L’8 dicembre di due
anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva
fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato
l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo
enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il
rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi
concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di
ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di
successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi
dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar
appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo
nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale. Il governo della mancia
per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative
misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il
passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono,
l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale
territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia
l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.
Le imprese, incassato
l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni
strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di
licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo,
le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di
proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la
marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele
crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di
licenziare con modico indennizzo monetario. Presto il nero diventerà la figura
dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una
pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente
risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà
racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi.
Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici
e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di
società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica. Questo
biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La
volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta
la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli
insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun
risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua
spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.
Ha un bel dire Paolo
Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di
chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli
steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non
mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio
politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare,
nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il
gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra. Non
basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito,
senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un
solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per
ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva,
costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i
residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in
carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli
eventi fuggevoli dei mille banchetti. A Renzi il partito serve solo come fonte
di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a
palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma
sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del
comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto
e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene
così.
Ovunque esistono
gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui
il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con
oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama
ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del
partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non
si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica
estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento
come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone
senza mai un cenno di disobbedienza. Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo
avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito,
proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta
inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo
che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito,
costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza
al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso
partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi
di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata. Due anni
terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono
trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della
catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella
sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte
a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico
dopo il forte rumore dello schianto.
(dal Manifesto del
06/12/2015)
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