Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 11 luglio 2014

Per capire meglio la questione palestinese

a cura di Mario Catania e Luciano Granieri


 Storia della Palestina
Proprietà della terra in Palestina
Ci sembra opportuno iniziare dando, sia pur molto brevemente, un’idea della struttura della proprietà rurale in Palestina e del ruolo della terra in questa società. Quella palestinese era all’inizio del ‘900 una società rurale, in cui i fellahin costituivano delle comunità caratterizzate dalla proprietà comune della terra e dal possesso dei mezzi di produzione (animali). La comunità che possedeva la terra era o quella dei residenti di un villaggio o quella della famiglia estesa. Nella stagione dell’aratura e della semina, la terra era divisa sulla base della capacita di coltivarla. Un feddan ad ogni uomo con un animale; mezzo feddan addizionale per ogni animale da lavoro in più. Un uomo senza animali aveva diritto a mezzo feddan. Nelle zone collinose o montagnose c’erano anche forme di proprietà individuale o familiare di orti e di terre con alberi. La proprietà era basata sulla capacita di piantare e mantenere gli alberi o sull’eredita. I confini, segnati con cactus o con muretti a secco, erano rispettati da tutti; lo stesso valeva per i confini dei pascoli delle tribù seminomadi. Il tentativo fatto a partire dal 1858 da parte dell’amministrazione ottomana di istituire un registro delle proprietà rurali non ebbe un grande successo, anche perche il registro era inteso anche come strumento di controllo della popolazione ai fini fiscali ed a quelli della leva militare. Un effetto collaterale dell’introduzione dei registri fu che alcune famiglie ed individui, approfittando della propria posizione nell’amministrazione o della propria influenza e della relativa arbitrarietà delle procedure di registrazione, riuscirono a fare registrare a proprio nome rilevanti appezzamenti di terra non loro. Ciò contribuì allo sviluppo di una classe di notabili urbani che, avendo nella terra la base del loro potere, riuscivano ad assicurarsi posizioni di rilievo nell’amministrazione ottomana. Comunque la proprieta collettiva continuo ad essere maggioritaria in Palestina fino alla creazione dello stato di Israele nel 1948. Questo fatto, come vedremo, renderà più facile l’espropriazione della terra da parte del governo israeliano.

La colonizzazione ebraica prima della nascita dello Stato di Israele
L’acquisizione della terra in Palestina da parte del movimento sionista inizia in modo sistematico all’inizio del ‘900. Strumento fondamentale fù l’istituzione del Fondo Nazionale Ebraico (Keren Kaymeth LeIsrael ), avvenuta nel 1901 proprio con l’obiettivo di raccogliere fondi fra la diaspora ebraica per l’acquisto e la ‘redenzione’ di terra in ‘Eretz Israel’. Nel 1947 le proprietà ebraiche coprivano il 6,6% della Palestina (1.734.000 dunum , ovvero 1.734 Kmq), di cui oltre la meta (933.000 dunum) era posseduta dal Fondo Nazionale Ebraico. Accanto al processo di acquisizione di terre da parte di singoli ebrei o di istituzioni sioniste, durante il mandato britannico si sviluppò un vero e proprio processo di confisca di terre gestito direttamente dalla potenza mandataria. La “Woods and Forest Ordinance” del 1920 permise la confisca di terreni utilizzati principalmente per il pascolo da parte delle tribù beduine e delle popolazioni rurali. Queste terre venivano classificate foreste statali e diventavano di proprietà  dello stato. Fra il 1927 ed il 1947 furono confiscati in questo modo 1.840.586 dunum di terra palestinese. Quando poi, il 15 maggio 1948, fu proclamato lo stato di Israele, le foreste statali furono considerate terra dello stato di Israele, cosı come le terre che non erano registrate come proprietà individuali (e quindi le terre possedute in modo collettivo dalle comunità  rurali), per un totale di 15.025.000 dunum.

