Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 11 dicembre 2014

VERSO LO SCIOPERO DEL 12 DICEMBRE

Franco Turigliatto   fonte: Sinistra Anticapitalista


Renzi è riuscito a far approvare ai due rami del Parlamento la legge della vergogna (Jobs Act) che cancella definitivamente l’articolo 18, dà ai padroni la piena libertà di licenziamento, autorizza il demansionamento e lo spionaggio dei dipendenti per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori e garantire i profitti e le rendite finanziarie.
Un Parlamento a disposizione dei sogni di Squinzi
E’ un Parlamento che ha mostrato la sua totale sottomissione alle richieste della Confindustria e ai sogni di Squinzi (e di Marchionne), un organismo servo dei padroni, incapace di rappresentare il paese ed avverso ai bisogni e agli interessi della grande maggioranza dei cittadini. Mentre dentro l’aula del Senato si compiva il misfatto della cancellazione di diritti fondamentali dei lavoratori e si stracciava lo Statuto dei lavoratori del 1970, frutto di tante lotte e segno di civiltà politica e sociale, all’esterno le solerti forze repressive di Renzi/Alfano, provvedevano a caricare e manganellare duramente i manifestanti per non lasciare alcun dubbio sulla natura di classe (quella borghese) di questo governo.
I voti a favore del provvedimento sia alla Camera (316 su 630) che al Senato (166 su 322), dove il governo ha posto la fiducia, non sono stati travolgenti, ma per il governo non ci sono stati particolari problemi perché solo il M5stelle e Sel hanno fatto seriamente la battaglia per respingere il provvedimento. Non lo poteva certo fare Forza Italia che condivide queste misure antioperaie portate avanti dalla “sinistra” che fa la destra e nemmeno la cosiddetta sinistra del PD che si è sciolta come neve al sole.
Una vergogna particolare va rimarcata per quest’ultima: alla Camera si è divisa (qualcuno non ha partecipato al voto, pochissimi hanno votato contro, tanti hanno risposto si all’appello di Renzi); al Senato dove la sinistra PD dispone di numeri assai più favorevoli e decisivi per far saltare il banco, ha votato direttamente la fiducia con pochissime eccezioni (il solo Mineo ha votato contro e qualche altro si è assentato). Questi senatori, è bene rimarcarlo, hanno votato il Jobs Act, cioè la cancellazione dei diritti dei lavoratori, dopo che per settimane si erano sciacquati la bocca sulla difesa dell’articolo 18. Non avevamo molti dubbi sul politicismo e sulla qualità e coerenza politica di questi personaggi, ma il loro ripiegamento totale dovrebbe far riflettere coloro che pensano si possa costruire qualcosa di serio a sinistra con questi soggetti. Più che il dolore per le pene future dei lavoratori prodotte dalla nuova legge, questi parlamentari si sono preoccupati di difendere “il loro posto di lavoro”, timorosi, nel caso di elezione anticipate, di essere esclusi dalla ricandidatura. Anzi, non ci sono dubbi che uno degli argomenti avanzati, per giustificare il loro comportamento sia stato: “ Se votiamo no, facciamo cadere il governo, proprio quello che Renzi potrebbe desiderare per andare a nuove elezioni e costruirsi un plebiscito escludendoci dalle istituzioni. Quindi è meglio che…”
Quindi, per costoro, è stato “meglio” partecipare alla distruzione delle tutele e dei diritti della classe lavoratrice.
Tra questi brillano ulteriormente per ipocrisia, i parlamentari già dirigenti della CGIL (hanno partecipato all’organizzazione delle mobilitazioni di 12 anni fa per la difesa dell’articolo 18), che non hanno ritenuto politicamente immorale votare questa legge, per di più in aperto scontro con l’organizzazione sindacale di cui hanno la tessera. Peraltro la direzione della CGIL non ha battuto ciglio di fronte a una simile vergogna, né preso provvedimenti nei loro confronti.
La partita non è finita
Ma la partita non è finita col voto parlamentare perché nel paese è cresciuta la mobilitazione e l’opposizione di massa al governo e alle sue politiche antisociali. Renzi ha avuto poco tempo per cantare vittoria (“una cosa enorme, la maggioranza cresce”, ha dichiarato alla “Stampa” di Torino) perché si è ritrovato tra i piedi il verminaio di Roma in cui il suo partito è implicato fino in fondo, che illustra oltre ogni aspettativa la ramificazione corruttrice del sistema capitalista anche nelle sue forme più basse e mafiose. Ma non basta. E’ di questi giorni il nuovo declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating. Sappiamo come queste agenzie siano strumento dei capitalisti per portare avanti le politiche liberiste di austerità, ma per la credibilità di Renzi nel mondo dei capitalisti, cioè il suo, è un brutto colpo. Le difficoltà del presidente del Consiglio sono su diversi fronti e sempre meno sono quelli che credono alle sue false promesse e bugie: la maggioranza della classe lavoratrice, ma anche delle cittadine e dei cittadini ormai ha capito che gli amici di Renzi non sono i giovani e i precari, ma i ricchi e i potenti, quelli che finanziano il suo partito a 1.000 euro per cena. Non ci vuole molto a capire che se i padroni corrono in frotte alla corte di Renzi, chiedono un corrispettivo. E il corrispettivo è il Jobs Act, ma anche la legge di stabilità, un concentrato di nuovi regali ai padroni con la riduzione delle tasse per le imprese, e nuovi ingentissimi tagli agli enti locali e alle amministrazioni pubbliche, cioè l’accetta sulla spesa e servizi sociali.
