Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 7 aprile 2018

Scompare a 89 anni il pianista Cecil Taylor. Ciao vecchio amico marxista, ci mancherai

Luciano Granieri 




Noo… I’m marxist”, rispose un  tizio che suonava il piano,  nella  sua prima apparizione italiana al festival jazz di Bologna,  a chi gli domandava se appartenesse al Black Panther Party o ai Black Muslims. Era il 1968 e quel rutilante pianista era Cecil Taylor. Ma perché i giornalisti erano così interessati alle opinioni politiche di un jazzista, forse ancora di più che alla sua musica? Perché si era nel 1968, un  periodo - il cui cinquantennale viene ricordato in questi mesi  con diverse iniziative - nel quale   tutto era politica, e perché stiamo parlando di Cecil Taylor, una delle icone   più significative del panorama free insieme ad Ornette Coleman ed Archie Shepp. Ma  soprattutto uno dei musicisti più politicizzati dell’intero panorama jazzistico mondiale . 

Ironia della sorte a cinquant’anni dal suo esordio in  Italia, proprio nel 1968,  il pianista newyorkese è venuto a mancare.  E’ morto giovedì scorso  all’età di 89 anni nella sua casa di New York.  Era figlio di un domestico nero occupato come  cameriere  in una ricca casa di Long Island, il nonno era pellerossa, così come di origine americano-indiana erano la nonna e la mamma che gli trasmise la passione per le arti in genere e in particolare per la musica. Il sangue misto, africano/pellerossa, lo ha di fatto predestinato ad esprimere, artisticamente e politicamente, il disagio e la rabbia della gente discriminata e vessata non solo per ragioni razziali, ma anche per differenza di censo.  Un marxista a tutto tondo inserito nella difficile questione dei diritti civili. 

Ma la particolarità e la genialità di Taylor nasce innanzitutto dalla sua singolare evoluzione musicale. Da un lato ci sono gli studi classici, iniziati privatamente con un professore dell’orchestra sinfonica dell’Nbc, poi proseguiti al New England Conservatory, c’è l’amore per Bartok e Stravinsky. Dall’altro irrompe la fascinazione  per le percussioni ed in particolare per i batteristi Gene Krupa e Chuck Webb. Lo stile pianistico che ne deriva è   percussivo,incalzante , il pianoforte pare un grosso tamburo parlante, ma al contempo propone delle concezioni armoniche raffinate scaturite dalla profonda conoscenza di Schonberg  e Milhaud. Uno stile, determinato dal pianismo europeo moderno e dal beat di grandi batteristi, inserito nella voglia di sperimentare tipica del free jazz, rendono il linguaggio di Taylor veramente unico. 

Nel  1958 è già nel quartetto di Steve Lacy a suonare musica sperimentale,  due anni più tardi, nel 1960, collabora col suo amico, marxista anche lui, Archie Shepp  e John Coltrane. Ma l’evoluzione di Taylor è senza soste. Sia che suoni in gruppo, da solo, in duo con Max Roach, in trio, ad esempio con Jimmy Lyon e Sunny Murray, l’originalità del suo “Tamburo Parlante” tracima in modo irrefrenabile, fino a conquistare l’Europa e  l’Italia la cui frequentazione, come abbiamo visto, comincia nel fatidico 1968 ma prosegue con gli album registrati per la Soul Note  e la collaborazione con l’Italian Instabile Orchestra  attraverso l’incisione  “The Owner of a River Bank “. 

 Come è noto, il free jazz, non ebbe la capacità di diffondere appieno  il proprio messaggio rivoluzionario in America. Da un lato osteggiato dal mercato, dall’altro giudicato forse troppo intellettuale, a volte incomprensibile,  per i neri del ghetto, per cui Taylor, come altri protagonisti  del free,  nonostante avesse suonato ed inciso con i più grandi  jazzisti americani, ebbe il suo maggior successo in Europa.  

La voglia di cambiare, di sperimentare, di rivoluzionare  lo portò  ad interessarsi, oltre alla musica,  di danza, di recitazione, di tutto ciò che è arte, ma lo spinse anche  ad occuparsi di politica, travalicando la dimensione insita nella lotta dei diritti civili per la sua gente,  per collocarsi   in un area molto più vasta.  Una visione che lo convinse della necessità  di  rovesciare una società globale  piena di storture secolari. 

Nella stessa intervista di Bologna,  sopra richiamata, commentando una manifestazione organizzata dai Francesi contro la guerra in Vietnam Taylor disse: “Ma come fanno i francesi a giustificare le loro manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tenendo conto del loro atteggiamento , della loro condotta in Algeria, e quando essi sono fra i maggiori fornitori di armi al governo razzista dell’Africa del Sud?”.  

Tutto sommato però, pur impegnato ad estendere  la lotta degli oppressi neri, a tutti gli oppressi del mondo vittime dell’imperialismo e del capitalismo , pur possedendo una visione marxista della società, pur avendo assimilato il linguaggio della musica colta europea, l’origine dalla sua  lotta  proveniva dal ghetto. in  un’intervista rilasciata nel 1966   disse:” Io ho imparato di più nel ghetto che al conservatorio  , nella società americana io sono un uomo “invisibile” così come invisibile era Ellington ai  tempi di Gershwin”   Una dichiarazione inequivocabile sulla ragione per cui aveva cominciato a battersi per una società più giusta. 

Un impegno e una lotta portata avanti con le armi della cultura, della musica. Ciao dannato vecchio marxista, ci mancherai.

good vibrations

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