Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 7 luglio 2011

Stasera Jazz

Per entrare nel  mondo del jazz pagai cinque lire. Tanto costava il biglietto d’ingresso a uno dei concerti i organizzati, ogni mese , dal Circolo del Jazz Hot a Milano. Nell’ottobre 1936, per un ragazzo d diciassette anni quale ero io, quelle cinque lire d’argento erano piuttosto pesanti, ma le pagai volentieri. Non so perché, qualcosa mi diceva che stavo compiendo un dovere. Di fatto, dopo quella sera, mi considerai una specie di militante: non avrei mai immaginato, però, fino a qual punto mi sarei trovato  coinvolto nel mondo del jazz, quante migliaia di volte avrei pronunziato e scritto quello strano monosillabo, jazz, sul cui significato avrei avuto idee confuse per molto tempo ancora. Ora so che, allora c’erano solo pochissime persone, in Europa come in America , che avessero le idee abbastanza chiare su cosa si dovesse intendere per “jazz”. Quando entrai  nei locali del Lyceum, in Via Filodrammatici, dove si era appena insediato il Circolo del Jazz Hot,i giovani che vi trovai riuniti sapevano qualcosa di più. Sapevano, per cominciare, che bisognava distinguere fra jazz”straight” e jazz “hot” e che solo quest’ultimo meritava considerazione. In realtà lo straight (oggi si direbbe: il liscio”) non era affatto jazz, ma orecchiabile musica da ballo eseguita senza variazioni “commerciale” , come si diceva allora.  Devo ammettere che , a me, lo straight piaceva moltissimo : avevo più dischi di quel tipo che dischi hot. Lo confessai candidamente a un ragazzo  che  mi sedeva accanto quella sera, e che aveva pressappoco la mia età. Si chiamava Perugini. “Non ti far sentire” ammonì. “Io ti capisco, perché anch’io vengo dallo straight. Però qui conta solo, il jazz Hot”. Mi sentii molto square (ma la parola con cui gli amatori del jazz bollano i profani, quelli che non capiscono niente, l’avrei imparata più tardi, leggendo le riviste americane) e fui pervaso da un grande desiderio di redimermi.   Quella sera feci la conoscenza dei due fondatori e factotum del circolo: Gian Carlo Testoni e Ezio Levi. Testoni che allora aveva 23 anni era un missionario del jazz, un crociato. Fra gli articoli dello statuto fondativo del circolo c’era scritto testualmente che il principale scopo di Associazione era quello di “svolgere un’attività capace di servire il jazz hot in Italia”. Mesi dopo quell’articolo di statuto fu commentato con parole sferzanti da un corsivista del “Popolo d’Italia” : era inconcepibile che degli italiani, ormai lanciati verso luminosi destini imperiali, potessero “servire” la causa di una musica straniera. La quale, poi, chi non lo sapeva?, era una “musica di selvaggi” , nata quasi non bastasse, in un paese demo-plutocratico . (Quei paladini del jazz sarebbero stati stigmatizzati anche sulle pagine di “Libro e Moschetto” , il giornale dei GUF , i Gruppi Universitari Fascisti: si trattava di “gagarelli” esterofili, ecco cosa erano.). Pochi mesi prima, nel 1935 per iniziativa di Charles Delaunay – giovane rampollo di due illustri pittori: Robert e Sonia Delaunay – e di Hugues Panassiè – critico precocissimo – era nata a Parigi la rivista mensile “Jazz Hot” , che diffondeva la buona novella del jazz per chi aveva orecchie per intenderla : parve indispensabile a Testoni e a Levi prendere contatto coi correligionari d’oltralpe , che furono lieti di pubblicare regolarmente sulla loro rivista i loro comunicati, spesso redatti in termini spudoratamente auto-laudatori . I pionieri evidentemente sentivano il dovere di aiutarsi fra di loro. Quelli del Circolo Jazz Hot erano davvero dei pionieri. Probabilmente  si dovette proprio a loro il primo concerto di jazz italiano- presentato come tale, dinanzi ad un pubblico pagante-  che sia mai stato organizzato.  Il primo complesso che prese coraggiosamente parte  a quel primo concerto del nostro circolo era costituito da Impallomeni  (tromba), Cottiglieri (sax tenore), Gallone (clarinetto e sax baritono), Levi (piano)  e D’Elia (contrabbasso). In genere artisti eccellenti, che da allora ne hanno fatto strada: ma vi assicuro che in quel lontano 14 marzo 1936, salirono sul piccolo palcoscenico del circolo “Nuova Vita” tremanti di emozione. Ricordo che, con apparente freddezza, li avevo esortati a fare del buon jazz, solamente del buon jazz: “siate più hot che potete”. In prima fila, tra gli spettatori c ’erano i più bollenti soci del circolo…”Il complessino iniziò esitante, timido: fece dello straight più che hot, e cominciò Gallone a “svisare”, uscendo, purtroppo, imperterrito, fuori dalle armonie  del tema con suprema disperazione dei suoi compagni . I quali , verso la fine del programma, cominciarono a scaldarsi davvero, suscitando gli applausi frenetici del pubblico. Nei primi mesi del 1938 il circolo morì quietamente. Gli attivisti si erano stancati perché erano troppo pochi e i tempi non erano propizi per certe cose. Venne la guerra e di jazz non si parlò più per qualche anno. Nel 1949  Charles Delaunay mi fece sapere di essere a buon punto con l’organizzazione di un grande festival del jazz che si sarebbe svolto nel mese di maggio alla Salle Pleyel, a Parigi, e che sarebbe durato una settimana. Erano previsti due concerti al giorno con complessi americani ed europei sarebbero arrivati Charlie Parker, Sidney Bechet , Miles Davis, Max Roach, Tadd Dameron, “Hot Lips” Page  e Dio sa quanti altri. Nel darmi queste strepitose notizie , Delaunay mi chiedeva di inviare al festival un musicista in rappresentanza del jazz italiano  e mi invitava a Parigi: avrei potuto scrivere una recensione dei concerti. Dovendo scegliere un solo musicista non poteva che trattarsi che di un pianista: ma chi era il migliore?  