Renzi non ha avuto vergogna a chiamare eroi gli imprenditori, quando molti di questi ristrutturano, licenziano, speculano e corrompono e quando, con le politiche dell’austerità, sono milioni di lavoratrici e lavoratori che hanno visto ogni giorno peggiorare la loro situazione economica e sociale.
Ma la resistenza e la ribellione sono cominciate; in tanti hanno preso coscienza che non si può andare avanti così, che bisogna mobilitarsi e l’autunno ha cominciato a colorarsi del blu delle tutte operaie: lo si è fatto nelle fabbriche che licenziano con lotte molto dure, di cui quella della AST di Terni è stato un punto di riferimento, conclusasi con un risultato significativo per i lavoratori; lo si è fatto in tante mobilitazioni locali, nella manifestazione del 25 ottobre a Roma e nella giornata di lotta del 14 novembre che ha visto in piazza con lo sciopero nazionale dei metalmeccanici della FIOM, lo sciopero sociale dei precari, dei disoccupati, dei movimenti sociali.
E’ possibile ancora battere governo e Confindustria
Non bisogna tornare indietro, bisogna continuare la lotta. Ben venga lo sciopero del 12 perché, pur se è molto difficile, è ancora possibile battere la Confindustria e il suo governo.
Se la direzione della CGIL, colpevolmente per totale subalternità ai padroni e ai governi, non avesse lasciato passare anni senza far nulla non saremmo in queste difficoltà; ed anche in questi mesi molto di più andava fatto e tempestivamente; il rinvio dello sciopero, mentre la mobilitazione stava crescendo, non è stato un segnale positivo e ha dato possibilità di manovra al governo; realizzare però una mobilitazione più duratura è ancora possibile; è possibile anche convincere i tanti indecisi che questa volta si fa sul serio.
Per questo tutti coloro di sinistra che non vogliono commentare quanto accade, dando più o meno per scontata la sconfitta e puntando solo a raccattare qualche tessera, devono lavorare per preparare lo sciopero dal basso, nelle assemblee, nelle discussioni, coinvolgendo le/i compagne/i di lavoro, ma anche i vicini di casa, i dettaglianti della via, spiegando a tutti che è inutile arrabbiarsi individualmente davanti alla televisione e al bar (tanto meno prendersela contro i più disgraziati, i migranti e i Rom, come l’estrema destra e la Lega indicano), ma che bisogna mobilitarsi collettivamente e in solidarietà per bloccare le politiche lacrime e sangue del governo e della troika europea.
Serve una grande mobilitazione unitaria, di tutte le categorie, di uomini e donne, di vecchi e giovani, dei precari e dei lavoratori che ancora hanno qualche garanzia (ma sempre meno); serve la mobilitazione della scuola e degli studenti e serve che convergano tutte le organizzazioni sindacali che vogliono difendere la classe lavoratrice e i movimenti sociali presenti nel paese.
Due posizioni simmetriche entrambe sbagliate
Per questo dissentiamo da due posizioni presenti in aree della sinistra.
Da una parte quella di certi sindacati di base, che hanno deciso di trascurare lo sciopero del 12, di non confluire nella mobilitazione indetta dalla CGIL avanzando tre considerazioni (la grave subordinazione della direzione CGIL alle politiche del padronato, l’inconsistenza della piattaforma rivendicativa, la ricerca di una manifestazione di testimonianza senza una seria volontà di costruire una lotta duratura e vera). Sono elementi che corrispondo a verità, ma non possono giustificare in alcun modo la non partecipazione allo sciopero sui luoghi di lavoro e la non presenza nelle piazze insieme alle/ai tante/i lavoratrici/tori che vorranno utilizzare quella giornata per far sentire le loro ragioni. Fare questa scelta vuol dire contribuire ulteriormente alla divisione della classe e lasciare campo libero alle manovre e alle scelte della burocrazia della CGIL. Non ci risulta che queste forze siano in grado in altro momento di mobilitare il grosso della classe lavoratrice. Noi pensiamo che tutto il sindacalismo di classe avrebbe dovuto essere in quella giornata con i propri lavoratori per unirli nella lotta con tutti gli altri mostrando che si può marciare insieme ed introducendo contenuti e strategie più radicali e coerenti.
