Michele Prospero
È solo l’economia
reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo il Movimento 5 Stelle,
che mostra le intenzioni bellicose contro l’esecutivo della
decostituzionalizzazione votando proprio per il giurista amico dell’Italicum. E
festeggia per aver inviato alla Consulta un suo candidato moderato, un tempo
politicamente vicino a Nicolazzi, il ministro che fece aprire uno svincolo
sull’autostrada per raggiungere il paese d’origine.
E’ difficile stabilire
se la maggiore fonte di inquietudine per il governo sia costituita dalle grane,
per salvataggi, decreti e plusvalenze, in cui è incappata “la chierichetta”
diventata ministro delle riforme, o dalla campana a ritmo lento che suona dalle
parti di via dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una
buona idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.
E ora anche la
Confindustria certifica quello che tutti percepiscono nella loro vita reale. E
cioè che ““lo psicologo in capo”, che intrattiene il pubblico con le slide e
con le barzellette lo distrae per spingerlo alla fiducia a comando, non ha
combinato nulla di costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli
industriali, incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni,
ammettono che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».
Il mito della
velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si rivela una pura
invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non basta una sterile
invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Dopo i sorrisi e le
canonizzazioni del premier, la Confindustria deve ammettere che la ripresa non
c’è, a dispetto di un intreccio di irripetibili congiunture internazionali
straordinariamente favorevoli. E che, a confronto, la risposta offerta dal
cacciavite di Letta era persino più efficace del trapano impugnato dal loquace
rottamatore.
Ora gli studi della
Confindustria parlano di «mistero» della stagnazione che mette in ginocchio
l’Italia. Per gli industriali «il mancato decollo della ripartenza resta un
vero rebus». Queste formule, che evocano l’ignoto, però sono l’estremo rifugio
linguistico per non indicare chiaramente le responsabilità acclarate, che hanno
un volto preciso: il governo della narrazione. Con bonus clientelari e con
l’aggressione ai diritti del lavoro, l’esecutivo crede di surrogare l’adozione
di politiche industriali di svolta.
Nei poteri economici
comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza,
che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro,
costituisce un fattore di blocco. Un paese che versa in una «stagnazione
secolare» non ha bisogno di uno “psicologo in capo” ma di una politica che
poggi su altri interessi sociali rispetto a quelli dominanti. Non funziona la
ricetta che unisce chiacchiera e precarizzazione del lavoro come fattore
competitivo sostitutivo rispetto ai costi dell’innovazione tecnologica.
Qualcosa si sta
precocemente rompendo nella costituzione materiale del renzismo. Le cronache di
fallimenti delle banche amiche, di vendite allegre di teatri storici, di
pratiche affaristiche scambiate con nomine pubbliche sub condicione, svelano la
genesi oscura della fortuna dei soldati della rottamazione. Le ricostruzioni
giornalistiche rompono il velo protettivo e rivelano una miscela di banche,
massoneria deviata, amministrazione in appalto che ha scaldato i motori di una
spettacolare scalata al potere.
Questi rampolli di
famiglie in affari sono partiti dal controllo di una città-azienda, conquistata
grazie al soccorso delle truppe di Verdini. E poi hanno racimolato le risorse
per viaggiare in aerei privati e affrontare la sfida dei gazebo. Hanno raccolto
i fondi necessari per edificare una potenza personale, per tessere rapporti opachi
(consulenze, promozioni, incarichi) e dare l’assalto al governo.
Senza una colossale
potenza economica-finanziaria-mediatica alle spalle, il sindaco di una città
non sarebbe mai stato così influente da essere ricevuto dalla cancelliera
tedesca. E senza l’avallo preventivo di potenze europee, il capo dello Stato
non avrebbe accettato il cambio della guardia a palazzo Chigi, con la fine dei
governi del presidente. Liquidata la porzione di classe politica di estrazione
comunista e scacciato i sindacati dalla sala verde, i poteri influenti hanno a
lungo gioito. E però oggi che la gestione del potere si rivela un colossale
fiasco, si apre una riflessione in seno alle spaurite classi dominanti. E un
dubbio le divora: il governo dell’inesperienza che segue i dettami della
Confindustria non sarà un ostacolo obiettivo alla rinascita economica? La
questione l’aveva segnalata già Marx. Il quale scriveva che alla borghesia non
conviene «un autogoverno di classe» e più funzionale ai suoi stessi interessi è
il progetto di dotarsi di un ceto politico differenziato e autonomo.
La Confindustria deve
ammettere che lo scambio tra contenuti economici della legislazione gestiti
direttamente dalle imprese e gioco della comunicazione dato in concessione al
rottamatore si rivela sempre più inefficace. Anche i poteri forti sono
costretti a cimentarsi su un interrogativo di Weber. E cioè sono afflitti dal
timore che del marketing come tecnica competitiva, che rinvia alla padronanza
politica delle semplificazioni usate strumentalmente, con Renzi si esageri,
sino a scivolare nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il
senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della
temporalità.
Rispetto alla
metamorfosi del leader, che converte l’uso di ritrovati demagogici in politica
della pura demagogia o capo istrione, Weber innalzava due antidoti: il partito
strutturato, in grado di selezionare e controllare il capo, e l’esperienza
accumulata entro un apprendistato nelle commissioni parlamentari. Entrambi questi
correttivi in Italia sono saltati, ed è il solo paese europeo ad avere avuto
tre premier non parlamentari in vent’anni.
Niente di formalmente
illegittimo, ma un presidente del consiglio senza mandato parlamentare è la
spia di una catastrofe del sistema politico. E un leader senza un apprendistato
di partito è possibile solo in un sistema a traino populista investito da
intensi momenti di antipolitica.
Dopo aver brindato al
decesso della mediazione politica, i poteri economici tremano per i guai
provocati da una classe dirigente improvvisata e vittima della comunicazione.
Michele Prospero (dal
Manifesto del 19/12/2015)
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