Con una recessione alle porte, allinearsi al telaio liberista e austeritario dell’attuale Unione Europea, barattando qualche margine di flessibilità nei conti aritmetici, significa non aver capito cosa si muove nelle viscere del Paese
Vedere Matteo Salvini ringhiare sui social senza, per farlo,
avere a disposizione il Ministero dell’Interno, voli di Stato per raggiungere
le spiagge e un ufficio stampa di 43 addetti pagati dai contribuenti, è
senz’altro un sollievo.
Pensare tuttavia che Salvini sia stato un raffreddore
istituzionale, curabile con una semplice pasticca giallo-salmone (definirla
giallo-rossa mi sembra indice di daltonismo), sarebbe un errore esiziale.
Non solo perché la metà del nuovo governo ha condiviso tutto con
Salvini per oltre un anno e l’altra metà ne ha preparato il successo con le
politiche precedentemente messe in campo; soprattutto perché Salvini, lungi
dall’essere un problema di “Palazzo”, risolvibile all’interno dello stesso, è
il sintomo di qualcosa che ha squassato la società nel profondo e che, se non
viene compreso, rischia di far diventare il suo «arrivederci» una probabile
realtà.
Da questo punto di vista, il programma del nascente governo
sembra a dir poco sorvolare.
Con una recessione alle porte, allinearsi al telaio liberista e
austeritario dell’attuale Unione Europea, barattando qualche margine di
flessibilità nei conti aritmetici, significa non aver capito cosa si muove
nelle viscere del Paese.
Continuare a non prendere di petto la trappola artificialmente
costruita del debito pubblico, utile a disciplinare la società e a mettere sul
mercato ciò che sinora ne era escluso perché garanzia di diritti, significa
riprodurre il teatrino del «C’è il debito, non ci sono i soldi», a cui sarà facile,
per il Salvini di turno, replicare «Se i soldi non ci sono, prima gli
italiani!».
Ciò che da tempo scuote la società sono la precarietà
esistenziale e la solitudine competitiva, nelle quali le persone sono state
immerse, grazie a tre decenni di politiche liberiste e di pensiero unico del
mercato.
È da questo che nasce il rancore che domina le relazioni sociali
e l’angoscia che avviluppa il pensiero sul futuro, amplificati dalle sfide che
abbiamo di fronte: diseguaglianza sociale, cambiamento climatico, innovazione
produttiva 4.0, migrazioni.
In questo quadro, sono i movimenti sociali che ancora mancano
all’appello, non tanto nell’insieme di lotte, pratiche ed esperienze che
attraversano il Paese (più numerose e ricche di quanto si creda), quanto nell’intenzionalità
di collocarle dentro un orizzonte collettivo di riappropriazione sociale, che
si prefigga la costruzione di un contropotere dal basso, capace di incidere
sull’agenda politica e di costruire, qui ed ora, le tappe di un percorso per
una società diversa.
La società è, infatti, il campo di battaglia, e, mai come ora,
servirebbe una mobilitazione sociale ampia, determinata, diffusa e reticolare,
per costruire dal basso una nuova visione del mondo e praticare un nuovo
modello ecologico, sociale e relazionale.
In questa direzione, un’occasione da non perdere è l’università estiva di Attac
Italia, che, dal 13 al 15 settembre a Cecina Mare (Livorno), discuterà
esattamente de «La società che vogliamo», attraverso sei seminari che
proveranno a declinare i temi: «lavoro e reddito», «la rivoluzione ecologica»,
«pubblico, privato e comune», «la rivoluzione femminista», «la questione
europea» e «la democrazia».
Lo faremo con Marco Bersani, Fiorella Bomè, Barbara Bonomi
Romagnoli, Roberto Ciccarelli, Pino Cosentino, Alice Dal Gobbo, Paolo Gerbaudo,
Vittorio Lovera, Giuseppe Micciarelli, Stefano Risso, Marco Schiaffino, Roberto
Spini, Marina Turi
(per informazioni https://www.italia.attac.org/index.php/universita-attac/universita-estiva-2019/10966-universita-estiva-2019-di-attac-it
fonte: il manifesto del 07 settembre 2019
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