Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 22 marzo 2017

Quella sera che Miles fu aggredito dalla polizia.

Luciano Granieri



Continuiamo a stupirci per i provvedimenti razzisti adottati dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, tale stupore segue allo sbigottimento provocato dall’elezione stessa di Trump, giudicato dai più, inadatto alla presidenza della più grande potenza mondiale. In realtà non c’è  nulla da stupirsi perché l’America che ha scelto Trump ha una tradizione razzista secolare. In  un quadro di nichilismo e sfiducia, determinato dalla delusione per le politiche sociali promesse da Obama, solo parzialmente realizzate, e dal fallimento generale del partito democratico  , la scelta di Trump era nelle cose. 

L’aspetto profondamente reazionario, classista e razzista americano emerge con forza nella  storia della musica jazz.  La discriminazione non riguarda solo il colore della pelle, ma anche la disponibilità economica, il credo politico. Il  jazzista nero povero, e magari comunista,  era l’icona del nemico numero uno per la società statunitense. Talmente radicato era l’odio della società ortodossa americana per i neri, che gli strali razzisti colpirono anche colui il quale, senza tema di smentita, è da considerarsi uno dei più famosi, se non il più famoso, jazzista del mondo, Miles Davis. 

Miles proveniva da una famiglia borghese, il padre era un dentista. A differenza di altri musicisti della sua età, che faticavano a sbarcare il lunario, Davis percepiva  dai genitori  una somma mensile che gli consentì dal ’45 al ‘47  di vivere a New York, comodamente nonostante la sporadicità dei primi ingaggi. Egli  non aveva particolari propensione alla rivendicazione politica, se non l’atteggiamento supponente ed irridente verso il pubblico, retaggio ereditato dalle esibizioni sostenute  affianco dei boppers. Un artista , dunque,  dotato di tutte  quelle caratteristiche indispensabili per  essere accettato dalla società borghese americana, tranne il colore della pelle. 

Probabilmente fu il primo jazzista  la cui notorietà travalicò l’ambito musicale. Nel 1958 la rivista Time pubblicò un servizio dedicato alla sua carriera. Life International lo inserì in un elenco di quattordici  personalità di colore che avevano “recato un significativo contributo nel campo   della scienza, della legge,  degli affari, dello sport, del divertimento, dell’arte, della letteratura, del mantenimento della pace fra gli uomini”. Nel marzo del 1959, Esquire, una sofisticata rivista dedicata ad una platea  d’èlite,  pubblicò un lungo articolo su di lui a firma di Nat Hentoff. Il suo sestetto era il più richiesto ed il più pagato. Miles era diventato una vera star, paragonabile alle più grandi stelle del rock. La gente lo venerava, quando suonava Miles non si andava ad un concerto di jazz ma  ad un concerto di Miles Davis. Il trombettista di Alton poteva permettersi vestiti firmati e girare in Ferrari. 

Nonostante ciò la furia razzista della polizia americana si abbattè anche su di lui. Nell’agosto del 1959  era di scena con il suo sestetto al Birdland a Brodway. Era una serata afosa e durante una pausa dell’esibizione accompagnò una ragazza fuori dal locale per chiamale un taxi. Disgraziatamente per lui la ragazza era bianca e un nero che accompagnava  una bianca, per la polizia, era un fatto poco ortodosso. Il taxi fece accomodare  la passeggera e Miles rimase fuori dal locale a prendere una boccata d’aria. Un poliziotto di ronda lo avvicinò minaccioso gli intimò di andarsene: “Lavoro qui” replicò Miles aggiungendo  che voleva semplicemente prendere un po’ di fresco e presto sarebbe tornato nel locale. Il poliziotto, non credendo a ciò   che il presuntuoso negro gli stava dicendo,   domandò a Miles se si riteneva “un tipo intelligente” e insistette: “se non ti muovi ti caccio dentro”. “Avanti cacciami dentro” fu la risposta di Miles. 

Mentre i due stavano discutendo un secondo poliziotto  piombò alle spalle di Davis e iniziò a picchiarlo selvaggiamente alla testa con il manganello. Coperto di sangue Miles fu portato in prigione e gli venne sequestrata la tessera temporanea di lavoro. A New York non si poteva lavorare senza quella tessera. Una piccola folla aveva assistito alla scena arrivando a bloccare il traffico. Più tardi la gente si raccolse davanti al 54mo distretto dove era stato condotto l’arrestato. Miles fu rilasciato il giorno dopo dietro il pagamento di una cauzione di mille dollari. Le contusioni gli costarono cinque punti di sutura in testa. “Mi hanno picchiato come un tamburo” osservò. Un testimone oculare commentò: “E’ stata la più orribile e brutale scena che mai mi sia capitanato di vedere. La gente gridava al poliziotto di non ammazzare Miles”. 

L’incidente ebbe vasta eco sulla stampa newyorkese ovunque si lessero commenti indignati e si dimostrò grande simpatia per il trombettista. L’Amsterdam News, diffusissimo giornale della comunità nera, diede risalto alla vicenda osservando che Davis aveva subito una violenza di “stampo sudista”. Miles fu accusato di condotta turbolenta e di aggressione. I due poliziotti sostennero che era stato lui  a fare la prima mossa violenta: “Davis aveva impugnato un bastone e si accingeva ad aggredire  il mio collega, per quello sono stato costretto a colpirlo sulla testa ” fu la versione del secondo poliziotto. Miles si difese dicendo di aver cercato di proteggere la sua bocca dalle percosse per non riportare danni alle labbra  e quel movimento forse aveva dato l’impressione che egli volesse prendere un bastone. 

A seguito di un telegramma inviato dalla sezione 802 della Federazione musicisti d’America al commissariato di polizia, nel quale si chiedeva un’indagine esauriente, a Miles Davis fu restituita la tessera del lavoro. Solo nell'ottobre  del 1960 Miles Davis fu scagionato  dall’accusa di aver tenuto un comportamento turbolento, ma rimase imputato del  reato di aggressione. Qualche tempo dopo cadde anche quest’ultima imputazione. Emblematiche la parole del giudice che emise la sentenza: “Sarebbe una falsa giustizia quella che considerasse la vittima di un arresto illegale colpevole di aggressione nei confronti di chi procede all’arresto”. 

Questo aneddoto, dalla notevole rilevanza perché capitato ad uno dei più famosi musicisti d’America e mondiale, dimostra che la violenza verso i neri e l’odioso humus razzista, non ha mai abbandonato buona parte della società americana. Con l’avvento di Trump la lotta per i diritti civili diventa più difficile e aspra. Speriamo che movimenti come “black lives matter”, grazie all’appoggio di altre organizzazioni sociali  e   di una consistente parte di società  non imbarbarita possano continuare la loro battaglia per una convivenza più civile non solo in America ma in tutto il mondo. E’ una lotta difficile e dura perché combatte un pregiudizio, ma non continuare a lottare anche con l’aiuto dei musicisti e del mondo della cultura sarebbe delittuoso.

Good vibrations.

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