Renzi e non solo. Per contrastare il riconoscimento tra il leader nascente e le masse mutanti solo una proposta altrettanto moderna e radicale può tentare l’impresa. E ricostruire una nuova cultura politica della sinistra
Prima di entrare nel merito della delicata materia politica, cui questo articolo intende fare riferimento, devo confessare una mia personale difficoltà, o storico disagio, che potrebbe rendere quanto segue altamente opinabile. E cioè: quando il dissenso politico diventa abissale, si trasforma in una differenza antropologica, che lo fonda e giustifica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Matteo Renzi, il nuovo e brillante leader della sinistra italiana. E’ come se lui ed io appartenessimo a mondi diversi, incomunicabili. Perciò dicevo della mia difficoltà di costruirci un discorso ragionevole sopra. Sarebbe come se al marziano di Flaiano si fosse chiesto di formulare un oculato giudizio politico sui frequentatori dei caffè di Via Veneto, o anche viceversa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).
Tutto ciò — lo dico
senza ironia e senza nessuna autocondiscendenza affabulatoria —
pende gravemente a mio sfavore. Lui è il nuovo che avanza, con
tutta la forza dirompente della sua totale (anche anagrafica) ignoranza del
passato. Io sono il passato che guarda con sbigottimento al presente, con
la pretesa, oggi totalmente, anzi comicamente vana, che la conoscenza del
passato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, possano portare
ancora qualche piccolo elemento di previsione, e di azione, per il
presente. Ma allora, se della politica abbiamo due nozioni e credenze
nettamente opposte, perché presumere di giudicare una delle due politiche
dalla specola di osservazione di una concezione della politica che le
è esattamente opposta? Sappia perciò il lettore — lo dico per onestà
intellettuale — che questo articolo sarà marcato negativamente da questa
forte pregiudiziale .
Ridurrò il resto ad
alcune considerazioni basilari, anzi, a questa sparsa “lettura del
testo”, che illumini (forse) il punto in cui siamo.
1. L’ho già detto in altre occasioni, ma in esordio voglio tornare
e ricordarlo. Renzi, e il renzismo, il quale già gli è nato
e anzi prospera vigorosamente accanto, rappresenta l’approdo finale
della lunga parabola iniziata venticinque anni fa con la Bolognina di
Achille Occhetto. Qual è l’essenza di questa parabola? L’essenza di questa
parabola è la cancellazione, oggi ormai totale e irreversibile,
della tanto vituperata “diversità comunista” (cioè della pretesa, abominevole
agli occhi di molti, di fare politica in modo diverso per obiettivi diversi).
Questa cancellazione incide tanto più pesantemente sul panorama politico italiano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pensare e sperare, alla nascita di un’opzione socialista. Il crollo del vecchio socialismo, in ragione fondamentale (ma non solo) della campagna giudiziaria di Mani pulite, e il rifiuto, da studiare ancora fino in fondo, della dirigenza post-comunista di subentrargli in quel ruolo, hanno prodotto questo unicum nella storia europea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esiste un partito socialista.
Il continuo decalage autodefinitorio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza profonda su cosa si è e soprattutto su cosa si vuole essere o diventare, ha prodotto la perdita di qualsiasi identità culturale e ideale. Il renzismo replica: che bisogno ce n’è? La politica ne prescinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, eventualmente, si vedrà.
Questa cancellazione incide tanto più pesantemente sul panorama politico italiano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pensare e sperare, alla nascita di un’opzione socialista. Il crollo del vecchio socialismo, in ragione fondamentale (ma non solo) della campagna giudiziaria di Mani pulite, e il rifiuto, da studiare ancora fino in fondo, della dirigenza post-comunista di subentrargli in quel ruolo, hanno prodotto questo unicum nella storia europea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esiste un partito socialista.
Il continuo decalage autodefinitorio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza profonda su cosa si è e soprattutto su cosa si vuole essere o diventare, ha prodotto la perdita di qualsiasi identità culturale e ideale. Il renzismo replica: che bisogno ce n’è? La politica ne prescinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, eventualmente, si vedrà.
