Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

domenica 8 ottobre 2017

Il partigiano universale Guevara protagonista anche della rivoluzione jazz.

Luciano Granieri




Il 9 ottobre di 50 anni fa nel villaggio di La Higuera in Bolivia veniva ucciso Che Guvara. L’assassinio avvenne per mano di un ufficiale dell’esercito boliviano, Andres Selnich, che lo freddò con un colpo di pistola dritto al cuore dopo aver ricevuto da lui uno  schiaffo.  Il  Che picchiò l'ufficiale con le ultime forze che gli rimanevano  mentre giaceva, ferito e sfinito su una barella. 

Le commemorazioni, espresse  attraverso autorevoli interventi per  il cinquantenario della morte di Ernesto Guevara (detto il Che) stanno riempiendo  la rete e gli organi di stampa, in particolare quelli che in qualche modo professano idee di sinistra (vere o presunte). Vorrei  quindi indirizzare  questo intervento su una strada diversa. Sottolineare cioè lo   spirito rivoluzionario che il medico  argentino è riuscito a trasferire nel processo creativo di molti musicisti. Potremmo dire che il 9 ottobre  1967 Guevara cessava di lottare in prima persona per la  libertà universale, ma continuava la sua battaglia nelle espressioni creative di artisti e musicisti. 

La voglia di celebrare le gesta  del rivoluzionario argentino hanno coinvolto, nel corso degli anni, tutti gli stili :  dalla musica popolare proveniente dall’America Latina,  dal Sud America , al folk, fino al rock. La produzione musicale dedicata al Che è sterminata, ma qui vorrei concentrarmi solo  sui contributi jazzistici. Giova precisare che questo intervento trae spunto dall’ottimo articolo intitolato "La musica del Che" scritto da Guido Michelone e  pubblicato sabato 7 ottobre, su “Alias, inserto culturale de “il manifesto”.  

Non vi è dubbio che una musica tesa   a cercare sempre  nuovi spunti creativi come il jazz non potesse ignorare lo spirito rivoluzionario del guerrigliero argentino. Come non è da trascurare il fatto che l’espressione musicale afroamericana spesso è diventata un manifesto politico, in particolare per la difesa dei diritti civili dei neri. Strange Fruit, il brano cantato da Billiye Holiday, inciso 80 anni fa resta uno dei primi e forse più incisivi atti politici della musica nera. Il jazz proprio per le sue origini popolari comuni alle minoranze, ai non conformi, non solo neri, ma a tutti gli immigrati, gli emarginati, i poveri,  traduce in suoni la lotta di classe. 

La storia americana fra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, nel periodo cioè di maggiore attività rivoluzionaria del Che, vide la recrudescenza della lotta interna all’imperialismo . In questo frangente più stretta divenne la connessione fra i liberals  bianchi che lottavano contro l’oppressione  borghese  e i neri impegnati nella lotta per i diritti civili.  Nel 1954 il Comunist Control Act, aveva messo fuori legge il partito comunista, e la rivoluzione Cubana del 1959, di cui Guevara fu grande protagonista,  aveva portato il pericolo rosso a due passi dalla Florida . Non solo, ma Castro, a seguito di quella rivoluzione cacciò ,  oltre ai  gangster americani, anche le multinazionali che a Cuba erano diventate padrone di tutto. 

Cuba come fronte antimperialista ad un tiro di schioppo dall’impero, spinse a raggruppare sotto la motivazione della lotta antimperialista tutte i conflitti  sociali che in quel periodo stavano rifiorendo e proliferando, compresa la grande battaglia dei neri. Bianchi, neri,ispanici,  poveri, diseredati, vietnamiti, cubani tutti insieme uniti contro l’imperialismo.  

Ciò non poteva sfuggire ai jazzisti, soprattutto quelli più politicizzati ed impegnati nel nuovo linguaggio di liberazione armonico-melodica  denominato free jazz.  Free appunto, libero come Guevara, una partigiano internazionalista, universale, ribelle, comunista. Le operazioni improvvisative si svolsero sostanzialmente su due brani:  la ballata “Hasta Siempre” composta dal musicista cubano Carlos Puebla nel 1965 quando Guevara lasciò  definitivamente Cuba per portare la rivoluzione in Congo ed in Bolivia e “Song for Che” una ballad strumentale scritta dal contrabbassista statunitense Charlie Haden. 

La Liberation Music Orchestra guidata da Haden, insieme alla moglie Carla Bley, composta da jazzisti che diventeranno punti di riferimento  del free jazz (come i sassofonisti Gato  Barbieri e Dewey Redman, o come il trombettista Don Cherry),  incise nel 1970 un disco in cui, oltre a Song for Che  sono riproposti in chiave jazz brani   popolari di lotta della rivoluzione spagnola El Quinto Regimento”, “Los Quatros Generales”, “Viva la Quince Brigada”. 


