Mentre precipitava, pensava che fosse uno dei suoi soliti incubi scatenati dallo speedball. 'Ora mi sveglio'. Invece stava morendo, il grande Chet Baker stava morendo.
La caduta dal terzo piano del Prins Hendrik, squallido alberguccio per drogati di Amsterdam, fu l’ultimo volo dell’angelo dalla tromba d’oro. Ultimo volo, ultimo mistero: perché il grande jazzista bianco, con le vene delle braccia ridotte a fili di ferro, smagrite a forza di overdose, cadde da quella finestra larga appena 40 centimetri sfracellandosi sul marciapiedi? Lo ammazzò uno spacciatore, si suicidò, scivolò intontito dall’eroina: le verità erano e restano tante, però nessuna oggi è quella assoluta. Era il 13 maggio 1988, vent’anni fa. Ma il mito del trombettista dal viso d’angelo è ancora vivo, e rimarrà intoccabile anche fra altri vent’anni. È la parabola di un ragazzo invecchiato troppo presto e male, capace, nella sua vita bruciata, di essere tutto: inaffidabile, buono, crudele, dolce, egoista, appeso a quella voce esile come un filo di tungsteno.
Chet vent’anni dopo, anniversario che non sarà celebrato né da cd, né da dvd né da film: Hollywood parla da anni di girarne uno, ‘The prince of cool’, con regista Bruce Beresford e Josh Hartnett, il pliota bellone di ‘Pearl Harbor’ nei panni di Baker, ma il progetto è sfumato. Oggi solo i jazzisti italiani rammentano la morte di Chet, con innumerevoli concerti. Ma il suo destino è questo: essere ricordato più per la sua folle vita randagia, polverizzata a 58 anni, che per la sua musica. E non è giusto, perché lui è stato prima un grande trombettista, poi un grande cantante. Già, prima e poi, perché Baker di vite musicali ne ha avute due. Si svezzò, rampante trombettista alla corte di Charlie Parker. Componeva poco, ma la sua tromba fu protagonista della rivoluzione del cool jazz nel celebre ‘pianoless quartet’ di Gerry Mulligan, con cui però litigò aspramente e definitivamente per una questione di soldi: infatti appena Mulligan, in cella per i soliti affari di droga, uscì di prigione, trovò Baker a chiedergli 175 dollari d’aumento, figurarsi… E anche la sua stella cometa, Miles Davis, lo detestò pubblicamente, tanto da scriverlo nella propria autobiografia ('Baker suonava peggio di me quando ero fatto').
Bello come un divo del cinema, in America Chet trovò durezza, disprezzo, e anche i primi guai per droga, che lo accompagneranno dal 1957 fino alla morte. In Italia invece era diverso. C’era più tenerezza per lui, almeno fino a quel giorno di fine luglio del 1960, quando l’agente di polizia Neri Gugliermino lo vide in un cantuccio della toilette di una stazione di servizio di San Concordio, a Lucca: il lavandino sporco di sangue, le maniche tirate su, la siringa fra le mani e la faccia tremante per l’astinenza. Allora in Italia l’eroina non circolava, Baker però aveva scoperto che poteva sostituirla con il Palfium, un potente analgesico. Dal processo, il primo clamoroso caso di droga in Italia, emerse che 25 medici compiacenti avevano prescritto il Palfium a Baker, e lui aveva rubato e falsificato i ricettari: 'Faccia d’angelo, cuor di demonio', sintetizzò il pm davanti alla corte, chiedendo per lui 7 anni di galera. Lo condannarono a 16 mesi. Quando uscì la sua vita era quella di prima: jazz, donne e tanta droga.
E una volta tornato a casa, in America, andò anche peggio. Nel 1966 uno spacciatore non pagato si vendicò spaccandogli la faccia a San Francisco facendogli saltare tutti i denti. Finito, il grande Chet Baker era finito. Si ridusse a slavoricchiare in un distributore di benzina, finché un giorno non impietosì il grande Dizzy Gillespie: 'Con una dentiera - gli disse - potrai tornare a suonare'. Chet ci provò. Fu durissima, ma piano piano rivide la luce. La sua tromba uscì dall’astuccio nel 1968, alba della sua seconda vita musicale. L’Italia lo abbracciò di nuovo, ma siringa, cucchiaino e laccio emostatico erano sempre a portata di mano. Lui diceva di sì a tutti, esibendosi in bettole, puzzolenti club di quint’ordine, incidendo centinaia di dischi, e tutto questo perché aveva sempre bisogno di soldi per pagarsi la ‘roba’. Un giorno Elvis Costello gli chiese di suonare un assolo di tromba in un pezzo (‘Shipbuilding’) del suo album ‘Punch the clock’: Chet venne in sala d’incisione, non salutò, suonò la sua parte, prese i soldi e se ne andò in silenzio. Era pesantemente invecchiato, le rughe che a ragnatela coprivano il bel viso di una volta sembravano pagine aperte della sua storia di autodistruzione, narrata nello spettrale documentario ‘Let’s get lost’ di Bruce Weber. Il simbolo della sua fine imminente divenne la voce: così angosciante, elegiaca, eterea. Eppure il suo era un meraviglioso lirismo interiore, dipinto in pezzi simbolo come ‘Almost blue’, ‘Everytime we say goodbye’, ‘My one and only love’ e ‘My funny Valentine’.
Daybreak:
Chet Baker: Tromba e voce,
Niels Pedersen: Contrabbasso
Doug Raney: Chitarra.
L'autografo che apre e chiude la clip me l'ha firmato Chet nel 1980, quando organizzamo un suo concerto dove suonava con una favolosa line-up composta da:
Enrico Pierannunzi Pianoforte
Enzo Pietropaoli: Contrabbsasso
Roberto Gatto: Batteria
Nicola Stilo: Flauto e lo stesso Chet voce e tromba
FANTASTICO
Luc Girello
Nessun commento:
Posta un commento