2. Come già accennavo, la chiave di tutta questa storia sta
nell’incredibile serie di errori commessi dalla vecchia dirigenza post comunista
(che non abbiamo né spazio né voglia di approfondire in questa sede, ma
diamo ormai per storicamente appurati). L’ultimo soprassalto identitario
si verifica quando Bersani sconfigge nettamente Renzi alle primarie del
2012. Il genio del renzismo consiste nell’avere colto il momento in cui lo
sfinimento del vecchio gruppo dirigente lascia aperte le porte al più drastico
dei rovesciamenti. Tale rovesciamento consiste essenzialmente di tre
aspetti:
a) Renzi sostituisce la forza plebiscitaria del consenso
alla gerarchia organizzata e scalare (e talvolta un po’ omertosa)
del Partito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Partito, il quale resta come un
puro guscio, la bandiera da sventolare (ma neanche troppo, spesso quasi per
niente) nelle occasioni ufficiali. Cioè: cambia la nozione stessa di democrazia,
che questo paese bene o male ha praticato dal ’45 a oggi (tutelata,
se non erro, da certi aspetti non irrilevanti della nostra Costituzione);
b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del proprio Partito
(e, più in generale, della forma partito in quanto tale), nega l’utilità
e l’opportunità della rappresentanza parlamentare. Infatti, tradizionalmente,
fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero
rappresentare l’autentica volontà popolare, e la direzione del Partito
corrispondente c’è sempre stata (almeno dopo la chiusura, per il Pci,
della fase staliniana) una dialettica di confronto e di scambio.
Oggi la rappresentanza parlamentare viene trattata alla stregua di una
semplice esecutrice dei diktat provenienti dalla direzione renziana;
c) La politica si dispiega, per il verbo renziano, come la serie
di atti che servono a raggiungere il più rapidamente ed efficacemente
possibile quel determinato risultato. La direzione di marcia dell’intero
processo, e i suoi riflessi sulla situazione sociale, culturale ed
etico-politica del paese, restano nell’ombra. Probabilmente ci sono, ma meno
si vedono e meglio è (o forse, se si vedessero, sarebbe molto peggio).
Come si dice a Roma “famo a fidasse”.
3) Se le osservazioni precedenti sono minimamente fondate,
salta all’occhio che le caratteristiche “nuove” del renzismo (cioè la
velocissima rivoluzione accaduta negli ultimi due anni nel campo della
sinistra moderata) sono enormemente simili a quelle già verificatesi
nel corso degli anni precedenti nel centro-destra e nella realtà politica
del dissenso e dell’opposizione popolari.
Per vincere Silvio Berlusconi e Beppe Grillo — cosa che non era stabilmente accaduta mai alla vecchia dirigenza post-comunista e post-democristiana — occorreva seguirli sul loro stesso terreno. Questo mi pare davvero inconfutabile: leaderismo assoluto, populismo plebiscitario, discreto disprezzo dei meccanismi istituzionali e costituzionali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rottura degli schemi della vecchia, logora e consunta immagine del politico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo politico” al di là e al di qua dei tradizionali, anch’essi terribilmente obsoleti, limiti politico-ideali, destra, sinistra, e quant’altro ci viene dal passato. Il “nuovo politico” non ha avversari: ha solo concorrenti, da battere più o meno sul loro stesso terreno. Fra loro potrebbero persino intendersi: e non è detto che almeno su certi terreni, per esempio la nuova legge elettorale, questo non accada.
Per vincere Silvio Berlusconi e Beppe Grillo — cosa che non era stabilmente accaduta mai alla vecchia dirigenza post-comunista e post-democristiana — occorreva seguirli sul loro stesso terreno. Questo mi pare davvero inconfutabile: leaderismo assoluto, populismo plebiscitario, discreto disprezzo dei meccanismi istituzionali e costituzionali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rottura degli schemi della vecchia, logora e consunta immagine del politico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo politico” al di là e al di qua dei tradizionali, anch’essi terribilmente obsoleti, limiti politico-ideali, destra, sinistra, e quant’altro ci viene dal passato. Il “nuovo politico” non ha avversari: ha solo concorrenti, da battere più o meno sul loro stesso terreno. Fra loro potrebbero persino intendersi: e non è detto che almeno su certi terreni, per esempio la nuova legge elettorale, questo non accada.
