Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 1 gennaio 2013

Dov’è la sconfitta?

Antonio Moscato. Fonte http://antoniomoscato.altervista.org


Assurdo parlare di vincitori e vinti in una contesa che ha coinvolto meno di 7.000 compagne e compagni. Parlo delle elezioni tra gli iscritti a “Cambiare si può” per decidere se accettare la trasformazione in “Rivoluzione civile” con simbolo e guida di Ingroia. Mi sembra assurdo esultare perché il SI si è conquistato il 64,7% dei votanti (cioè esattamente 4.468). Un po’ pochi per portare avanti un progetto che era giustamente apparso interessante e positivo, e che invece conferma la drammatica crisi dei quattro partiti che hanno fortemente sponsorizzato il voto a favore.
In realtà sarebbe meglio parlare di un solo partito, che a differenza degli altri tre esiste ancora e non solo sulla carta, e di cui abbiamo incontrato nelle assemblee generosi militanti (che magari scambiavano come un attacco preconcetto al partito in quanto tale quella che era solo legittima diffidenza per quei loro dirigenti che hanno effettivamente gravi responsabilità per la crisi della sinistra). Ma il PRC avrebbe fatto meglio se in questi anni avesse utilizzato le sue forze come le ha mobilitate in questi giorni con una campagna di mail e sms di denigrazione di chi non era convinto dell’imposizione di Ingroia.
Ingroia suscita diffidenze tra molti compagni, perché è un candidato leader che non solo si preoccupa più degli imprenditori che dei lavoratori, ma perché continua testardamente a riproporre un’alleanza con il PD, e a lamentare che Bersani rifiuta il dialogo. Non solo all’inizio, ma perfino nell’intervista a “Repubblica” di ieri, 31 dicembre, Antonio Ingroia ha ribadito che la “battaglia antimafia ha bisogno dell’unità di tutti”. E ha continuato a rivolgersi al PD, che logicamente non solo “risponde con freddezza”, ma gli contrappone un altro magistrato con la stessa valenza: Pietro Grasso. A cui Ingroia, certo mal consigliato, non è riuscito a rispondere senza la caduta di stile delle delegittimazioni offensive e quindi controproducenti.
Non occorre essere “puri e duri” (termine ereditato dal peggior repertorio burocratico dell’ultimo PCI, e non a caso usato largamente nelle mail di questi giorni) per temere di delegare la rappresentanza di un movimento largo e articolato a un leader assoluto, con tanto di nome scritto a caratteri cubitali, che usa per giunta a volte argomenti poco efficaci: la sua unica quasi ossessiva preoccupazione, è la mafia, come se tutti i mali dell’Italia e dell’Europa dipendessero dalla mafia e non dal normale funzionamento del capitalismo, che fin dai tempi di Marx era intrecciato  largamente con svariate forme di criminalità. Eppure Ingroia, se si fosse fermato un po’ più in Guatemala, avrebbe scoperto che il fenomeno in forme diverse è presente in gran parte dell’America Latina, non necessariamente ad opera di baffuti esponenti siciliani. E non parliamo poi della Russia e dei Balcani. La mafia siciliana è solo una particolare variante, rispetto ad altre con diversa origine. Per giunta non è efficace ridurre le accuse al PD di voler solo arginare e non estirpare la mafia: a parole lo hanno detto tutti i governi, anche di centro sinistra, e la mafia e le altre forme di criminalità stan tutte lì… E c’è un Grasso a togliere forza a questi argomenti.
Il gruppo dirigente del PD non sa far politica, ma non al punto di non saper scovare alleati contro la concorrenza di Ingroia, da Grasso a Pisapia (vediL'ingenuo Pisapia)
Ed è possibile che i compagni, tanto attivi con le mail contro chi vuole “stare a guardare dalla finestra del salotto”, non sospettino che a molti compagni può legittimamente dar fastidio l’elogio che Ingroia, nella stessa intervista di ieri fa alla “magistratura e le forze dell’ordine”? Soggetti “che dovranno sentire rinnovato e ancora più forte il sostegno nel loro operato, che ha consentito gli straordinari successi che conosciamo”… Occorre essere puri e duri per non sentirsi rappresentati da queste parole?
Avevo scritto più volte che qualunque fosse stato l’esito del voto bisognava continuare a ragionare tutti insieme sulle cose da fare, ma anche sulle ragioni del progressivo sprofondamento delle sinistre. Ma come farlo con chi per delegittimare il NO, lo attribuisce alla “aristocrazia della casta giornalistica di Viale, Ginsborg ed altri”, mentre invita a “stare assieme e intervenire sull’aristocrazia, ma onesta, degli Ingroia, che ricorda il segnale di classe del codice penale”? Incredibile ma vero. Ovviamente l’altra “aristocrazia” sarebbe disonesta…
Ho pensato, leggendolo, che a scrivere questo sarà stato forse un poliziotto o un carabiniere (ne avevo trovati come segretari di circolo in qualche paese del Salento, ma credevo che fosse un’aberrazione locale). Ma come si fa dopo questi argomenti a trovarsi ancora insieme? La denigrazione non assumeva solo la forma ridicola di presentare come appartenenti a una presunta “casta giornalista” compagni che non sono neppure giornalisti di professione ma hanno solo la colpa di saper scrivere. C’era la contrapposizione sistematica tra “i poveri bidelli” e “i professori”, o i “nomoni” (traduco: chi ha un nome conosciuto, magari per decenni di militanza, mentre il criterio ovviamente non vale per Ingroia).
Lasciamo da parte il repertorio di critiche sprezzanti ai “professori col lapis rosso e blu” che farebbero “l’analisi grammaticale di ogni contributo” allo scopo di “ricercare in essi un purismo ideologico”. Si arriva perfino a considerare una bizzarra forma di settarismo la preoccupazione per il ruolo corruttore delle istituzioni borghesi (in cui dietro l’ironia, traspare che chi scriveva così aspirava evidentemente ad “infiltrarsi” nuovamente al loro interno), come se il discredito di un partito che era nato bene, e aveva fatto un buon passo avanti nel 1998 rifiutando di ingozzare altri rospi, non fosse stato potentemente alimentato poi dalla discordanza tra le enunciazioni programmatiche e la grossolana pratica di adattamento alle regole di lorsignori quando finalmente è arrivato al governo, o meglio nell’anticamera del governo…
Possibile che questi compagni non si rendano conto dell’effetto repulsivo del “ritorno di un ceto politico della sinistra già «radicale» che si ripresenta sulla scena senza aver mai davvero fatto i conti con le sue scelte degli anni passati”? Sono osservazioni del lucido articolo di Piero Maestri, Oltre le elezioni , che proseguiva notando quanto fosse “imbarazzante vedere che all’intervento di un’attivista contro la base Dal Molin come Cinzia Bottene” seguissero il 23 dicembre poi “quelli di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi che quella base militare ha accettato e sottoscritto (così come l’acquisto degli F35) senza fare nemmeno un briciolo di autocritica (e magari le loro scuse a quelle e quegli attiviste/i) e senza nemmeno chiedersi se in fondo l’assenza della «sinistra radicale» dal parlamento non sia avvenuta proprio per quella partecipazione al governo e l’incapacità di pensarsi davvero come alternativi al centrosinistra (siamo infatti ancora all’infausto detto «in politica mai dire mai» di bertinottiana memoria).”

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