovannini, Cataldo Godano, Pietro Attinasi, Giuseppe Rampulla,  Simone Gimona,  Sandro Targetti, Edoardo Biancalana, Carlo Candi, Maria Grazia Da Costa, Matteo Bortolon, Leonardo Mazzei, Nicola Andriola, Chiara Pollio, Marco Nebuloni, Nicolò Martinelli, Adele D'Anna,  Fabrizio Poggi,

martedì 21 marzo 2017

L'Unità europea. Un'utopia disonesta.

Luciano Granieri.


Invito tutti a partecipare all'evento organizzato dal fronte della gioventù comunista sul futuro fuori dall'UE. L'incontro si terrà giovedì 23 marzo alle ore 16,00 presso il palazzo della Provincia.



Di seguito qualche mia riflessione sull'argomento.


"Serve più Europa contro i populismi". Questa la litania che sentiamo recitare , un giorno si e l’altro pure, dalle forze riformiste e liberali che governano le Nazioni e le  Istituzioni Europee. Come si esplica il plus di Europa auspicato? "Meno burocrazia e più libertà" continuano  a ripetere l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi e i suoi sodali. Dove la burocrazia è identificata nel giogo dell’austerity e la libertà corrisponde  ad un avvicinamento ai concetti espressi da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann nel manifesto di Ventotene. In verità non so se Renzi volesse intendere proprio questo o  se, dietro  l’efficace slogan “meno burocrazia e più libertà”, rimanga il vuoto di una profonda ignoranza, ma ciò non ha alcuna rilevanza per il prosieguo del discorso. 

E’ un fatto che quell’Europa prefigurata dal documento,  redatto nel 1941 presso l’isola antistante le coste pontine, è  pura utopia. Ignoro  se Spinelli e i suoi compagni ne avessero avuto  una vaga percezione, penso che il loro progetto sia stato pensato in assoluta buona fede. Però è impossibile non constatare come gli Stati Uniti d’Europa,  un largo stato federale con una Costituzione ed un  ordine comuni , in un regime capitalistico, sia  impossibile. 

Lo capì già nel 1915 Lenin  quando affermò:  Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, ossia dell'esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali "progredite" e "civili", gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari.” Infatti l’unico elemento oggi realizzato  di quell’ordine comune prefigurato da Spinelli è la moneta unica. Cioè l’ultima delle cose necessarie. Nell’ottica dell’Europa libera e unita descritta nel manifesto di Ventotene, molto prima della moneta si sarebbe dovuto realizzare, una comune legislazione a  difesa dei diritti dei lavoratori con salari  e tutele comuni a tutti i Paesi, un’armonizzazione fiscale, dove i regimi tributari fossero omogenei per ogni Regione dell’Unione, la costituzione di un   fondo di solidarietà dove gli Stati, in momentanea difficoltà economica avrebbero potuto  attingere, per assicurare la sopravvivenza dei propri  cittadini. 

Si tratta di principi solidaristici lontani anni luce dalla concezione predatoria del capitale. Perché il solo elemento comune dell’Unione europea di oggi è   la moneta? Per una ragione tutta economia e  cioè, spostare la base fondante della  competitività commerciale e finanziaria  dalla svalutazione monetaria alla svalutazione della dignità umana. La competitività è un obbiettivo tutto capitalistico. Realizzarlo  attraverso la svalutazione dei salari e dei diritti dei lavoratori - grazie alla possibilità di trasferire mano d’opera in  Paesi dove il lavoro è ridotto a forma di schiavismo  - oppure consentendo ai grandi capitali di allocarsi in quelle Nazioni in cui il regime fiscale è più favorevole,  determina una feroce dinamica di depredazione del proletariato o, se si vuole usare un espressione più moderna, di quel 99% della popolazione che tutta insieme non raggiunge la ricchezza del rimanente 1%. 

