Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 16 settembre 2011

L'economia uccide più delle bombe

Flavio Lotti , Mario Pianta  fonte http://www.sbilanciamoci.info



A 50 anni dalla prima marcia Perugia-Assisi e a 14 anni dalla marcia "per un'economia di giustizia", i pacifisti saranno di nuovo in cammino il 25 settembre 2011. Nel mezzo della crisi europea. È l'occasione per rileggere l'appello di 14 anni fa, le cose non fatte allora, e urgentissime adesso
"L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe". "Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone" e cresce in un'economia che privilegia "le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anziché la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione". Dopo la crisi finanziaria di questi mesi non è difficile essere d'accordo con questa critica. Ma queste parole erano scritte 14 anni fa nell'appello della Marcia Perugia-Assisi "Per un'economia di giustizia" del 12 ottobre 1997. La Tavola della Pace, nata in quell'occasione, portò centomila persone a chiedere – con indubbia capacità di anticipazione – un'economia meno ingiusta.
La pace si costruisce con la giustizia, e l'ingiustizia dell'economia che si globalizza è la fonte principale dei conflitti, "uccide più delle bombe". La soluzione è in un ordine internazionale che faccia a meno delle armi – era ancora aperta l'occasione del disarmo alla fine della guerra fredda – e che riduca sottosviluppo e disuguaglianze. Per farlo, il potere dei mercati, della finanza e delle grandi imprese multinazionali deve cedere il passo agli strumenti della politica e ai diritti delle persone. Questo il filo del discorso di allora.
L'analisi era precisa: le disuguaglianze aumentano ovunque, i problemi di sopravvivenza della parte più povera dell'umanità sono irrisolti, il sottosviluppo genera disastri ambientali, lotta per le risorse, conflitti senza fine. L'ingiustizia viene dal neoliberismo e da una logica di profitto che impedisce il benessere di tutti; il mercato calpesta le persone e i benefici di tutto questo vanno ad "alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone".
Qualcosa è cambiato da allora, non molto nella sostanza. Allora non si immaginava che l'Italia sarebbe stata messa fuori così presto dal gruppo dei paesi forti, che da allora a oggi il Prodotto interno lordo (Pil) italiano in termini reali non sarebbe praticamente aumentato. Cina, India, altri paesi asiatici, alcuni paesi dell'America latina hanno avuto un rapido sviluppo, i redditi medi sono aumentati, ma così pure le disuguaglianze – enormi – interne a quei paesi. L'ingiustizia non è diminuita.
L'insostenibilità del modello neoliberista ha portato al grande crollo del 2008 e alla recessione attuale, ma il potere politico ed economico resta aggrappato all'intoccabilità della finanza e al mito dell'efficienza dei mercati. Così l'insostenibilità si aggrava.
È cambiato – denunciato solo dai pacifisti – il ricorso alla forza militare, tornato all'ordine del giorno. Dalla guerra nei Balcani del 1999 ai bombardamenti in Libia di oggi – passando per le guerre del Golfo e in Afghanistan – l'occidente e il nostro paese si sono rimessi a fare la guerra per imporre un ordine neocoloniale, occasionalmente travestito con la tutela dei diritti umani. Le vittime – e le conseguenze – si moltiplicano.
Che cosa si chiedeva, 14 anni fa, ai potenti dell'economia? Partire dalle persone, battersi contro povertà e disuguaglianze, dare lavoro a tutti e dare dignità al lavoro, mettere cooperazione, democrazia e sostenibilità dentro l'economia. Mentre la globalizzazione neoliberista costruiva i suoi pilastri – il "consenso di Washington" e l'Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) – i pacifisti chiedevano ai governi un'autorità politica sovranazionale che bilanciasse il potere dell'economia globale e la perdita di sovranità degli stati. La scommessa era di democratizzare e riformare il sistema delle Nazioni Unite, dare spazio all'agenda illuminata delle grandi conferenze Onu degli anni '90 – sull'ambiente, le donne, lo sviluppo sociale, il razzismo, etc. – e alle convenzioni sul lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro dell'Onu – creando una possibile difesa contro una globalizzazione pagata dai lavoratori.
Quest'offensiva "cosmopolitica" ha avuto pochi risultati, l'Onu si è ripiegata su se stessa, soprattutto negli anni bui delle presidenze Bush, le conferenze Onu a dieci anni di distanza hanno tutte registrato un arretramento degli obiettivi di cambiamento. Ma anche la globalizzazione è finita, prima ancora della crisi del 2008; la "spinta propulsiva" del libero commercio e dell'Omc si è esaurita, si è affermata una dinamica regionale – in Asia e America latina, come in Europa – che diversifica le traiettorie di sviluppo.