Dalla nascita di Israele alla guerra del 1967
La politica di occupazione della terra (e delle abitazioni) ebbe una fortissima accelerazione durante la guerra, con l’espulsione sistematica dei palestinesi da larghe porzioni del territorio, e dopo, con l’imposizione alle popolazioni palestinesi della legge marziale, col mantenimento delle leggi d’emergenza emanate dall’amministrazione britannica ai tempi del mandato, ed infine con la Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950. Durante la guerra circa 400 villaggi arabi furono svuotati della loro popolazione e distrutti. Sulle terre di diversi di questi villaggi sorsero centri abitati o fattorie ebraiche. In molti casi gli arabi furono scacciati con la forza dalle truppe sioniste, a volte anche a seguito di veri e propri massacri, in altri casi fu la paura, alimentata da notizie di violenze subite dagli abitanti di villaggi vicini, a spingere gli arabi alla fuga. Alla fine della guerra circa 700.000 arabi palestinesi avevano abbandonato le terre dello stato di Israele. Nasceva il problema dei rifugiati, ancora oggi uno dei principali ostacoli alla soluzione del conflitto israelo-palestinese. Anche in questa occasione ritroviamo presente il Fondo nazionale Ebraico attraverso il suo direttore del dipartimento della terra, Josef Weitz. I primi scontri fra truppe sioniste e milizie arabe scoppiano poco dopo il piano di partizione dell’Onu del 29 novembre 1947, e Weitz “fu il primo a apprezzare - agendo di conseguenza - il potenziale per l’acquisizione di terre inerente allo stato di anarchia creato in Palestina allorchè le milizie rivali si scambiavano colpi sotto gli occhi dei reggimenti britannici occupati a organizzare la propria ritirata.” Che ci sia stato, come sostengono gli storici palestinesi, un piano preordinato per l’espulsione degli arabi da parte delle forze sioniste `è materia di discussione. Certamente è  priva di fondamento e unicamente propagandistica la tesi sostenuta per molti anni da parte sionista, che i palestinesi abbiano abbandonato volontariamente le proprie case su indicazione dei dirigenti arabi. L’accurata ricostruzione degli eventi fatta da Benny Morris non lascia dubbi. Le comuni caratteristiche delle modalità di espulsione dei palestinesi nelle diverse parti del paese fanno pensare, se non ad un piano centralmente concepito ed attuato, certamente ad una comune aspirazione che trovava poi nei responsabili locali lo strumento attuativo, con il tacito appoggio ed incoraggiamento dei comandi centrali e di Ben Gurion in particolare. Questa impressione viene confermata dalla sistematica politica di distruzione dei villaggi arabi abbandonati in modo da impedire la possibilità di un ritorno delle popolazioni arabe. “`E difficile non avere l’impressione che ci sia una mano che guida afferma a questo proposito una circolare di una organizzazione vicina al Mapam, l’unica forza politica sionista da cui si levarono voci critiche alla politica di espulsione. Sempre Benny Morris riporta l’impaziente risposta di Ben-Gurion durante una discussione a livello di Gabinetto su piani riguardanti le zone densamente popolate da arabi: “Gli arabi della Terra di Israele hanno solo un ruolo, quello di fuggire via.” La conclusione di Morris è  che il problema dei rifugiati palestinesi è  un prodotto della guerra e non di una azione premeditata. Conclusione contestata da Norman G. Finkelstein che sostiene come proprio l’insieme della documentazione raccolta da Morris porti piuttosto alla conclusione che “gli arabi palestinesi furono espulsi in modo sistematico e con premeditazione”. Con l’obiettivo di realizzare uno stato completamente ebraico, l’idea di dovere convivere con una forte minoranza araba, che per le diverse dinamiche demografiche, avrebbe potuto nel tempo superare numericamente la popolazione ebraica, divenendo maggioranza, era una delle maggiori preoccupazioni dei dirigenti sionisti. Per cui, anche se non premeditato, l’esodo palestinese fu certamente desiderato e attivamente favorito, e furono realizzate le condizioni perche diventasse definitivo. Come ha scritto Morris: “[. . . ] risulta che la maggior parte di loro [i palestinesi] fuggirono dai loro villaggi e dalle loro città in seguito ad attacchi ebraici, o per il timore di simili attacchi. `E vero che molti fuggirono senza essere espulsi, ma il vero dramma è derivato dalla Più  drastica decisione degli