Non a caso, a parte la Carta dei Diritti Fondamentali , documento mai applicato, il cosiddetto processo di unificazione si è sviluppato attraverso accordi economici. Il trattato di cui si festeggia il sessantesimo il 25 marzo  prossimo a Roma sancisce un’ unità economica. Parlare di unità europea è assolutamente fuori luogo. Ciò che di comune  si è realizzato fino ad oggi  è l’area dell’euro.  Uno  smisurato fronte commerciale-speculativo arricchito dal   debito degli Stati più poveri . Un mega  territorio  dove la libera circolazione dei capitali e della forza lavoro, produce l’ulteriore impoverimento del 99% rispetto all’1%. Alla luce di ciò si può definire  l’idea dell’Europa Unita come  un’utopia disonesta tesa a nascondere,  dietro la costruzione ideale di una luogo comunitario foriero di pace  e prosperità,  una delle più odiose operazioni speculative e predatorie che il capitale abbia mai concepito. 

Viene  da sorridere quando quelli come noi vengono accusati di essere inguaribili utopisti. Noi che crediamo alla dittatura del 99% sull’1% , perché la storia ci rimanda a periodi in cui ciò si stava realizzando,   dalla Repubblica Romana nel 1849, alla Comune di  Parigi del 1871, dalla Rivoluzione Russa del 1917 , alla stagione della democrazia partecipativa di Porto Alegre  nel 2001.  Ci riferiamo ad utopie oneste, perché avrebbero potuto concretizzarsi, a differenza dell’unità Europea. Talmente reali si dimostrarono tali  utopie da costringere l’establishment borghese capitalistico  a reprimerle nel sangue, prima che  potessero  diffondersi in tutto il mondo.  

E' più realistico, quindi, pensare che l’adozione e l’internazionalizzazione  dell’insegnamento  dei comunardi, dei soviet,   del movimento dei movimenti, sia ancora possibile, piuttosto che credere nella fandonia dell’Europa sociale  dei popoli, il velo ipocrita che nasconde l’Europa della finanza e delle banche. 

Dunque che fare? Intanto cominciamo a togliere dalle mani del capitalismo predatorio la potente arma della moneta unica, poi lavoriamo affinchè si possa realizzare una nuova rivoluzione socialista. E che questa possa estendersi a tutta l’Europa e a tutto il mondo. E’ un’utopia?  Forse, ma almeno è un’utopia onesta.

Viva la Comune di Parigi, primo governo Operaio.

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del
Proletariato d’Italia


Per quale motivo noi proletari rivoluzionari che rivolgiamo lo sguardo al futuro nutriamo un così grande interesse per un avvenimento della seconda metà dell’800, a mala pena citato nei libri di storia? Cosa c'è nella vicenda della Comune di Parigi, durata appena due mesi, che ci spinge oggi – a 146 anni da quell’evento e a un secolo dalla Rivoluzione Socialista d’Ottobre – a studiarla con il più grande interesse, ad afferrarne il significato, a fare nostra la sua lezione e le sue "vecchie verità"? Per dare una risposta, seppure parziale, a queste domande e comprendere l'importanza storica e politica della Comune dobbiamo ripercorrere brevemente gli avvenimenti, soprattutto a beneficio dei giovani proletari e di tutti quei lavoratori sfruttati che non hanno avuto finora la possibilità di conoscerli.

