Forze potenti, politiche e sociali, nazionali e internazionali, da tempo vogliono ridurre o annientare gli spazi di democrazia presenti nella vita politica del nostro paese. Questo disegno si condensa attorno al progetto di riforma costituzionale e istituzionale che da decenni attraversa il dibattito tra e nelle principali forze politiche.
Il progetto non riflette solo la vocazione autoritaria della destra italiana. Esso si basa piuttosto sulla brutalità delle politiche di austerità che si vogliono imporre alla stragrande maggioranza della popolazione. Si tratta di politiche che per gli espliciti costi sociali che comportano mai riuscirebbero a imporsi se il governo riflettesse veramente i bisogni e le aspirazioni di questa maggioranza.
Queste politiche sono solo all’inizio. Non sono legate al passato berlusconiano ma si proiettano sul nostro avvenire. Ciò che sta accadendo in Grecia è il modello al quale vogliono richiamarsi tutte le classi dirigenti europee e in particolare quella italiana.
Il Fiscal Compact voluto dall’Unione europea e sottoscritto dal nostro governo impone feroci tagli di bilancio per i prossimi due decenni, pretende la sostanziale cancellazione di tutto ciò che resta dello stato sociale, vuole un ulteriore abbassamento delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti e la cancellazione delle loro tutele sindacali e giuridiche.
Tutte queste politiche non possono basarsi su di un ampio consenso democraticamente espresso; anche qui le dure manifestazioni di opposizione del popolo greco ai memorandum della Troika europea e alle politiche del governo Samaras sono la dimostrazione dell’assenza strutturale di consenso sociale in un contesto di politiche di questa natura.
E, dunque, per gestire queste politiche occorre un assetto istituzionale e costituzionale nel quale la vera volontà del popolo possa essere piegata ai bisogni delle classi dirigenti. Da qui tutta la campagna basata sulla presunta necessità di “ammodernare” la costituzione, di doverla adeguare alle nuove necessità, tacendo che questa necessità vuole in realtà rendere le istituzioni più agilmente manovrabili al fine di gestire le politiche dell’austerità con la minore opposizione possibile.
E’ questa la radice della ostinazione con cui tutta la politica del palazzo vuole violentare le forme e la sostanza della democrazia nel nostro paese.
Ecco perché riteniamo giusto batterci per difendere quelle forme e, soprattutto quella sostanza. La manifestazione del 12 ottobre è stata convocata a partire da un appello (“La via Maestra”) lanciato ai primi di settembre da alcune personalità del sindacato, dell’associazionismo e della cultura. Essa può perciò polarizzare tante e tanti che oggi sono sinceramente preoccupati per l’attacco alla democrazia e alle garanzie costituzionali.
Occorre però puntualizzare anche limiti, ambiguità e rimozioni insiti in quell’appello e, più in generale, nell’iniziativa del 12 ottobre.
In primo luogo occorre dire che tutto l’appello sembra alludere alla necessità di contrastare il disegno autoritario della destra. Questo disegno c’è, e c’è da tempo (era il progetto della P2 e di Gelli). Ma non è più solo il progetto della destra. Esso è diventato il progetto di tutte le forze politiche istituzionali.
Anzi, occorre ricordare che il PD (oltre che i suoi predecessori PDS e DS) si è a volte battuto più del centrodestra per una riforma costituzionale in senso efficientistico e sostanzialmente presidenzialista. Basta ricordare l’iniziativa della commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema alla fine degli anni 90, la riforma del Titolo V fatta nel 2001, che ha differenziato i servizi, in particolare sanitari, tra le regioni più ricche e quelle più povere e, da ultimo, ma estremamente signifiativo, l’introduzione nell’articolo 81 della Costituzione dell’obbligo al pareggio di bilancio, approvato dal parlamento nel 2012 quasi all’unanimità, che nei fatti impedisce ogni intervento pubblico nell’economia.
Ma non solo. Oggi, c’è un grande regista della riforma costituzionale, ed è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, con i suoi comportamentio concreti, sia nel settennato precedente, sia in quello appena riapertosi dopo la sua elezione nell’aprile di quest’anno sta già operando con uno spirito presidenzialista, facendo e disfacendo i governi, intervenendo pesantemente nelle scelte politiche e nella gestione dei complessi equilibri richiesti dalle “larghe intese”.
Ma nell’appello c’è un limite più di fondo.
La rivendicazione del rilancio della Costituzione del 1948 elude il fatto che quel testo era il frutto del compromesso stipulato nel nostro paese all’indomani della caduta del fascismo sul piano politico tra i principali partiti e sul piano sociale tra la borghesia italiana (uscita sconfitta dalla guerra e dalla Resistenza) e coloro che si proponevano come rappresentanti delle classi lavoratrici. Quel compromesso (che sottintendeva un progetto di ampio progresso sociale in cambio del rispetto della legge del profitto, della proprietà privata, dei privilegi ecclesiastici) si fondava su rapporti di forza sempre più favorevoli per le classi subalterne, dovuti sia alle lotte di quei decenni sia alla crescita numerica e sociale della classe operaia, sullo slancio dello sviluppo economico postbellico. Tant’è che una serie di indicazioni formali contenute nella Costituzione sono state realizzate solo negli anni 70 a seguito di imponenti lotte sociali.