In realtà la prima versione di Song for Che fu incisa nel 1969 dal quartetto di Ornette Coleman, con lo stesso Haden al contrabbasso,  nell’album Crisis .Qui il tema è appena accennato e conduce ad una veemente improvvisazione free. In realtà le evoluzioni atonali del free non erano molto popolari la musica di protesta che risuonava ad Harlem era il R&;B. Ne conseguì che  il nuovo stile si affermò in modo più solido in Europa dove le lotte di librazione e per i diritti sociale e civili non mancavano.

Molti jazzisti americani trovarono  più successo nel Vecchio Continente che in patria. Non di meno s’imposero all’attenzione come eccellenti interpreti  del nuovo stile  molti  musicisti europei. E’all’organista belga Fred Van Hove che si deve il brano “Requiem for Che Guevara” Si tratta della facciata A di un vinile live registrato al Berlin Jazz Festival il 10 novembre 1968. Nel  giovane sestetto figuravano, oltre a Van Hove,  il batterista Han Bennink e il sassofonista Willem Breuker, validi esponenti dell’avanguardia olandese.

Ma gli omaggi dedicati al Che sono proliferati  anche dopo gli anni ’60. Nel 1974 il quartetto guidato da Jan Garbarek al  sassofono e dal pianista Bobo Stenson, norvegese il primo, svedese il secondo, proposero  una struggente versione strumentale di Hasta Siempre . Il brano, inserito nel disco Whichi-Tai To, era caratterizzato da  un’improvvisazione pulita e dolente di Garbarek. Anche il batterista  inglese, ex membro  dei Soft Machine, Robert Wyatt, da sempre schierato per l’internazionalismo socialista, fornì  nel 1975 una versione eccellente ma  più ortodossa di Song for Che, inserita nell’album Ruth is Stranger than Richard mentre il tema di Hasta Siempre fu  riproposto dallo stesso Wyatt nel 2007. Una  versione di Song for Che, inserita in un brano dal titolo  Reducing Agent  è eseguita nel 2006 dall’ensemble nipponico Otomo Yoshihide’s New Jazz Quintet.

E in Italia?  Anche qui gli omaggi al Che non sono mai mancati in tutti i contesti  musicali. In ambito jazzistico   nel 2003 il sassofonista napoletano Daniele Sepe inserì   una versione di Hasta Siempre nel CD Suonarne 1 per educarne 100 , mentre in Vitae Perditae, il jazzista partenopeo ripropse   Zamba del Che un requiem folk composto dal cantante cileno Victor Jara.

Ma il jazzista italiano più guevarista di tutti è il pianista Gaetano Liguori.  Un costante impegno militante nel movimento studentesco  e nel panorama antagonista italiano contraddistingue un’attività che mette insieme lotta politica ed espressione rivoluzionaria  musicale. Nel 2004 pubblicò  per la collana “il  manifesto” il CD  “il comandante”. E’ praticamente un manifesto programmatico, dove l’autoritratto dell’artista in copertina strizza l’occhio all’immagine del Che.

In un’intervista Liguori racconta : “Sono stato profondamente segnato dalla morte sacrificale  del Che e, sul piano artistico, dalla commemorazione fatta al contrabbasso da Haden.  La lezione del Che era ancora palpabile a Cuba undici anni dopo la sua scomparsa; ne parlavamo con giovani e meno giovani che venivano ai concerti  -Liguori si riferisce al festival de la Juventude organizzato a Cuba nel 1978 dove parteciparono anche gli Area, Mauro Pagani, il Canzoniere Italiano, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Francesco Guccini ndr- ma al ritorno ci fu una polemica tra me e Guccini, che sosteneva che i Cubani non capivano niente di musica. Io invece il contrario. Il fatto era che personalmente suonavo all’Avana a contatto più diretto con un pubblico specialistico, perché mi esibivo in un club di musica classica contemporanea. Intenditori, insomma, che apprezzavano il free jazz. Guccini fu mandato in una fabbrica di birra: cantava in italiano che la gente non capiva e suonò maluccio “La locomotiva”.Con il fior di chitarristi cubani presenti era logico che non ricevette grandi ovazioni”.

 Ma se si chiede a Gaetano Liguori cosa significhi oggi Ernesto Che Guvara è sin troppo esplicito: “Nella suite Cile libero Cile rosso (1974) dal mio primo omonimo album, inserivo alcune note della canzone del  Che; quarant’anni dopo Noi Credevamo e…crediamo ancora, non è solo il titolo di un disco, ma una dichiarazione di intenti per onorare la memoria di gente come Malcom X, Martin Luther King, Mao, Ho ChiMin, Nelson Mandela e, appunto, Che Guevara. E comunque non sarà un caso che anche nella nuova Suite della libertà io citi di nuovo quella canzone . “Hasta Siempre Comandante”.

Dunque HASTA SIEMPRE COMANDANTE.



Nessun commento:

Posta un commento