Lo sfondo storico. Nella seconda metà dell'ottocento il nazionalismo autoritario francese, che rifletteva le ambizioni della borghesia arricchitasi a spese degli operai e il parassitismo della corte imperiale, aveva spinto il popolo in una serie di guerre per estendere i confini della Francia. Cominciò una sanguinosa guerra con la Prussia, governata da Bismark, potenza europea in ascesa che doveva ancora completare la sua unificazione nazionale e che vedeva nella Francia l'ostacolo ai suoi progetti. Il 2 settembre 1870 l'imperatore Napoleone III, sconfitto nella battaglia di Sedan, si arrese ai prussiani. Due giorni dopo i repubblicani di Parigi con una rivoluzione incruenta decretarono la fine dell'impero e proclamarono la nascita della Terza Repubblica. Sotto la guida di un governo provvisorio resistettero al nemico sino al gennaio del 1871, quando la capitale fu costretta a capitolare dopo un assedio di quattro mesi. I parigini avevano resistito combattendo con un corpo di volontari armati, la Guardia Nazionale, in cui gli operai erano in maggioranza. Nelle elezioni del febbraio '71 vinsero i conservatori eleggendo Adolphe Thiers, tipico rappresentante della Francia moderata, che voleva riappacificarsi con la Prussia accettando le durissime condizioni di Bismark (che prevedevano l'ingresso delle truppe tedesche nella capitale). La borghesia però non aveva fatto i conti con gli operai che non volevano farsi mettere il piede sul collo, considerandosi solo in stato di armistizio con i prussiani. Dopo il crollo dell'impero e la resa alla Prussia di Bismark, la Guardia Nazionale infatti aveva conservato il suo armamento ed eletto un Comitato centrale. Lo scontro fra Parigi rivoluzionaria e patriottica e la borghesia conservatrice e traditrice era inevitabile. La rottura definitiva con Thiers si ebbe quando il governo, che aveva sede a Versailles, pretese la consegna delle armi e, in particolare, dei cannoni installati sull'altura di Montmartre. Nel marzo del 1871, mentre il governo di Thiers stava ancora negoziando una pace ingiusta con Bismark, gli operai parigini, che avevano acquistato una determinazione e una autonomia politica assai più elevata che nel passato, insorsero. Ponendosi alla testa degli altri strati popolari dettero l' assalto al potere borghese prendendo nelle loro mani il potere politico. Il 18 marzo 1871 la bandiera rossa sventolava sull’Hotel de Ville, sede del Comitato centrale della Guardia Repubblicana. E’ l’inizio simbolico della Comune di Parigi, primo governo operaio, che nel giro di poche settimane concretizzò il più radicale e avanzato esperimento di democrazia rivoluzionaria fino ad allora realizzato, un atto di sfida all'ordine politico e sociale della borghesia che dominava incontrastata in Europa. Composizione di classe e programma. Da chi era composta la Comune? Il movimento parigino era composto quasi esclusivamente di operai o di rappresentanti degli operai e degli strati popolari più poveri. Gli abitanti dei quartieri ricchi avevano infatti abbandonato i “quartieri bene" della capitale. Il Consiglio della Comune era un governo composto di semplici operai, piccoli impiegati e artigiani, i “diseredati” come si definivano, assolutamente sconosciuti ai più. Non c'erano personaggi famosi, professionisti affermati, imprenditori, alti ufficiali, politici di professione. Erano cittadini che non si subordinavano alla volontà dei capitalisti, dei preti, dei ricchi ma obbedivano soltanto alla volontà del popolo, e lavoravano per affermare gli obiettivi decisi dalle masse. I suoi membri appartenevano a diverse correnti politiche. La maggioranza era costituita seguaci del rivoluzionario Louis-Auguste Blanqui, socialisti più per istinto di classe che per coscienza scientifica. La minoranza era invece composta prevalentemente da seguaci di Pierre-Joseph Proudhon, membri della sezione francese dell'Associazione internazionale dei lavoratori. Altri erano giacobini, altri erano ancora erano rivoluzionari indipendenti, o radicali. La Comune non fu un organismo di tipo parlamentare come quelli che siamo abituati a vedere negli stati borghesi. Essa riuniva in se l' aspetto legislativo e quello esecutivo.