israeliani, quella di vietare ai palestinesi fuggiti di rientrare nel paese.” La fondamentale responsabilità israeliana nell’esodo palestinese non deve fare trascurare la responsabilità della classe dirigente araba che, preoccupata soprattutto di mettere in salvo le proprie famiglie ed i propri beni, fu la prima a fuggire lasciando la popolazione allo sbando senza guida né  politica né  militare. Il 21 ottobre 1948, con l’imposizione della legge marziale, i palestinesi rimasti all’interno di Israele, circa 150.000, furono sottoposti ad una amministrazione militare, con l’obiettivo principale di limitare e controllare i loro movimenti. Nei primi anni di amministrazione militare, la Galilea fu suddivisa in oltre 50 distretti, e ai palestinesi non era consentito di lasciare i luoghi di residenza senza il permesso del governatore militare. I permessi di viaggio specificavano non solo la data di partenza e di ritorno e la destinazione, ma anche il percorso del viaggio. Questo sistema si dimostro un potente strumento di controllo, limitando le interazioni fra loro dei palestinesi e frammentando letteralmente le loro comunità. Molte zone erano completamente vietate, specialmente quelle in cui la popolazione ebraica aveva sostituito quella palestinese di prima del 1948. Queste restrizioni insieme alla Legge sulla Proprietà degli Assenti che consentiva la confisca delle terre ‘abbandonate’, permisero di dare una sanzione legale all’espropriazione delle terre arabe. Non solo furono confiscate le terre di coloro che erano stati espulsi da Israele, ma anche molti di coloro che erano rimasti all’interno del paese persero le loro proprietà. Una parte consistente dei palestinesi di Israele erano profughi interni, espulsi dalle loro case, ma alloggiati o accampati nelle zone vicine. Essi furono considerati come legalmente “assenti”. Oltre a questa, un insieme di altre leggi contribuì alla legalizzazione della confisca di terre palestinesi. Ad esempio la legge 125 che consentiva ai comandanti militari di dichiarare delle aree come aree militari chiuse, e la 5709 che consentiva di fare evacuare per ragioni di sicurezza aree collocate lungo i confini, a nord ed a sud. Fra la fine della guerra ed il 1965 l’applicazione di queste leggi permise allo stato di confiscare 12.500.000 dunum di terra araba, più  del 60% appartenente a palestinesi che non avevano mai lasciato Israele. Le terre, come le migliaia di abitazioni confiscate, furono messe a disposizione dell’immigrazione ebraica. Ancora oggi molti palestinesi di israele vivono come profughi all’interno del loro stesso paese. Sono circa 40 i villaggi ed i piccoli centri arabi che ufficialmente’ non esistono: non appaiono nelle carte di Israele e non hanno diritto a servizi di nessun tipo. Ma anche quando gli arabi riuscivano a mantenere la proprietà delle terre, era difficile continuare a coltivarle. Lo stato, infatti, limitava rigorosamente le loro quote di risorse idriche ed elettriche, specie in confronto alle vicine cooperative o comunità agricole ebraiche (i kibbuzim ed i moshavin). Nel 1966 terminò l’amministrazione militare degli arabi di Israele. Dal punto di vista formale gli arabi furono a quel punto cittadini come gli altri, godendo di tutti i diritti. In pratica rimasero cittadini di seconda categoria, mentre continuava, in forme diverse, il processo di espropriazione della loro terra. Simbolico della resistenza araba alle espropriazioni il famoso giorno della terra del 1976. Le autorità israeliane avevano comunicato l’intenzione di espropriare un milione e mezzo di dunum di terra araba in Galilea e nel Negev. Fu subito evidente che l’obiettivo principale era di modificare gli equilibri demografici in Galilea, dove la popolazione era per oltre il 70% araba. Il 30 marzo fu indetto uno sciopero generale cui partecipo tutta la popolazione araba di Israele, ed a cui si unirono anche i palestinesi dei territori occupati. Ragazzi arabi bloccarono le strade e lanciarono pietre contro i soldati israeliani; alla fine della giornata 6 arabi erano stati uccisi e diversi feriti si contavano da entrambe le parti. Da allora il 30 marzo `e ricordato come il giorno della terra, Yom al-Ard, da tutti palestinesi, ma, in particolare, per i palestinesi di Israele rappresenta una festa nazionale, l’unica comune a mussulmani e a cristiani, festa dell’identificazione con la terra e della resistenza contro l’espropriazione.