Ora quel compromesso sociale non esiste più. Non esiste più perché non ne esistono più i presupposti. Non c’è più l’equilibrio internazionale tra le “grandi potenze” che ne era stato il retroterra geopolitico, non ci sono più i partiti politici che lo stipularono, soprattutto non ci sono più i rapporti di forza tra le classi favorevoli ai lavoratori, che escono fortemente sconfitti da tre decenni di aggressione padronale.
Ormai la Costituzione italiana, giustamente ritenuta tra le più avanzate del mondo occidentale, è stata pesantemente violentata nella forma (dalle ripetute incursioni controriformistiche venute da destra e dal centrosinistra e negli ultimi tempi perfino congiuntamente) e nella sostanza con la distruzione o la devastazione di tutte le conquiste sociali che avevano cercato di concretizzarne il disegno (degrado della scuola e della sanità pubbliche, cancellazione della progressività dell’imposizione fiscale, violazione del ripudio della guerra, ecc.). Allora rivendicare che si possa reimbiancare quel compromesso e rilanciarne lo spirito risulta utopistico e velleitario e rischia di spingere i movimenti di lotta contro l’attacco padronale e governativo in un binario morto, di illuderli sulla possibilità di trovare interlocutori disponibili e amichevoli.
In realtà è invece necessaria la più netta consapevolezza sulla compattezza della classe dominante dietro la politica antioperaia e antipopolare, sulla necessità di sconfiggerla nel suo complesso, senza illudersi sulla presunta esistenza di un settore borghese progressista e disponibile al compromesso. D’altra parte, già nei primi anni 2000, Sergio Marchionne venne irresponsabilmente descritto da qualcuno come progressista. Come sia andata a finire ormai è noto a tutti.
Infine, quell’appello allude alla possibilità di costruire un nuovo spazio politico, solleticando la diffusa insoddisfazione per ciò che esiste e, soprattutto, per ciò che non esiste a sinistra. Non saremo certo noi a negare la necessità di colmare il vuoto politico alla sinistra del PD. Un vuoto che non può certo essere riempito da SEL, completamente integrata come anima sinistra del centrosinistra, né dal PRC, non solo perché ridotto a poca cosa dalle sue ripetute scissioni ma, soprattutto, per la verticale perdita di credibilità nella disastrosa vicenda del governo Prodi, mai riconquistata anche per la ostinata ambiguità politica nei confronti del centrosinistra. Un progetto di costruzione di un soggetto politico nuovo va dunque perseguito. Ma può essere l’appello per il 12 ottobre il contesto in cui lavorare a questo scopo? Certamente non può essere il rilancio della Costituzione del 1948 il programma politico del soggetto di cui c’è bisogno.
In particolare le giovani generazioni di quella Costituzione hanno vissuto solo lo stravolgimento.
La sua sostanziale incapacità di impedire il massacro sociale in corso da anni. Una Costituzione che non ha impedito né limitato le privatizzazioni, la precarietà dilagante, le guerre, la distruzione dei diritti, la crescita delle diseguaglianze…
Perché dunque impegnarsi per riaffermare un documento che ha dimostrato tutta la sua irrilevanza? E soprattutto quale collocazione politica e quale strategia dovrebbe adottare il soggetto politico in questione?
Dovrebbe puntare a stimolare il riaffiorare nel PD delle presunte radici di sinistra o, piuttosto, prendere atto che sia la destra che il centrosinistra sostengono entrambi, seppure con impostazioni a volte diverse, la politica dell’austerità e della controriforma autoritaria? La nostra risposta a queste domande è chiara. Per noi lo spazio politico da costruire deve essere nettamente alternativo al centrosinistra e al PD (oltre che alla destra, ovviamente). E deve avere un profilo dichiaratamente anticapitalista, individuare cioè nel capitalismo, nella logica del profitto e nella proprietà privata dei mezzi di produzione la radice del degrado sociale di questa epoca. Deve certo difendere le libertà democratiche messe pesantemente in discussione dal PD, dal PdL e dalla presidenza della Repubblica, ma senza illudersi nel sogno di un nuovo patto sociale.
L’ideologia della difesa della Costituzione purtroppo non ha impedito allo stesso Landini di avallare il patto antidemocratico del 31 maggio che demolisce i diritti sindacali o a Stefano Rodotà di accodarsi alla criminalizzazione dei movimenti, accostando le giuste lotte dei NoTav in Val di Susa con pratiche mafiose. La manifestazione del 12 non può essere contrapposta con le giuste lotte dei movimenti sociali e dei sindacati di base che si esprimeranno in piazza il 18 e 19 ottobre.
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