Il programma. Nei suoi primi giorni di vita la Comune propose misure a beneficio dei lavoratori e votò provvedimenti quali:
· l'abolizione dell'arruolamento obbligatorio e dell'esercito permanente e la sua sostituzione con una struttura armata popolare, la Guardia Nazionale, composta da tutti i cittadini abili alle armi;
· l'elezione per tutti gli impieghi amministrativi, giudiziari, educativi con suffragio generale degli interessati e diritto permanente di revoca;
· la retribuzione di tutti gli incaricati di un servizio pubblico con uno stipendio non superiore al salario di un operaio qualificato;
· la completa separazione della Chiesa dallo stato, l'abolizione dei versamenti statali a scopi religiosi, l'esproprio di tutti i beni ecclesiastici e la proibizione di crocefissi, preghiere e immagini sacre nelle scuole;
· la collettivizzazione delle fabbriche abbandonate dai padroni, che dovevano essere riunite in società cooperative;
· l'occupazione degli appartamenti liberi, la sospensione delle sentenze di sfratto e morosità ed il condono di tutti gli affitti dall'ottobre 1870 fino all'aprile 1871, stabilendo che quelli già pagati valevano come acconto per il futuro;
· la radicale riforma dell'insegnamento, che prevedeva l'istituzione dell'istruzione gratuita, laica ed obbligatoria e la diffusione di scuole femminili e professionali;
· l'abolizione del lavoro notturno dei fornai, l' abolizione delle multe e delle riduzioni dei salari;
· l'abolizione dei "caporali" dell'epoca, cioè di sensali nominati dalla polizia che effettuavano la registrazione degli operai e li sfruttavano;
· la rimessa ai depositanti di tutti gli oggetti del Monte di Pietà che non avessero un valore superiore ai 25 franchi e la sospensione delle vendite;
· l'abolizione del giuramento politico e professionale.
Questi provvedimenti, che avevano un chiaro carattere di classe e mantengono per molti aspetti una straordinaria attualità, furono adottati in poche settimane e per giunta in una città assediata da due eserciti. Ad essi si aggiunsero altri decreti concernenti i servizi pubblici, l'approvvigionamento di Parigi assediata, le ambulanze, l'assistenza pubblica, la direzione dei musei e della biblioteca. La Comune fu volta verso l'emancipazione completa delle donne che ebbero un ruolo molto importante in quel periodo di lotta. Fu tra l' altro soppressa ogni distinzione tra figli legittimi e naturali, tra sposati e conviventi. La Comune prese anche iniziative simboliche come l'incendio della ghigliottina sotto la statua di Voltaire, la distruzione della cappella costruita a "riparazione" dell’esecuzione di Luigi XV, la conferma di tutti gli stranieri eletti nelle loro cariche, per sottolineare il carattere internazionalista della insurrezione. Fu deciso l'abbattimento della colonna Vendome, costruita con il bronzo fuso dei cannoni di Napoleone, simbolo dello sciovinismo e della istigazione all'odio fra i popoli. Certo, la Comune non fu che un inizio, poiché mancò il tempo per il suo sviluppo. Ma che inizio! Ancora oggi il suo esempio positivo ci indica quali devono essere i caratteri dello stato e del programma operaio, quali enormi potenzialità ha il proletariato nel momento in cui crea un potere nuovo, diverso e superiore rispetto al corrotto potere borghese.