L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza
Nel 1967 a seguito della guerra dei 6 giorni (5-10 giugno) tutta la Palestina storica ad ovest del Giordano viene occupata di Israele, ed inizia subito un nuovo capitolo nel processo di espropriazione della terra palestinese. Come osservato dallo storico israeliano Zeev Sternehell, la conquista della Cisgiordania e di Gaza viene sentita dalla classe dirigente sionista, la stessa che ha fondato Israele, come il completamento della guerra d’indipendenza. “Nel 1967, come nel 1948 e nel 1937, i leader del paese erano ancora convinti che le frontiere si creano con fatti sul terreno. Dopo la vittoria dei sei giorni, il dibattito nel Mapai non riguardò se la dottrina della conquista dei territori ogni volta che ce ne fosse l’opportunità - messa in pratica sin dalla prima decade del secolo - fosse ancora valida, ma su come, e in che grado, la situazione creata dalla sconfitta araba potesse essere sfruttata.” Il 27 luglio 1967, a meno di due mesi dalla guerra, il ministro del lavoro Allon presenta al governo un piano che prevede l’annessione di Hebron, della valle del Giordano e del Golan. Questo piano sarà alla base della politica degli insediamenti dei successivi governi laburisti. Successivamente, il 14 gennaio 1968, lo stesso Allon propone la realizzazione di un insediamento nei pressi di Hebron. Prese cosı forma l’idea di Kiryat Arba, insediamento che oggi conta circa 6.000 abitanti e che è uno dei bastioni dell’estremismo nazionalista ebraico. Proprio da Kiryat Arba venne quel Baruch Goldstein che il 25 febbraio 1994 uccise circa 35 arabi mentre pregavano nella moschea della tomba di Abramo. In accordo col piano Allon, i governi laburisti cominciano a costruire insediamenti nella valle del Giordano lungo due fasce, una in pianura ed un’altra nelle zone collinari adiacenti. Nel 1975 viene poi steso un piano ventennale per la colonizzazione completa della valle. Obiettivo del piano era lo sfruttamento delle risorse della valle (terra ed acqua) a fini agricoli. Dal 1977, con i governi del Likud, il piano Allon viene abbandonato e inizia una fase di colonizzazione più estesa che include le zone montagnose della Cisgiordania, ormai chiamata Giudea e Samaria. L’obiettivo è di circondare le città palestinesi con blocchi di insediamenti, rendendo impossibile la creazione di uno stato palestinese dotato di continuità territoriale. I primi insediamenti furono costituiti su terra palestinese espropriata per necessita militari. Nel 1979 la Corte suprema accolse il ricorso di alcuni palestinesi la cui terra era stata confiscata per costruirvi l’insediamento di Elon Moreh. In quell’occasione la Corte affermo che l’insediamento non era in realtà giustificato da ragioni militari ma piuttosto da ragioni ideologiche. Il governo israeliano allora cambiò tattica: abbandonò i motivi di ‘sicurezza’, e decise piuttosto di realizzare insediamenti su terre statali. A questo scopo bisognava naturalmente ampliare il più possibile l’estensione delle terre statali. Ciò veniva realizzato attraverso una procedura abbastanza semplice ed efficace: una volta individuata la terra che interessava, il sovrintendente alle proprietà statali della ‘Amministrazione Civile’, dopo avere consultato la Divisione Civile dell’ufficio dell’Avvocato della Stato, la dichiarava terra statale; quindi i mukhtar [i capi] dei villaggi venivano informati. A questo punto i residenti avevano 45 giorni per ricorrere alla Commissione di Appello militare. Se nessuno si appellava, allora la terra passava in possesso dei militari. Altrimenti, la questione veniva portata di fronte ad una commissione nominata appositamente. Poichè l’onere della prova di essere il legittimo proprietario della terra ricadeva sull’appellante, considerata la carenza di catasti aggiornati ed il tipo di proprietà collettiva diffuso in Palestina, era molto difficile per i palestinesi fare valere le loro ragioni. Come risultato di questa procedura alla fine del 1999, in Cisgiordania, circa 5.500 kmq risultavano essere terra statale, laddove prima del 1967 sotto l’amministrazione giordana, solo 527 kmq erano catalogati come terra statale. Le terre statali sono così passate da circa il 10% della Cisgiordania a circa il 45%. Con questo ed altri strumenti legali, dal 1967 ad oggi Israele ha espropriato oltre 5.839.000 dunum di terreno, cioè il 73% della Cisgiordania e della striscia di Gaza.