4. Il dato forse più significativo di tale processo è che
esso ha acquisito rapidamente un vasto consenso popolare. Il “popolo”
(insomma, più esattamente, un quoziente piuttosto vasto dell’elettorato
del Pd, con ramificazioni significative negli altri elettorati) segue
Renzi su questa strada. Da più parti si sente ripetere: «Con Renzi si vince».
Importa meno sapere “cosa si vince”, purché sia raggiunta una ragionevole
sicurezza che “con Renzi si vince”. Dunque, leaderismo, populismo plebiscitario,
liquidazione dei partiti, un discreto disprezzo per il gioco parlamentare
e per le istituzioni che lo garantiscono, hanno fatto breccia in profondità.
Media — organi di stampa, televisioni, opinion makers — si allineano sempre
più entusiasticamente. Uomini inequivocabilmente di sinistra (Vendola,
Landini) sembrano guardare con simpatia alle possibilità di manovra,
che il “nuovismo” renziano consente loro (per forza, meglio che star fermi,
oppure restare per sempre marginali!).
5. Dunque, c’è stato, come sempre accade in questi casi, un processo
di reciproco riconoscimento tra il leader nascente e le masse mutanti
(ne hanno discorso recentemente Eugenio Scalfari ed Ernesto Galli della
Loggia rispettivamente su la Repubblica e il Corriere della Sera: tornerò
prossimamente su tale argomento). Si potrebbe ragionare a lungo su
tali processi. Quel che conta è però che siano avvenuti. Constatarlo
non significa però sapere come contrapporvisi. Anzi: è difficile
interporsi soprattutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale congiungimento
avviene. E tuttavia, il momento in cui il congiungimento avviene
è però anche quello in cui una possibile interposizione va elaborata
e presentata; altrimenti la partita è chiusa come minimo per un
decennio. Ma qui conciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di contrapporre
soltanto un’ipotesi politica a un’altra, per ora prevalente. Si
tratta, per riesumare una vecchia, detestatissima terminologia, di
ricreare una cultura politica della sinistra, ancorata alla tradizione
(tutto quel che c’è di buono al mondo ha un passato e una storia)
e al tempo stesso moderna, modernissima, più dell’altra che, tutto sommato,
non vede molto più al di là della punta del proprio naso. Ossia. cominciare
a dire ragionevolmente quel che si vuole e prima di dire come lo
si vuole. Resta dunque qualcosa del passato: diversi. Ma nuovi: non più comunisti.
Questa è la scommessa. Resta tutto sommato credibile dal fatto che in
Italia di così ce ne sono tanti, li conosco e ci lavoro insieme. Difficile
è stendere la rete fra le loro non sempre facilmente assimilabili
diversità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di durissima carestia
è esattamente quello che bisogna tornare a fare.
6. Prima di chiudere vorrei esibirmi nell’ultima farneticazione
politica, anzi politicistica. Se le cose stanno come il passatista dice,
bisognerebbe evitare a ogni costo che il governo Letta cada e si
vada, come gli homines
novi più o meno
concordemente auspicano, al voto.
Per tre motivi (almeno): a) bisogna evitare che la destra si
ricompatti;b) bisogna
elaborare una buona legge elettorale che senza equivoci assicuri in questo
paese l’alternanza: il doppio turno e le preferenze (possibilmente
più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per ottenerlo ci
vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo bisogno di tempo per elaborare,
proporre e imporre una nuova cultura politica, della sinistra, con le
conseguenze che un tale processo potrebbe avere sull’intero assetto politico
e civile del paese.
Sono argomentazioni paradossali per uno che invita
a resuscitare la vecchio-nuova sinistra? Sì, è vero. Ma il paradosso
è la nostra attuale condizione di vita — persino della vita pubblica
e civile (talvolta personale), oltre che politica. Fare a meno
del paradosso oggi non si può. Perciò è necessario astutamente
governarlo.
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