La repressione. Di fronte al primo "assalto al cielo" degli sfruttati, la classe dominante, terrorizzata da tanta consapevolezza e volontà di lotta preparò e attuò la sua vendetta, per infliggere una punizione furiosa e crudele a chi aveva osato levarsi in piedi contro il suo potere con obiettivi e rivendicazioni indipendenti. Per prima cosa Il governo Thiers ottenne dal vecchio nemico Bismark la restituzione dei prigionieri di guerra e li riorganizzò in vista della repressione, procurandosi di poter passare sul territorio controllato dai prussiani. Per sei settimane, a partire dal 2 aprile, Parigi fu bombardata dalle forze borghesi che fino a poco prima avevano strepitato contro la profanazione della città. Le sue difese furono piegate all'inizio di maggio. Alla fine del mese di maggio, decine di migliaia di soldati comandati dal generale Mac Mahon, gli stessi che si erano arresi ai nemici prussiani, sferrarono un attacco decisivo contro Parigi e in una settimana (21 - 28 maggio), ricordata come la "Settimana di sangue", riuscirono a sconfiggere i comunardi. Nonostante la disparità delle forze, la Comune fu difesa strada per strada, barricata per barricata. Gli eroici difensori della Comune risposero finché poterono colpo su colpo. Indietreggiando incendiarono il palazzo delle Tuileries e l'Hòtel de Ville, uccidendo gli ostaggi che più rappresentavano il potere conservatore e repressore. La controrivoluzione borghese fu spietata, anche dopo la caduta delle ultime resistenze. I versagliesi compirono un vergognoso massacro, fucilando chiunque avessero catturato, compresi donne e bambini, compiendo innumerevoli esecuzioni sommarie (circa trentamila persone vennero passate per le armi senza alcun processo). Al cimitero di Père-Lachaise circa 5000 persone furono mitragliate in un sol giorno. Diverse decine di migliaia furono i condannati e i deportati ai lavori forzati, molti dei quali poi vennero assassinati. Parigi perse almeno centomila suoi figli, tra i quali i migliori operai. Bisogna notare che dopo questa esperienza la città fu sventrata con interventi urbanistici radicali: strade larghe per rendere difficile il blocco con barricate. Tutte le altre metropoli europee adottarono in seguito simili "accorgimenti" utili alla borghesia per difendere militarmente il suo potere. La chiesa, da parte sua, costruì la cattedrale del Sacro Cuore per celebrare l'assassinio di quei "criminali che opprimevano Parigi". La repressione sanguinaria contro la Comune mostrò la volontà della borghesia (che si ricompattò nell'occasione in unico fronte internazionale) di dare un colpo definitivo al movimento rivoluzionario del proletariato. Mostrò di quali nefandezze, di quale violenza reazionaria è capace la classe dominante quando il proletariato mette in pratica i suoi diritti e le sue aspirazioni. La semplice esistenza di un governo proletario, sia pure in una sola città, ricordava a tutti gli sfruttati che il regime ingiusto ed oppressivo del capitalismo poteva essere abbattuto, che i lavoratori potevano essere i padroni della società, facendo a meno della borghesia.