Agli organismi sovranazionali – Fondo monetario e Banca mondiale – si chiedeva di cambiare politica e "la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2.000 miliardi di dollari". Ora il debito del terzo mondo non è più cosi pesante, e l'Italia da sola supera quella cifra, con un debito che in dollari vale 2700 miliardi. Perfino l'Fmi ha moderato la sua ortodossia liberista; in compenso, la sua vittima più recente è diventata la Grecia.
Alle politiche dei governi si chiedeva "di redistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro", di tutelare i diritti dei lavoratori, di dare spazio alle donne e all'economia solidale. Su questo fronte – tutte responsabilità rimaste alla politica nazionale – nulla è stato fatto, continuiamo ad arretrare rispetto a 14 anni fa, le richieste di oggi sono le stesse. Il sistema politico degli stati sembra più immobile di quello mondiale.
Per i pacifisti, poi, c'era la "responsabilità di agire". Non solo marce e proteste. Si è lavorato a costruire reti transnazionali di società civile capaci di proporre alternative, che avessero ascolto nelle istituzioni globali. Per questo 14 anni fa a Perugia si tenne – prima della marcia – la prima Assemblea dell'Onu dei popoli con un centinaio di rappresentanti di movimenti, associazioni, comunità locali di altrettanti paesi diversi. E due anni dopo, nel 1999, la successiva Assemblea dell'Onu dei popoli si intitolava "Un altro mondo è possibile": tre mesi dopo ci fu la rivolta di Seattle contro l'Omc e un anno e mezzo dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre scelse lo stesso titolo. Incontri di massa di questo tipo tra i movimenti di tutto il mondo sono diventati appuntamenti regolari, e la società civile – con le sue reti, campagne, eventi – è diventata un soggetto visibile e influente sulla scena globale.
Agire ha voluto dire fare dell'economia di giustizia un tema condiviso da centinaia di associazioni ed enti locali, capace di mettere in moto migliaia e migliaia di persone, aprendo la via alle proteste di massa degli anni successivi contro la globalizzazione liberista, fino al G8 di Genova del 2001.
Agire ha voluto dire incalzare la politica ad affrontare le ingiustizie, proporre alternative. Nel 2005 all'Assemblea dell'Onu dei Popoli ci fu un confronto con Romano Prodi, candidato del centro-sinistra alle elezioni (vittoriose) dell'anno successivo. Fece qualche apertura sul ritiro italiano dalla guerra in Iraq – poi realizzato dal governo – ma difese la globalizzazione come forza positiva e l'integrazione europea guidata da mercati e moneta. I risultati di quelle politiche – il crollo del 2008, la crisi dell'euro, disuguaglianze record – sono ora sotto gli occhi di tutti. Chissà se il centro-sinistra saprà imparare dagli errori commessi? Sarebbe interessante un nuovo confronto, a Perugia quest'anno.
Oggi come 14 anni fa i nodi irrisolti restano il potere dei mercati, della finanza e delle imprese, e l'assenza di una politica capace di affrontare le ingiustizie, nazionali e globali. Qui si misura il fallimento di un'Europa che ha costruito la sua integrazione sul liberismo e la finanza, e ora si trova sotto l'attacco della speculazione, divisa e indebolita.
Troppe cose non sono state fatte allora. L'agenda per cambiare non è cambiata. Per limitare il potere della finanza si chiedeva già allora la Tobin Tax sugli scambi di valute. Impensabile e irrealizzabile, ci rispondevano. Ora la fattibilità della tassa sulle transazioni finanziarie è sostenuta da Fondo monetario e Unione europea (Merkel compresa), ma manca ancora la volontà politica di introdurla.
Più aiuti allo sviluppo si chiedevano allora; i governi dei paesi ricchi si sono reimpegnati all'Onu nel 2000 a destinare lo 0,7% del loro Pil agli aiuti allo sviluppo, ma hanno subito mancato le promesse; con la crisi attuale gli aiuti sono i primi tagli effettuati.
Più occupazione e diritti per tutti i lavoratori, si chiedeva. Ora l'Unione europea ha 23 milioni di disoccupati – un problema non diverso da allora – e in più 15 milioni con lavori temporanei, a tempo pieno o parziale: una precarizzazione generale che 14 anni fa non avremmo sospettato.
Le cose non fatte allora sono diventate urgentissime adesso, con l'ingiustizia che si è fatta strada nel nostro paese, i problemi aggravati dalla crisi, la politica sempre più screditata. Le alternative ci sono, oggi come allora. Le forze del cambiamento anche, unite da un filo che attraversa le mobilitazioni di decenni. Pacifisti e movimenti saranno ancora sulla strada da Perugia ad Assisi, l'appuntamento è per la mattina presto, domenica 25 settembre 2011.

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