Dopo essermi guardato attorno  e avere consultato qualche amico mi fissai sul nome di Armando Trovajoli. Arrivammo che il festival era già iniziato. Trovai Delaunay un po’ giù di corda. “Stiamo perdendo soldi” mi confidò con un mesto sorriso “E  Parker?” gli chiesi subito. Parker per noi era una specie di padreterno: ero arrivato a Parigi soprattutto per ascoltare lui. “Con Charlie non si può mai sapere  cosa può  succedere . Appena arrivato a Parigi, qualcuno gli ha fatto conoscere i vini francesi, e allora sono stati guai” . Flavio Ambrosetti, un amico nostro che militava nel sestetto svizzero di Hazy Osterwald, e che suonava, come tanti in quegli anni, in uno stile simile a quello di  Parker, fu ancora più tranchant: “Parker è finito” , mi disse, con accento dolente. In realtà il grande Bird non era affatto finito, come si sarebbe visto negli anni successivi : era solo inebetito dall’alcool e dall’eroina . Resterà per me sempre un mistero come sia stato possibile a un “pirata” discografico mettere insieme un long playing più che decoroso utilizzando le registrazioni effettuate, con mezzi di fortuna, durante quei concerti. Forse ha scelto pezzi eseguiti  nei momenti felici che Parker riusciva ogni tanto a trovare. Comunque sia, io ricordo Parker in condizioni pietose: con un sorriso stolido sulle labbra, dondolante sulle gambe malferme anche sul palcoscenico . E ricordo le sue goffe presentazioni in cui cercava di essere  spiritoso. Rammento  anche il tentativo fatto da non so quale giornalista di intervistarlo, fra le quinte. Costui, che si era presentato molto compitamente, non riuscì a porgli una sola domanda . Aveva appena aperto bocca che già Chiarlie lo abbracciava e lo baciava sulle guance con trasporto : “My friend” ripeteva, ed era sicuro che non l’aveva mai visto prima. A parte Charlie Parker, quei concerti rappresentarono per me una specie di viaggio nel Paese delle meraviglie .Eravamo tutti intimiditi: noi appassionati di jazz perchè eravamo al primo nostro incontro con i grandi d’oltre oceano. I musicisti americani, che erano quasi tutti alla loro prima spedizione  oltre Atlantico   non sapevano come comportarsi di fronte ad un pubblico entusiasta e adorante quale non avevano mai incontrato. In patria erano dei poveracci, trattati il più delle volte con aperto disprezzo. A Parigi erano divi a cui si chiedeva rispettosamente l’autografo . Il più intimidito di tutti era Miles Davis . Era un musicista ammirevole (aveva da poco inciso una parte dei suoi famosissimi dischi Capitol e altri ne avrebbe registrati subito dopo il suo ritorno in patria)  ma era poco più che un ragazzo : avrebbe compito ventitré anni  di lì a pochi giorni. Aveva i capelli impomatati e ondulati e la faccia impassibile di sempre, ma nei suoi occhi si leggeva una sconfinata timidezza. (In quegli stessi occhi, parecchi anni dopo, si sarebbe letta una sconfinata arroganza…). I concerti alla Salle Pleyel non costituivano le uniche jazzistiche emozioni che Parigi poteva offrire in quei giorni ai pellegrini dal jazz arrivati ai quattro angoli d’Europa. Sul piccolo palco del Club St.Germain suonava chiunque ne avesse voglia . Ogni sconosciuto poteva misurarsi con i giganti di oltre oceano ,e magari giovarsi  dell’accompagnamento di Max Roach, che in quei giorni ci aveva lasciato tutti allocchiti. Quando tornai a casa, in Italia, avevo le orecchie piene di jazz. Quello che avevo ascoltato avrebbe dovuto bastarmi per mesi. Emi bastò. Per lo meno fino a quando non arrivò a Milano Louis Armostrong coi suoi All Stars.

Da Stasera Jazz di ARRIGO POLILLO

Abbiamo tratto questo passo del libro di Arrigo Polillo   “Stasera  Jazz” perché descrive splendidamente le emozioni e le gioie che un appassionato di jazz prova nell’ascoltare i suoi beniamini. I brani che accompagnano le foto sono uno strepitoso “Night in Tunisia” con Charlie Parker (qui in splendida forma) al sax alto, Dizzy Gillespie alla tromba, Bud Powell al pianoforte, Charlie Mingus al contrabbasso, Max Roach alla batteria. Segue Alternate One  un blues spettacolare eseguito da due trombettisti leggendari come Dizzy Gillespie che in questo frangente suona la tromba con sordina e lo sfavillane Freddie Hubbard. I due sono accompagnati da Oscar Peterson al pianoforte, Niels Pedersen al contrabasso, Joe Pass alla chitarra, Bobby Durham alla batteria.
GOOD VIBRATION.!!!!
P.s  Ci scusiamo ma alcuni nomi di jazzisti non sono esatti ce ne siamo resi conto solo dopo aver caricato il girello.


Luciano Granieri.

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