Difficile pensare che la battaglia per l’egemonia contro gli apparati burocratici conservatori la si faccia stando a casa attraverso la denuncia dei loro tradimenti, in attesa che i lavoratori capiscano che bisogna cambiare di tessera; più probabile che in questa situazione cresca la demoralizzazione e frammentazione.
Da un’altra parte ci sono forze politiche di sinistra che fanno finta di non vedere i limiti e le manovre degli apparati burocratici (a cui molte volte sono ancora legate o subordinate), che delegano in toto alla direzione della CGIL o al massimo della Fiom le strategie della mobilitazione e della lotta, senza nessuna preoccupazione di costruire in quella giornata la presenza di una proposta di classe più radicale e soprattutto di continuità della mobilitazione. Sovrappongono solo la necessità della costruzione di una nuova sinistra, di un’alternativa politica, che, avanzata in questo modo, rischia di sembrare ed essere strumentalmente solo elettorale. Anche in questo caso è vero che occorre costruire una sinistra di alternativa, ma questa è fattibile solo attraverso una piena indipendenza non solo dal PD, ma anche dalla direzione della CGIL e passa in primo luogo attraverso una battaglia di egemonia e di orientamento sulle stesse lotte in corso affinché queste possano realmente dispiegarsi e non concludersi rapidamente e malamente.
Unità, rivendicazioni radicali, una lotta prolungata
Il terreno su cui muoversi in questo passaggio decisivo ha quindi due valenze.
Quella dell’unità nella lotta per essere in tante/i nelle piazze, per fermare le produzioni e i servizi (colpendo i padroni nel loro portafoglio), per avere la forza di bloccare il paese intero, muovendo e polarizzando anche gli incerti e i dubbiosi in un momento in cui fare uno sciopero (e più scioperi) pesa enormemente sul piano economico per i lavoratori e le loro famiglie e coloro che hanno condizioni di lavoro o di non lavoro che impediscono l’azione stessa di sciopero;
Quella di introdurre, rispetto alle generiche e fumose rivendicazioni ufficiali che non chiedono neanche il ritiro del Jobs Act, obbiettivi ben più radicali, netti e paganti dentro una proposta di continuità della lotta per raggiungerli piegando il governo; solo la chiarezza e la semplicità degli obiettivi possono permettere di reggere una lotta dura e prolungata, quale è necessaria.
Il Jobs Act è una legge delega che introduce dei criteri che per concretizzarsi in norme operative hanno ancora bisogno di decreti legislativi del governo; possiamo e dobbiamo impedirlo.
Bisogna chiedere contemporaneamente il ritiro della legge di stabilità, una finanziaria che toglie ai poveri per dare ai ricchi e il ritiro del piano sulla “buona scuola” rivendicando la riqualificazione vera dell’istruzione pubblica, a partire dall’assunzione dei precari e dal rinnovo del contratto.
Così come va cancellato il decreto “Sblocca Italia” che è un incentivo totale alla speculazione e alla distruzione dei territori, con l’inevitabile appendice della corruzione e del malaffare.
Serve la nazionalizzazione delle fabbriche che chiudono o licenziano o inquinano e la loro riattivazione in funzione dei bisogni sociali, dei lavoratori e dei territori. Ma serve anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per creare occupazione e dare una prospettiva ai giovani.
E il salario deve tornare ad avere un valore che permetta di arrivare alla fine del mese e di assicurare a tutti una vita degna.
Sono i punti di partenza per un programma economico e di spesa pubblica sociale alternativo a quello dei capitalisti, ma sono anche il punto di partenza per una lotta lunga e prolungata per cacciare il governo e le sue politiche.
La classe lavoratrice ridiventi soggetto politico

Non lasciamo che il 12 sia solo una giornata dimostrativa della forza numerica che ancora hanno alcune sigle sindacali, chiudendo irresponsabilmente questa breve stagione di lotta (come in cuor loro pensano molti dirigenti sindacali), ma che sia invece l’inizio di una vera e propria prova di forza sociale che polarizzi aeree sempre più ampie, che ricostruisca un blocco sociale alternativo intorno alla classe lavoratrice. Quest’ultima deve ridiventare un soggetto politico a tutto campo. E’ l’unico modo per battere un governo padronale che vuole una società piegata e gelatinosa, divisa e inattiva, ma anche per battere le ombre e le presenze sempre più minacciose della Lega di Salvini e delle estreme destre, che in questa decomposizione della società sperano di costruire le loro fortune reazionarie e antidemocratiche.

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