I limiti della Comune. Purtroppo nel 1871 il proletariato commise il grave errore di lasciare alla borghesia l'iniziativa, rinchiudendosi entro i confini di una sola città, Parigi. Certamente i comunardi speravano che il loro esempio fosse imitato dalle altre città francesi. Ma gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni di Francia, affinché si associassero alla capitale in una libera federazione, caddero nel vuoto. A Lione, a Marsiglia, a Tolosa i tentativi furono repressi. Non fu possibile andare più in là con i soli appelli a causa della situazione oggettiva che c'era nella Francia di allora, occupata da truppe straniere e sottoposta alla egemonia dei moderati. Due mesi di tempo allora furono necessari alla borghesia francese per riorganizzare le sue forze e procedere alla controrivoluzione, sotto la sguardo compiaciuto dei rivali tedeschi che ovviamente lasciarono mano libera a Thiers, preoccupati del fatto che anche in casa loro gli operai avrebbero potuto seguire l'esempio. Come sarebbe stato possibile ribaltare le sorti della rivoluzione? In un solo modo. Non accontentandosi della vittoria a Parigi e passando subito all'offensiva, cioè puntando decisamente su Versailles, scatenando quella guerra civile che Thiers aveva nei fatti già cominciato; perseguendo tenacemente nel vivo dello scontro un’alleanza, sotto la direzione del proletariato urbano, con la massa dei contadini oppressi dal capitalismo (erano circa i due terzi della popolazione) sulla base un programma rivoluzionario che li liberasse dal peso delle ipoteche, delle imposte, dell'usura. Altro grave errore delle Comune fu quello di non impadronirsi delle riserve monetarie, i tre miliardi della Banca di Francia. Si lasciò così una potente arma nelle mani del governo di Versailles, che valeva più di ogni altro ostaggio. La rivoluzione è un’arte. L'indecisione, l'impreparazione, gli scrupoli, la benevolenza verso i borghesi, la mancanza di determinazione e di un attacco decisivo portato di sorpresa al nemico di classe nel momento in cui è più debole, diviso e disorganizzato, la mancanza di una serie di successi, anche piccoli, nella fase iniziale, fanno si che, una volta passato il momento propizio, non si riesca più a portare a termine i compiti rivoluzionari e ci esponga ad un pericolo mortale. Con le parole di Marx "la difensiva è la morte di ogni insurrezione armata". Quello che è valso per la Comune - in quanto singola città accerchiata - vale anche per gli stati socialisti. La storia ha dimostrato che la rivoluzione vittoriosa in uno o più paesi non può chiudersi in se stessa. La vittoria del Socialismo non può considerarsi come definitiva se non come risultato degli sforzi del proletariato internazionale e con la vittoria della rivoluzione socialista in molti paesi, per spezzare l’accerchiamento capitalistico e affermare la nuova società su scala internazionale. La lezione della Comune dimostra che per vincere la resistenza accanita delle classi sfruttatrici ed assicurare il successo della rivoluzione il proletariato deve usare fino in fondo e senza riserve il suo potere, deve usare il nuovo Stato proletario per mobilitare le masse, affrontare la guerra civile che viene scatenata dai capitalisti e liquidare ogni tentativo restauratore. Tra le cause principali della fragilità della Comune, che impedirono di procedere su questa strada furono le indecisioni e le frizioni che emersero tra le varie componenti della Comune dovuta alla immaturità politica e ideologica delle forze che la componevano. La mancanza di una precisa coscienza scientifica di classe, presente solo in pochi membri della Comune, la mancanza di un partito di avanguardia della classe operaia, la presenza di illusioni sulla borghesia, e l' inadeguatezza delle precedenti associazioni di lotta rivendicativa, incapaci di sviluppare una lotta decisa e rapida sul terreno politico, fece si i membri della Comune non riuscirono ad adottare provvedimenti efficaci ed in grado di vincere la guerra con la borghesia. Come disse giustamente Engels la Comune fu la tomba del blanquismo e del proudhonismo, cioè del rivoluzionarismo e dell'utopismo, del socialismo prescientifico.

La lezione della Comune. Malgrado la sua breve esperienza la Comune di Parigi permise ai fondatori del socialismo scientifico, Marx e Engels, di trarre una lezione luminosa che ancora oggi serve da guida per il proletariato internazionale nella sua lotta per il Socialismo. Per definire la sostanza della Comune Engels scrisse: "il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore sentendo l'espressione: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato". In effetti la Comune ha rappresentato il primo esempio di dittatura del proletariato, strumento della rivoluzione proletaria. Fu il primo riuscito tentativo della classe operaia di rovesciare il sistema di sfruttamento e di oppressione capitalista e di impossessarsi del potere per operare una profonda trasformazione sociale. In primo luogo, la vicenda della Comune dimostra che lo stato operaio, la vera democrazia popolare, non è il risultato dello sviluppo pacifico della società, non si può costruire sulla base delle schede elettorali. Al contrario è la negazione della democrazia borghese, il suo superamento dialettico. In secondo luogo, come hanno spiegato Marx e Engels, “la Comune ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta a metterla in moto per i suoi fini.” Lenin chiarì successivamente che il proletariato deve dunque spezzare, demolire la macchina statale e non limitarsi a impadronirsene. Questo concetto – sistematicamente rimosso e cancellato da opportunisti, revisionisti e riformisti di ogni specie - esprime in modo chiaro l’insegnamento centrale del marxismo rivoluzionario sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato. In terzo luogo, l'esperienza della Comune prova che la dittatura del proletariato non è la dittatura di qualche persona, di una minoranza, sul proletariato, e non è nemmeno un semplice cambio di governo. Essa è la dittatura di tutta la classe sfruttata sulla borghesia, la dittatura delle masse, della grande maggioranza su un’esigua minoranza. Dunque la massima democrazia possibile in una società divisa in classi. La Comune non aveva altra forza che non fosse la grande autorità morale, il consenso del popolo che per la prima volta era davvero l' unico sovrano. Tutto si faceva per strada, nei comizi, senza diplomazia segreta e senza gli intrighi parlamentari e di corridoio. I marxisti-leninisti lottano per questo tipo di dittatura, per la dittatura del proletariato, per la direzione politica dell’intera società da parte della classe operaia, alleata con le grandi masse sfruttate e oppresse. Lo Stato operaio - sebbene possa assumere le forme più varie - deve essere sempre espressione della dittatura del proletariato, del potere rivoluzionario della classe operaia. Questo nuovo tipo di stato serve a costruire il Socialismo e a ridurre all'impotenza i propri nemici di classe i quali proprio per essere stati rovesciati uniranno le loro forze e non risparmieranno alcun mezzo per cercare di tornare al potere.



