Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 28 dicembre 2011

Audit sul debito, istruzioni per l'uso

Guido Viale.Fonte "il manifesto" del 28/12


Il costo del debito pubblico italiano non è sostenibile: 8585miliardi di euro all’anno di interessi su 1.900miliardi di debito complessivo, che l’anno prossimo saranno probabilmente di più: 90-100; a cui dal 2015 si aggiungeranno (ma nessuno ne parla) altri 40-50 miliardi all’anno, previsti dal patto di stabilità europeo, per riportare progressivamente i debiti pubblici dell’eurozona al 60% del Pil. Ma questa è solo la parte nota del nostro debito pubblico; ce n’è un’altra “nascosta”, che forse vale quasi altrettanto e che emergerà poco per volta, mano a mano che verranno a scadenza impegni che lo Stato o qualche Ente pubblico hanno assunto per conto di operatori privati sotto le mentite spoglie di una finanza di progetto. Il Tav (treno ad alta velocità) è l’esempio e il modello più clamoroso di questo sistema; comporta per la finanza pubblica – finora,ma non è finita qui, e Passere ci si è messo d’impegno – un onere nascosto di circa 100 miliardi di euro. Ma secondo Ivan Cicconi dietro la circa 20 mila Spa messe in piedi dalle diverse amministrazioni locali si nasconde  un numero indeterminato di “finanze di progetto” , i cui oneri verranno alla luce poco per volta nei prossimi anni. Doppia insostenibilità Colpa della Politica? Certamente. Ma soprattutto colpa delle privatizzazioni, che non sono un’alternativa agli sperperi della Politica, ma il loro potenziamento a beneficio della finanza privata e di profittatori di ogni risma. La vera alternativa alla cattiva politica è la trasparenza e il controllo dal basso della spesa e dei servizi pubblici: la loro riconquista come beni comuni.
Finora gli interessi sul debito pubblico italiano sono stati pagati ogni anno, in tutto o in parte, con nuovo debito (che infatti è in larga parte il prodotto non di veri  investimenti, mai fatti, ma di interessi accumulati nel corso del tempo). Ma con il pareggio di bilancio in Costituzione, quegli 85-100 e poi 130-150 miliardi all’anno, dovranno essere ricavati interamente da un taglio ulteriore  della spesa pubblica o da maggiori entrate fiscali. Finchè il sistema finanziario globale è stato stabile, il debito italiano (ora al 120 per cento del Pil) non creava problemi: era una cuccagna sia per coloro che incassavano gli interessi, sia, soprattutto, per l’evasione fscale (120 miliardi) e la corruzione (altri 60 miliardi; altro che le pensioni troppo generose!). Quei costi e quegli ammanchi venivano infatti coperti dal Stato, indebitandosi. Ma da quando il sistema finanziario è diventato turbolento ( e nei prossimi anni lo sarà sempre di più) fare fronte a quel debito è sempre più difficile e costoso; e prima o dopo la corda si spezza. E’ un po’ quello che è successo con i mutui subprime, per anni hanno reso bene a chi li concedeva, a chi li rivendeva impacchettati a milioni nei cosiddetti Cdo, e a chi li comprava, ripartendo il rischio  -  come sostiene la teoria economica  - su tutto il pianeta: in particolare, per quello che riguarda l’Europa, tra le banche inglesi, francesi, e tedesche, che ne sono ancora oggi piene. Ma un debito non può crescere e accumularsi all’infinito; prima o dopo arriva la resa dei conti. Con i mutui subprime la si è in parte attutita e in parte nascosta finanziando a man bassa, con migliaia di miliardi di denaro pubblico, le banche che li detengono perché non fallissero. Con i debiti pubblici dei paesi dell’Europa mediterranea la Bce di Draghi ha deciso di fare la stessa cosa: finanziare le banche a tassi scontati perché riacquistassero i debiti pubblici in scadenza, a tassi  cinque-sette volte maggiori .  E le banche lucrano la differenza . Ma è un gioco che non può durare in eterno; nemmeno se, per miracolo, la Bce fosse autorizzata a comprare quei titoli  direttamente (“stampando” – come si dice, me le cose non stanno proprio così – moneta). Che cosa c’è allora , alla stazione di arrivo di questo binario? O la “crescita” o il default. Ecco perché politici ed economisti (e gli economisti-politici) si sbracciano a snocciolare  ricette inconsistenti  e persino ridicole per la “crescita”.Ma quale crescita? Con il pareggio di bilancio  - e in un contesto in cui gli interessi sul debito non vanno a sostenere la domanda, ma volano a gonfiare la bolla finanziaria  - per tornare a crescere il Pil italiano dovrebbe aumentare a un tasso superiore all’incidenza del servizio del debito (interessi più ratei di rimborso) . Ritmi cinesi ( e di una Cina che non c’è più) se lo spread resta ai livelli attuali; ma anche, a partire dal 2015, se tornasse a livelli