Apprendendo della proposta di legge leghista per la quale si vorrebbe
imporre alle emittenti radiofoniche
nazionali e private di riservare almeno un terzo della programmazione giornaliera alla trasmissione di brani italiani, credevo di trovarmi di fronte alle solite scempiaggini di stampo fascio-razzista della
serie “prima gli italiani”. Ma la posizione a favore di questa proposta da
parte di Giulio Rapetti, in arte Mogol, oggi presidente della Siae, mi ha
spinto a prendere la cosa con un minimo di serietà.
Mogol in una sua lettera ai
propri associati, sottolinea come la
proposta leghista consentirebbe di aumentare gli introiti a favore di musicisti
e autori nostrani sostenendo l’industria
culturale italiana e chi ci lavora. In Francia, sottolinea Rapetti, le emittenti radiofoniche sono obbligate a
mandare il 40% di pezzi francesi nella programmazione musicale quotidiana. Questa prima motivazione è chiaramente
orientata a favorire un maggior guadagno
grazie ad una commercializzazione spinta
dovuta ai maggiori passaggi in radio. E’
la classica storia del profitto che,
secondo la corrente litania, deve favorire gli “Italiani”.
La discussione sulla
commerciabilità di un brano va avanti da tempi immemori. E’ chiaro che un
musicista fa musica per venderla, diverso è l’autore che nel comporre si fa
condizionare dalle richieste del
mercato, ma questa è un’altra storia. A mio parere un brano di qualità dovrebbe avere
automaticamente successo indipendentemente dai passaggi radiofonici giornalieri
e dalla campagna di marketing che gli gira intorno, ma questa è una mia idea
romantica ormai sorpassata.
Abbastanza sconcertante è la seconda affermazione
di Mogol, quando esorta a supportare l’iniziativa
“affinchè si affermi il principio che la musica italiana fa parte del nostro
patrimonio culturale”Già ma qual’è la musica italiana che fa parte del nostro patrimonio culturale? Il melodramma dell’800, Verdi, Puccini, Rossini, Bellini
Donizetti. Oppure la canzone napoletana
di Salvatore Di Giacomo, Eduardo di
Capua, o ancora il patrimonio della musica popolare dalla pizzica, alla
tarantella, alla ballarella. Dunque per difendere la cultura musicale italiana ogni due brani stranieri bisognerebbe mandare in onda O’ Sole Mio, piuttosto che Nessun
Dorma, Nabucco o Funiculì Funiculà. Questa è la musica italiana che fa parte del nostro patrimonio
culturale.
Ma se consideriamo i
brani dell’ultimo festival di Sanremo (festival della canzone italiana, appunto)
scopriamo che buona parte di essi sono dei rap, non propriamente un’espressione
musicale del patrimonio culturale italiano, anzi. Il rap viene direttamente dai
ghetti delle grandi città americane è la
musica di protesta dei neri di Harlem, di
gente povera e nera , non sarà un po’ troppo per i leghisti impegnati a
difendere il patrimonio musicale italiano? Il resto delle canzoni è basato sulla musica POP che affonda le sue
radici nel rock, il quale, a sua volta, viene dritto dritto dal blues,
altra espressione afroamericana
inventata addirittura dagli schiavi neri quando ancora stavano in
Africa!
Di quale patrimonio culturale
italiano si va cianciando allora? La verità è che la musica non ha confini è
pura espressione creativa del tutto refrattaria ad essere confinata in recinti
predefiniti, non ha bisogno di passaporto e nessuna frontiera la può fermare. Una stupidata del genere è comprensibile se
rimane una boutade dei barbari leghisti, ma che essa venga fatta propria da
Mogol, lascia interdetti.
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