La Comune vive e vivrà sempre nel cuore degli operai. Con la sconfitta della Comune la borghesia pensò che la "storia doveva essere finita". La classe dominante diffuse nei ceti medi la paura e l'odio verso i rivoluzionari. Ma il movimento socialista riprese forza e dalle ceneri della Comune, seguendo il suo eroico esempio, neanche cinquanta anni dopo sorse una nuova e più potente rivoluzione proletaria, quella sovietica avvenuta nell’ Ottobre 1917. Con l'avvento dell'imperialismo, ultimo stadio del capitalismo, e con l'acuirsi della sua crisi generale si è aperta una nuova epoca di guerre e di rivoluzioni. Le rivalità interimperialiste portano necessariamente alla guerra e questa situazione favorisce la possibilità della rottura degli anelli deboli della catena imperialista a causa della crisi interna in cui la borghesia di alcuni paesi si trova. La questione al giorno d'oggi non è più di sapere se c'è la lotta oppure no, se ci sono movimenti oppure no. La rivoluzione è una questione posta dallo sviluppo delle forze produttive e dal conseguente sviluppo delle contraddizioni di classe, è una questione da risolvere nella pratica. La classe operaia e i popoli di molti paesi hanno ripreso a muoversi. Siamo ancora in una fase difensiva, di crescente resistenza, ma è solo questione di tempo perché si affermi una più forte e combattiva organizzazione delle forze proletarie, per nuovi assalti al cielo. Mille inconfutabili evidenze ci mostrano che il capitalismo non sarà l'ultima tappa dello sviluppo sociale . Noi siamo ottimisti sull’esito dello scontro di classe. Le condizioni per la lotta rivoluzionaria degli sfruttati e degli oppressi sono più favorevoli rispetto a ieri. Lo sviluppo globale del capitalismo ha preparato alla classe operaia condizioni materiali e sociali migliori per l'organizzazione della lotta rivoluzionaria per il potere. Anche nel nostro paese vi sono le condizioni oggettive per la ripresa della lotta rivoluzionaria. Quello che ancora manca è un forte Partito comunista del proletariato che guidi le grandi masse, rendendole consapevoli del proprio ruolo storico. Noi abbiamo fiducia: il proletariato, la classe sociale più rivoluzionaria della nostra società, saprà risolvere questo problema. Il proletariato è una classe che sa imparare dalle sue esperienze, dalle sconfitte del passato. Le molteplici lezioni che abbiamo appreso dal corso degli eventi rivoluzionari che hanno caratterizzato gli ultimi secoli renderanno più sicuro e vasto il prossimo assalto al cielo. Oggi come ieri il compito dei comunisti è di organizzare e dirigere le masse alla lotta per la rivoluzione e il Socialismo. È di portare e far crescere nel seno dei movimenti di lotta quella coscienza rivoluzionaria e internazionalista senza la quale il proletariato non può conquistare e mantenere il potere. Per questa finalità lavoriamo e a essa dedichiamo tutti i nostri sforzi, chiamando i migliori elementi del proletariato a unirsi alla nostra attività, nel solco tracciato dalla Comune di Parigi, che annunciò al mondo intero l'avvento della nuova società.