Gerusalemme
Un caso particolarmente importante, anche per la sua valenza simbolica `e quello di Gerusalemme. Fra il 1948 ed il giugno 1967 Gerusalemme era divisa in due settori, quello occidentale (Gerusalemme Ovest), sotto sovranità israeliana, che ricopriva un’area di circa 38 kmq, e quello orientale (Gerusalemme Est) con la città vecchia, sotto sovranità giordana, con una superficie di circa 6 kmq. Gerusalemme Est viene conquistata il 7 giugno 1967, al terzo giorno di guerra. Tre giorni dopo, la sera di sabato 10 giugno, Le autorità israeliane intimano alle oltre 100 famiglie che vivono nel quartiere di Mughrabi, adiacente al muro del pianto, di evacuare entro tre ore. I bulldozers cominciano subito il loro lavoro e la mattina di lunedì 12 una spianata di un acro, di fronte al muro del pianto, è stata completamente liberata da costruzioni. Negli stessi giorni viene deciso lo spostamento forzato degli abitanti di quello che prima del 1948 era stato il quartiere ebraico della città vecchia. Il 29 giugno, a meno di tre settimane dalla fine della guerra, Israele decide di estendere i confini municipali di Gerusalemme Ovest, includendovi i 6 kmq di Gerusalemme Est e circa 64 kmq di terra appartenente a diversi villaggi e municipalità della Cisgiordania. I nuovi confini furono disegnati in modo da garantire l’obiettivo del mantenimento di una consistente maggioranza ebraica: diversi villaggi furono divisi, lasciando fuori dai confini le zone più popolate ed includendovi invece una parte delle loro terre. Tutta l’area di Gerusalemme fu quindi annessa allo stato di Israele, annessione illegale dal punto di vista del diritto e mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Con l’annessione inizia una sistematica politica di discriminazione contro la popolazione palestinese di Gerusalemme attraverso le espropriazioni ed attraverso una politica urbanistica guidata dall’esplicito intento politico di favorire lo sviluppo della popolazione ebrea e di creare situazioni che rendano irreversibile la sovranità israeliana sulla città. Nel presentare il piano di sviluppo urbanistico, il 6 luglio 1977, il sindaco Ted Kollek afferma “Il principale obiettivo del piano è di assicurare il mantenimento del carattere distintivo di Gerusalemme come capitale di Israele, una città santa ed un luogo di pellegrinaggio come centro spirituale, una città con un carattere culturale e storico speciale - e tutto questo può essere mantenuto solamente se la città rimane unificata sotto la sovranità israeliana. [. . . ] Noi riteniamo che, approvando il piano, noi stiamo affermando il nostro controllo sull’intera città e stiamo mettendo le basi per la continuata realizzazione dell’unificazione della città.” Sui terreni espropriati, in gran parte arabi, furono costruite solamente case per ebrei. Fra il 1967 ed il 1996 su queste terre erano state costruite 38.500 unità abitative per la popolazione ebrea e nessuna per gli arabi.  Allo stesso tempo i piani urbanistici limitavano fortemente le costruzioni nelle aree arabe, costringendo spesso le nuove famiglie palestinesi a trasferirsi fuori dai confini comunali. Gli insediamenti ebraici andarono crescendo con l’obiettivo di arrivare a costituire un continuum che rendesse impossibile una nuova divisione di Gerusalemme lungo la ‘linea verde’ , con la restituzione ai palestinesi dei quartieri orientali. Secondo le parole del sindaco Kollek, “Gerusalemme deve essere costruita in modo da rendere impossibile la sua divisione. Senza le espropriazioni delle terre, decine di migliaia di ebrei non vivrebbero oggi nei nuovi quartieri”. Il più recente episodio di questa politica di ebraizzazione di Gerusalemme `e quello di Abu Ghneim, una collina collocata a sud della città, sul confine nord della cittadina palestinese di Beit Sahour. Questa collina e le terre intorno sono storicamente proprietà