giudicati “normali”. Ma niente di questo è in vista: invece di crescere , l’Italia è già in recessione; l’Europa sta per entrarci: le economie emergenti non “tirano” più e il mondo intero sta correndo incontro a un disastro ambientale irreversibile. Per questo il default non è fantascienza ma , ahimè, una prospettiva sempre più probabile; non ci siamo abituati, ma non sarebbe né il primo né l’ultimo della storia. Meglio dunque prepararsi. E prepararsi vuol dire negoziare a livello europeo una ristrutturazione del debito (di molti paesi; e di molte banche; anche quelle dei paesi più forti). E per  ristrutturare i debiti bisogna sapere come si sono formati , chi li detiene, e come isolare le conseguenze più negative di un loro congelamento, di una loro riduzione (il cosiddetto haircut: taglio di capelli) o di un loro annullamento selettivo (larga parte del debito italiano è classificato come “odioso” e “illegittimo” a seconda delle categorie coinvolte. E’ l’audit del debito: un programma che dovrebbe vederci impegnati per i prossimi mesi e forse anni; ma con cui è possibile costruire in forme condivise una piattaforma alternativa di governo dell’economia. In altri paesi – in Europa, Grecia, Irlanda, Spagna; e in altri in America Latina – questo lavoro è già in corso. Da noi potrebbe assumere dimensioni più vaste e profonde. Non si tratta infatti soltanto di coinvolgere un gruppo di economisti -  il più vasto possibile -  disposti a impegnarsi in questo esercizio; di rivendicare l’accesso ai documenti mai resi pubblici; e di diffondere i risultati della ricerca con una grande campagna di informazione . Per essere esauriente l’audit dovrebbe ricostruirne non solo il passato – come si è formato il debito – ma scavare nel presente  e, per i motivi spiegati prima, anche nel futuro. Cioè portare alla luce come viene gestita la spesa pubblica nella sua dimensione operativa. Per condurre un audit in questo modo bisognerebbe costruire in ogni città e in ogni ente un nucleo di persone disposte e interessate a rendere pubblico – senza violare per ora alcun obbligo di riservatezza – il modo in cui concretamente si formano le decisioni relative all’erogazione della spesa in cui il loro ufficio o il loro servizio è coinvolto; e di includere in questa disamina una rappresentanza dei cosiddetti stakeholder, gli utenti, siano essi pazienti, fruitori, soggetti di registrazione o controlli, o contribuenti; le imprese che accedono a qualche servizio o che ne sono fornitori; le altre banche, correlate, della pubblica amministrazione. Chiunque abbia lavorato in o a contatto con organismi pubblici sa che tra le leggi che disciplinano una materia e la loro applicazione operativa c’è un’infinità di passaggi, alcuni normati in forma di regolamento, altri gestiti in modo discrezionale, alcuni del tutto inutili o facilmente semplificabili, e molti sottoposti ai condizionamenti delle lobby legali che di attività illecite. In più, chiunque abbia lavorato in questo contesto sa che in certi ambiti  una parte del personale è veramente superflua , perché l’organico risponde esclusivamente  a una logica di potere della gerarchia; mentre in altri è decisamente insufficiente  o insufficientemente qualificata; e che anche la mobilità interna potrebbe essere gestita molto meglio, e in modo non vessatorio, con il coinvolgimento non episodico e non condizionato sia di chi il lavoro lo svolge tutti i giorni che di chi ne fruisce o concorre al suo risultato come fornitore o utente.  Si tratta di portare tutto questo alla luce, connettendo, mano a mano che l’analisi procede, al contesto dell’elaborazione macro sul debito sviluppata dagli economisti. Una riforma democratica della spesa pubblica e del debito non può prescindere da un’operazione del genere. Ma non può prescindere nemmeno una vera riforma della pubblica amministrazione fondata sui principi della partecipazione. Quella spending review che Brunetta ha varato interpretandola come licenza di bastonare  sadicamente i lavoratori e Tremonti cone programma di “tagli lineari” a cui sottoporre in modo indiscriminato e devastante tanto gli organici della pubblica amministrazione quanto la dotazione di risorse gestita da ogni servizio, i lavoratori del pubblico impiego la potrebbero prendere nelle loro mani. Per farne la base tanto di una piattaforma rivendicativa per una riorganizzazione dal basso del loro lavoro, quanto di una informazione dirompente del modo in cui si forma giorno per giorno la spesa e giorno per giorno si accumula il debito. E’ una proposta irrealizzabile o è il completamento irrinunciabile di un programma di conversione ecologica?

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