di Palestinesi di Beit Sahour e del villaggio di Um Tuba. A seguito dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est, durante la guerra del 1967, Abu Ghneim ed i dintorni furono illegalmente annessi a Gerusalemme. Da allora Israele ha sistematicamente negato ai Palestinesi il diritto di costruire su questa terra con la scusa che si trattava di una ‘area verde’ protetta. Tuttavia dopo che, nel 1991, i 465 acri della collina furono espropriati, decisione confermata dalla Corte Suprema nel 1994, la terra di Abu Ghneim fu resa disponibile per un insediamento ebraico. Si tratta dell’insediamento di Har Homa, in cui si prevede di alloggiare inizialmente 6.500 nuovi immigrati ebrei, per arrivare nel giro di pochi anni a 50.000 abitanti. E’ uno schema di comportamento già applicato in altri casi: una terra araba viene classificata come area verde, impedendo su di essa qualsiasi costruzione, viene poi espropriata e non appena cambia il proprietario cambia anche la sua destinazione: non `e più ‘verde’ e può essere utilizzata per nuovi insediamenti. Vale la pena a questo punto ricordare che gli “insediamenti israeliani nei territori occupati violano alcuni principi fondamentali della legge umanitaria internazionale: la proibizione di trasferire civili dalla potenza occupante ai territori occupati, e la proibizione di creare nei territori occupati cambiamenti permanenti che non vadano a beneficio della popolazione occupata.” Il primo è sancito esplicitamente nell’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, mentre il secondo deriva dalle convenzioni dell’Aia, secondo cui (articolo 55) “Lo Stato occupante sarà considerato solamente come amministratore e usufruttuario degli edifici pubblici, delle proprietà immobiliari, delle foreste e delle proprietà agricole appartenenti allo Stato ostile e situati nel paese occupato.”

Una silenziosa pulizia etnica
Il processo di appropriazione e colonizzazione della terra palestinese che abbiamo fin qui cercato di evidenziare non è qualcosa che riguardi solamente il passato. E’ un processo ancora attivo, che non si `e interrotto neppure dopo l’inizio del processo di pace, malgrado questo sia basato, almeno stando ai documenti ufficiali, sull’accettazione della risoluzione 242 dell’Onu, che prevede la restituzione da parte di Israele dei territori occupati. Dall’inizio del processo di pace (settembre 1993) al 2000 la popolazione negli insediamenti della Cisgiordania e di Gaza (senza contare l’area metropolitana di Gerusalemme) è raddoppiata arrivando alle 200.000 unita. Dal Luglio 1999 al settembre 2000, durante il governo laburista di Barak `e stata iniziata la costruzione di 1.924 nuove unità abitative in insediamenti (di cui 1.384 in Gerusalemme). Nuovi insediamenti comportano nuove strade riservate ai coloni e quindi ulteriori espropriazioni di terre palestinesi. Nel 1999 sono stati confiscati 40.178 dunum di terra palestinese, dei quali 19,691 sono stati usati per la costruzione degli insediamenti e 16.657 per nuove strade. Non stupisce in questa situazione la sostanziale sfiducia da parte della popolazione palestinese circa la reale volontà di pace israeliana. Come dice Edward Said, “[. . . ] ciò che le truppe israeliane ed i coloni fanno [. . . ] è  nulla meno di un organizzato tentativo di pulizia etnica. La principale differenza tra la Bosnia e la Palestina è che la pulizia etnica nella prima ha avuto luogo nella forma di drammatici massacri e carneficine che hanno attirato l’attenzione del mondo, mentre in Palestina ciò che accade è una tattica di ‘goccia dopo goccia’ in cui una o due case sono demolite giornalmente, qualche acro è  preso qui e lı ogni giorno, alcune persone sono costrette ad andare via. Nessuno vi presta molta attenzione.”




Brano. Luglio Agosto e Settembre Nero degli Area

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